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Deux
Anno: 2002
Regista: Werner Schroeter;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia; Germania; Portogallo;
Data inserimento nel database: 22-04-2003


Deux: Schroeter-Huppert

Werner Schroeter

Deux

Visto all'18° festival internazionale di film con tematiche omosessuali - Torino




 



Regia:  Werner Schroeter
Sceneggiatura:  Cedric Anger, Werner Schroeter
Fotografia:  Elfi Mikesh
Montaqgio:  Juliane Lorenz
Suono:  Philippe Morel
Scenografia:  Alberto Barsarcq

CAST

Isabelle Huppert, Bulle Ogier, Manuel Blanc, Arielle Dombasle, Annika Kuhl.

Produzione: Paulo Branco per Gemini Film
34, Boulevard Sebastopol, 75004 Paris - Francia, tel 33 1 44541721 fax 33 1 44541725; [email protected]
Durata: 84'
Anno: 2002
Nazione: India

 -

 


Il film ha spiazzato tutti i recensori, folgorati ai festival di Cannes, Rotterdam e Taormina dalla esperienza di un film che pone sullo stesso piano un vago canovaccio e la suggestione delle singole situazioni, tutte infarcite di citazioni dotte, rebus da melomani, gusto per l'inquadratura di per sé fatta dipinto, riferimenti filmografici colti (quello più evidente è il marinaio di Querelle de Brest).

Querelle

L'isteria ha provocato recensioni scomposte che denunciano la scarsa volontà di uscire dagli stereotipi: in realtà è davvero faticoso il percorso, perché è lo spettatore a doversi districare innanzitutto tra le due Isabelle Huppert, gemelle che nella schizofrenia così prodotta rappresentano l'intera gamma di figure femminili dell'immaginario maschile: da Maria a Magdalena, sante e puttane. Si trovano completate da una madre che in realtà è totalmente assente, avendole abbandonate subito: con lei la tipologia femminile è completata. A partire dallo sguardo maschile gradualmente si avverte una presa di coscienza e di potere delle donne che formalizzano lo spazio, lo creano - non lo occupano soltanto più come prima - dandogli una forma debitrice delle arie del melodramma, che percorrono la colonna sonora popolate dalla amata Maria Callas (molto Donizetti aleggia nelle sequenze del film) e trovano materializzazione in figurine, si incarnano in creature come un uccello blu, diventano tangibili.
Non è casuale che La morte di Isolda sia cantata alternata alla Morte del soldato: il militare, un elemento che torna spesso, insieme alla violenza («Il faut tuer tous les femmes enceinte»); un'opera dove si fa fatica a cogliere tutti i dati forniti, perché si sovrappone un testo poetico alla significazione derivata dalla musica, mentre si rimane incantati a guardare le inquadrature che vengono create sotto i nostri occhi, come nel caso delle viscere traboccanti dal corpo della rappresentazione della (madre?) uccisa.
In realtà la madre portoghese è tornata nel paese iberico (forse, ma non è importante), impegnata in promiscue relazioni amorose e il ricorrente richiamo del serial killer che omaggia di una rosa i corpi di cui fa scempio sono tutte estetizzazioni dell'atto violento (e tra questi viene specificato da una sequenza particolarmente significativa che mettere al mondo è un atto violento) "sviscerato" sotto ogni aspetto e messo in scena estraendo proprio i visceri, il vomito, tutte le secrezioni dei corpi affinché non rimanga nulla di inespresso relativo alla violenza, che è uno dei fili che intessono questo broccato di immagini e suoni intessuto come fosse un collage patchwork, ma raffinatissimo: basti pensare a quanto Genet si riversa ad esempio nella deposizione o in quel bacio saffico sulle scale, che traspone al femminile l'immaginario di Genet-Fassbinder (compresa la sterilità del rapporto sessuale: «On s'aime de 10h ˆ 11h»), o ancora di più nelle divise dei tanti militari, che non sono mai altro che figurine di un album estrapolato dalla guerra, semplici oggetti di desiderio imbustati in divise. E questo canta Magdalena quando impara la romanza «J'aime les militaires», completando il puzzle i cui tasselli s'incentrano sulla storia della madre con il militare apparso alla finestra e che tutto fa supporre sia l'inizio della storia dove i tempi sono mescolati inestricabilmente.



Il tema della fuga percorre il film, che infatti ha una mobilità interna non solo data dalle locations diverse, ma anche da una sorta di nomadismo mentale, che proviene non solo dalla pletora di riferimenti culturali, ma anche per il fatto che a ogni svolta narrativa i personaggi sono sempre diversi, come dislocandosi nello spazio in modo differente mantengano un'unità propria, ma siano cangianti nelle reazioni, che li rendono nuovi anche se le situazioni spesso si ripetono, o addirittura si sviluppano diversamente da come si erano consumate in precedenza (e di nuovo non è un puro meccanicismo come in Sliding Doors o Lola Rennt o Smoking/no smoking, come si diceva per Lucìa y el sexo), magari scambiando i ruoli, ricordando Mulholland Drive, di cui l'ambiguità sessuale e la duplicità delle figure femminili potrebbero venire rievocate in questa situazione, se la morbosità non finisse con lo stemperarsi nel cerebralismo e nelle posture: i "quadri" di Schroeter (Magdalena non a caso fa la gallerista) eliminano qualunque reale pulsione sessuale, lasciando spazio a tanti ex voto dove Isabelle Huppert - musa a cui è dedicato il film - si cala in una parte: eroinomane su un treno, lesbica con una occasionale partner, cantante d'opera, animalista, ferita dalla sua volpe, che di nuovo scatena quella violenza sottesa al film, non per esorcizzarla ma per isolarla nella sua estetizzazione, come faceva Fassbinder: i corpi all'ammasso ricordano alcune sequenze del Berlin alexanderplatz.







