Nascita
di una nazione. David
Wark Griffith. 1915. USA.
Attori: Lillian Gish, Henry
B. Walthall, Mae Marsh, Miriam Cooper, Robert Harron, Ralph Lewis, Mary Alden,
George Siegmann, Walter Long, Wallace Reid
Durata: 159’
Titolo originale: The
Birth of a Nation
Seconda metà dell’800. Non ancora
gli Stati Uniti d’America. Due famiglie, due schieramenti, due razze, due
tempi, una nazione. Gli Stoneman e i Cameron, il nord della Pennsylvania ed il
sud del South Carolina, i neri ed i bianchi, nascita di una nazione e
ricostruzione, il Ku Klux Klan.
Per il primo grande, sontuoso
esempio di cinema, forse la storia più brutta mai portata sullo schermo e sulla
quale non è necessario soffermarsi se non per dire che fu ispirata ai romanzi L’uomo
del clan (The Clansman – titolo con il quale la pellicola fu presentata per
la prima a L.A.) e The Leopard’s Spots di Thomas Dixon, un
pastore battista. Figlio di un generale sudista razzista, Griffith non poteva,
infatti, scegliere una celebrazione peggiore per fare uno dei film che avrebbe
dato vita al cinema. Pregi cinematografici, infiniti…. Nascita di una
nazione rimane comunque uno dei più grandi film della storia del cinema
muto a dispetto di coloro che, per quanto giustamente, stigmatizzano il suo
razzismo (Massimo Moscati – Breve storia del cinema – Bompiani). Tema del
doppio, come si è detto, strutturato e disseminato per tutta la na(rra)zione, a
partire dall’ostilità, che introduce il gatto ed il cane, e che arriva
sul campo di guerra nell’abbraccio-bacio-abbandono al sonno mortale di due
militari nemici, sino al ricongiungimento finale. Uso delle comparse come
elementi che partecipano alla definizione della scenografia: la scena del ballo
che anticipa la prima vittoria di sudisti (con la gente sulle scale in campo lungo
e la folla di ballerini); le battaglie sontuose in campo lunghissimo; le parate
militari… Montaggio: salti spaziali, contemporaneità (le tre azioni finali
parallele che definiscono il cosiddetto montaggio alla Griffith: Elsie
aggredita dal governatore mulatto Lynch, i Cameron aggrediti in casa loro e
l’arrivo tempestivo del K.K.K.) e rappresentazione dell’altrove (stanza di
Lincoln rappresentata con mascherina sulla m.d.p.). Due movimenti di m.d.p.: il
carrello all’indietro su Phil Stoneman che conduce l’attacco sudista al fronte
nemico (inquadratura falso piano americano) e sulle cavalcate dei terribili
membri del K.K.K.; la brevissima panoramica che introduce lo sbarco: da
sinistra (in campo medio stretto, una madre con figlie) a destra (in campo lunghissimo,
lo sbarco ad Atlanta). L’insieme di tutte queste innovazioni, e la maestosità
della produzione (nove settimane di riprese e cifra record di 110.000 $),
portarono definitivamente il cinema lontano dal contesto teatrale (nessun
teatro avrebbe guadagnato, infatti, 15 milioni di $, quanti ne incassò il
film). Griffith anzi, ebbe il coraggio di portare il teatro dentro il cinema
nell’incredibile omicidio del presidente Lincoln, nella quale sequenza si
possono rintracciare elementi di controcampo che coinvolgono più di un punto
d’osservazione. L’opera rappresentata era Our american cousin, con Laura
Keene. Vale la pena ricordare la brutta rappresentazione del parlamento a
maggioranza di uomini di colore, il momento forse in cui più di tutti il
regista aggredisce l’umanità di quella che all’epoca era vista solo come una
razza. Durante la prima settimana di proiezione a N.Y., la pellicola
arrivava a 13 bobine (13.058 metri), poi ridotta a 12 e mezza (12,500 m) ed
infine a 9 bobine e mezza nell’edizione sonorizzata del 1930 (9.500 m) (F. Di
Giammatteo – Dizionario del cinema americano). Billy Bitter e Karl Brown
furono i direttori della fotografia mentre Erich von Stroheim (l’uomo che
cade dal tetto), Raoul Walsh (l’assassino di Lincoln) (il Mereghetti – Dizionario
dei film 2000) e Jack Conway fecero gli assistenti alla regia (il Morandini –
Dizionario dei film 2004). Per risposta alle polemiche, che non si
placarono nemmeno con The rise and fall of free speech in America
(pamphlet che fece inserire prima dei titoli di testa e nel quale s’appellava
alla libertà d’espressione) girò il seguente kolossal Intolerance
(1916). Scrisse Ejsenstein su Nascita di una nazione, ma soprattutto su
Griffith “…è dio Padre. Egli ha tutto creato, tutto inventato… Per quanto mi
riguarda, gli devo tutto” (Massimo Moscati – Breve storia del cinema –
Bompiani). In realtà, sebbene fu The birth of a nation a dare
il colpo di grazia ad un certo tipo di cinema ancora legato al fenomeno da
baraccone, in Europa esso sbarcò solo dopo la fine della prima guerra mondiale,
in Francia nel 1921, mentre già altre opere prima di questa avevano battuto la
strada del lungometraggio: in Italia i primi esempi prodotti erano stati La
caduta di Troia (1910) di Giovanni Pastrone, Quo vadis? (1913) di
Enrico Guazzoni e Cabiria (1914) ancora di Pastrone. Tutto Griffith è
già in Italia negli anni ’10, come egli stesso ammetterà (Massimo Moscati –
Breve storia del cinema – Bompiani). Ne esiste a mio avviso un solo remake,
con debite ed intelligenti rivisitazioni e modifiche per fortuna, ed è Gangs
of N.Y. (2002) di Martin Scorsese.
Bucci Mario
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