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Le Fils
Anno: 2002
Regista: Jean-Pierre Dardenne; Luc Dardenne;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Belgio;
Data inserimento nel database: 15-10-2002


Il Figlio

Le Fils

regia : Luc et Jean-Pierre Dardenne
sceneggiatura: Luc et Jean-Pierre Dardenne
fotografia: Alain Marcoen
montaggio: Marie-Hélène Dozo
suono: Jean-Pierre Duret
scenografia: Igor Gabriel
costumi: Monic Parelle
produzione: Archipel 35
coproduzione: Les Films du Fleuve
produttori: Luc et Jean-Pierre Dardenne, Denis Freyd
distribuzione: Lucky Red
Durata: 1h43
Francia, 2002
cast: Olivier Gourmet, Morgan Marinne, Isabella Soupart, Rémy Renaud, Nassim Hassaïni, Kevin Leroy, Félicien Pitsaer

Lo spaesamento che colpisce nel momento in cui il mondo perde senso a causa di una tragedia intima, quando muore un figlio - un evento contronatura che lascia attoniti, mutando la percezione degli oggetti, chiudendo tutte le prospettive, facendo franare affetti (come aveva già intuito Moretti, che non a caso intitolò La stanza del figlio, limitando spazialmente il dolore, come a volerlo racchiudere e sigillare) - è qui realizzato in modo scarno, ma efficace nelle inquadrature che occludono la possibilità di guardare: lo sguardo è limitato a minimi spiragli che sono ridotti dall'incombenza dei muri. Strutture architettoniche opprimenti comprimono l'aria in altezza e le pareti ravvicinatissime - come nello zigzagare di Moretti nei meandri della sua casa - sembrano sempre frapporsi tra il protagonista e il mondo, o meglio tra la sua vista, appannata dal chiodo fisso che gli ha sconvolto la vita, e gli eventi. O ancora meglio tra quello che lo spettatore vede, ancora ignaro del fatto scatenante, appollaiato dietro la nuca in una falsa soggettiva incombente, che dà la cifra della scelta di un cinema del pedinamento, molto vicino alla prima Chantal Akerman.
C'è persino un momento in cui il pedinamento è al quadrato: Olivier segue Francis, il ragazzo, per capire, scoprire qualcosa su di lui e magari ottenere una spiegazione (che poi solleciterà nel finale in una splendida sequenza in auto, dove con un climax insostenibile si aggiungono tasselli per completare il quadro all'interno del quale si può consumare il finale); ma anche la moglie è chiamata a pedinare i due protagonisti, perché ha un altro schianto nella propria vita, diverso eppure uguale, da rimarginare e lo fa con rabbia. Difficilmente ne uscirà: il rancore è enorme, ma è anche l'atteggiamento più stereotipato, quello razionale, quello a cui aderirebbe la maggioranza. Il film mostra l'altro turbamento. Meno urlato e poco meditato: Olivier si lascia condurre dall'istinto. non servirebe a nessuno la radicalizzazione dello scontro.


Il destinatario di quella falsa soggettiva (già di Rosetta, nel film precedente si troncava il racconto nel momento in cui non interessava più seguirlo) viene messo gradualmente a parte di quello che sta accadendo. Cosa che non avviene per il ragazzo, che così da carnefice, responsabile dell'omicidio e dunque del fatto scatenante, diventa vittima della narrazione, perché tra noi, Olivier e lui, è l'unico a non sapere e tutta la seconda parte del film, dal momento in cui siamo anche noi informati, è una lenta emersione di come ci saremmo regolati nei panni del protagonista. Non ci limitiamo soltanto ad assistervi: no, grazie a quella immedesimazione iniziale, che lentamente si attenua per lasciare spazio a entrambi sullo schermo, lasciandoci così soli a pedinare, siamo costantemente chiamati a confrontarci con quei gesti minimali, con la precisione del mestiere, tanto da avere l'agio di condividere la triste giornata del falegname (non un raggio di sole, ovviamente); il risultato è che ci chiediamo a ogni sequenza come reagiranno - entrambi e noi - i protagonisti, nel momento in cui tutti avranno le stesse conoscenze della situazione.

I dettagli del lavoro sono parzialmente precisi, nel senso che abbiamo sempre solo il dettaglio, mai il prodotto, veniamo colpiti dai rumori derivati dall'agire sul legno degli attrezzi e non veniamo messi a parte con macro del taglio effettuato, del buco prodotto, perché l'attenzione è spostata sulla percezione - è un cinema fenomenologico? - non deformata, ma convogliata su dettagli che non lasciano spazio al resto; in questo trova esplicitazione la capacità del falegname di valutare una dimensione, millimetricamente calcolare una distanza con un semplice colpo d'occhio: un talento che colpisce l'adolescente, catturandone il rispetto («Lei è forte!»). Per entrambi esiste un disturbo della percezione - derivante dallo stesso episodio - che si manifesta in un caso con quella precisione senza che un senso la legittimi, senza che la percezione del mondo sia regolata dalla medesima certezza, dall'altro gli psicofarmaci permettono di convivere con se stessi, ammantando la realtà di cinismo.
È proprio quell'equilibrio insito nel lavoro di artigiano, nel riconoscimento del legno, del tipo di albero, attraverso l'appropriazione prima di tutto tattile e poi dimensionale della realtà che può esistere una redenzione: infatti il ragazzo sarà l'unico degli apprendisti a non saper dosare i pesi del trave da trasportare su una scala (di nuovo imparare a rapportarsi allo spazio, un esercizio a cui si applica anche la mdp) all'inizio, ma non alla fine, quando la ripresa del lavoro insieme tronca il racconto, perché quella sarebbe un'altra storia, non più fatta di appropriazione di una dimensione del reale, che pacifichi il passato.