Così tra sdoppiamenti e corpi che mutano, si feriscono (morsicati a una mano e feriti all'altra, come in una simmetria speculare: la maniacalità del testo fa immaginare che non si tratti di un errore) e si trasformano nell'altro da sè al centro rimane la Recitazione come arte pura (tanto che spesso ritorna l'ambiente del teatro anche in quella sorta di figura paterna che le ha trafugato la bambola e che allestisce un banchetto su un palcoscenico), che s'insinua in ogni ganglio - basti pensare alla scena in cui le due amanti fanno il verso alla radio, provando le lingue in cui si imbattono -, trasportandoci in un universo illusorio, dove c'è solo falsificazione e simulazione. A tal punto che lo spettatore è tenuto ad assumere quei mondi come quelli a cui adattare la sua percezione, imparando da subito a dover riconoscere indizi in ogni sequenza che gli consentano di collocare il tassello nel puzzle: in fondo fin dall'inizio con quella carta postale inviata alle due figlie, unica traccia, il film potrebbe essere letto come la ricerca della madre assente e ogni più labile segno viene rimeditato più volte, sotto ogni aspetto, come in un trance surreale, in cui ogni immagine suggestiva ha diritto di cittadinanza e il testo poetico letto fuori campo, a volte collocato su un piano estraneo a quello dell'immagine, assume il ruolo anodino di sublimazione della parola e non come sempre di commentatore o integratore dell'immagine.
Paradossalmente c'è un surplus di informazione: ogni mezzo, ogni codice, viene adottato per comunicare, eppure allo spettatore è richiesto lo sforzo di accogliere ogni immagine evitando di decrittarla come è abituato a fare, e a fronte di un'iperaccumulazione di dati, ci troviamo spaesati e frastornati, impegnati a mettere insieme tutto per arrivare a un unico significato impossibile, perché non c'è, o perlomeno il bello del film sta nel poterlo seguire su più livelli e infinite volte sempre interpretandolo in modo diverso; un po' come per il cinema surrealista, ma con un'accumulazione di senso in più del semplice onirismo, molto più sovrabbondante e dove i legami formali e inconsci si intrecciano con sensi e situazioni ripetuti e ipersignificativi, dove due lettere ad Arafat in due momenti diversi e opposte nel contenuto, trovano senso dalla sequenza descritta, che non ha alcuna attinenza, ma nel contesto di violenza trovano una loro motivazione, che non è spiegabile, ma è frutto della sinestesia.
In questo coacervo di frammenti di detriti di narrazione che non riconducono a nulla se non al testo stesso - unico in grado di conferire loro ancora una parvenza di unità - convivono la sublimazione che deriva dal riconoscere Vermeer nell'inquadratura della Donna che legge una lettera - ed il rimando non può che ricordarci che quel dipinto fotografa una gravidanza (che in questo film è centrale da ogni punto di vista) - e contemporaneamente precipita questa sublimazione nell'abiezione e nel grottesco delle viscere e della putrefazione, raggiungendo quasi un'esaltazione mistica a sguazzare nel sangue e compiacersene, inghiottendo il vomito del proprio doppio. Il kitsch accompagnato all'arte al punto da non sapersene più districare. Duplice e inestricabile, come tutto nel film a partire dal titolo, come yin e yang, nel film non c'è presa di posizione precisa su nulla: tutto viene prospettato da punti di vista opposti, tutti con gli stessi diritti di cittadinanza. Come le due sorelle che vivono nell'ignoranza l'una dell'altra e percorrono il film per ricostituirsi, accumulando i pezzi per arrivare a una terza figura che a tratti è la madre e a tratti è tutto il contorno di citazioni che si fa matrice unica solo per il breve momento di scinderla di nuovo per partenogenesi di un montaggio volutamente schizofrenico, mai cercando di agglutinare un senso che non sia quello dell'accumulazione, contro la quale l'unica forza che può finalmente azzerare il kitsch e restituire grazia: alla morte di Magdalena infatti la sorella Maria che la uccide, ponendo fine alla duplicità e alla continua moltiplicazione caotica si sotituisce la staticità spesso messa in scena con la ricerca del punto sublime in cui fermarsi(tante volte ricercata in infinite deposizioni), dice: «les autres ne comprendraient pas, mais c'est une oeuvre d'amour», contrapposta alla violenza dell'atto di nascita.



Una notazione rimane ancora da fare a conclusione di quanto si diceva all'inizio: un qualunque approccio critico non ha i mezzi per restituire degnamente il lavoro fatto dagli autori... e questa pagina non fa eccezione.