Il rapporto con la moglie è regolato invece da una stessa pena, a cui si danno risposte diverse e gli autori lo introducono proprio per dare una nuova pietra di paragone, di nuovo alla ricerca di un dimensionamento, che questa volta proviene da un confronto di metri di giudizio e di reazioni; a partire da un silenzio imbarazzato che azzera gli ultimi scampoli di sonoro affidato alla segreteria telefonica. Da quel silenzio calato sulle due esistenze si ottiene il valore della divisione dei due coniugi, la loro distanza incolmabile anche se è una delle poche inquadrature che vedono due personaggi vicini, sfiorarsi. Con la macchina da presa che inquadra ora l'uno ora l'altro, quasi impossibilitata a contenerli entrambi in uno stesso quadro. E allora oscilla tenuta per il filo delle frasi smozzicate: «Io mi risposo», «Fai bene», «Avevo voglia di ricominciare qualcosa». C'è un sussulto nella rincorsa: un tassello mancante, che si affaccia con la sua violenza solo in quel momento: la somma delle coincidenze. Appare l'assassino che ha causato il loro allontanamento e la moglie compare contemporaneamente a sancire la separazione. Di nuovo un'operazione matematica: la somma di tasselli. Di lì inizia l'osservazione, il pedinamento, la valutazione da cui deriva la decisione su come comportarsi. Ma non c'è una cabala. O forse sì ed è legata al bisogno di confrontarsi con l'oggetto del proprio odio, per scoprire che l'odio è sfuggito, come scivolato via, sciolto.

D'accordo con Andrea Caramanna che Bresson sia tra gli ispiratori dell'opera dei Dardenne, però non arriverei a sfiorare la metafisica della chiosa del suo articolo. Non perché ci siano pulsioni che inficino questo sbocco, ma perché penso di ravvedere un uso della materia che si affranca da bisogni metafisici attraverso la rappresentazione degli oggetti che entrano nell'orbita di Olivier: dapprima sono semantizzazioni di oggetti che si fanno così prossemica, pura materia di cinema: travi di legno adottate per aggiungere episodi al racconto, bottiglia sul tavolo di un'esistenza gettata da ragazzino... e questo potrebbe sbilanciare il racconto sul lato metafisico di ricerca dell'Essere; poi però quegli oggetti diventano nuovamente presenze estranee al film grazie alla casualità della inquadratura, al fatto che entrano in campo per un'oscillazione della ripresa che le inquadra, sfiorandole e ricollocandole in questo modo in una dimensione del reale non più raggiungibile dal linguaggio cinema: ridiventano oggetti del reale, catapultandoci nella dimensione del reale, dove ogni produzione di sonoro è significante, dove si percepisce anche il silenzio che cala improvvisamente e non si usa nessuna musica da riempitivo, e nemmeno la si introduce artatamente attraverso fonti interne. Lo stesso processo dell'azzeramento sonoro da distrazioni possibili si ottiene attraverso la minuzia dello sguardo sui gesti del lavoro, che per un attimo diventa prassi filmica e poi si fa di nuovo mestiere. In quella precisione di gesti, che non possono essere diversi e che vengono registrati nel loro intervenire sul possibile errore, si colloca una dimensione che non può essere di finzione filmica e appartiene solo alla ingegnosità del lavoro consapevole. L'affrancamento dall'odio, che l'episodio di violenza che unisce i due protagonisti trascinerebbe con sé, proviene solo dall'applicazione meticolosa delle conoscenze fisiche di un lavoro artigianale di trasformazione di un elemento naturale e non da calcoli ermeneutici o trascendentali. Serve un metro per misurare le emozioni?

Tutto scorre. Forse più che Husserl o la metafisica sarebbe il caso di rifarsi a Eraclito, dove la contraddizione tra elementi è possibilità di crescita; il divenire. Ecco, forse ravviserei questo processo, anziché la staticità dell'Essere in qualche modo parmenideo. Autoritario, mentre qui anche l'atteggiamento didattico non ha nulla di totalitario (la prima inquadratura frontale di Olivier è proprio quando spiega ai ragazzi, quasi che in quella situazione si offra con totale franchezza), al limite pitagorico per quella fascinazione assegnata alla capacità del tutto empirica di valutare le distanze. Ma proprio questa sorta di magia rende distanti i concetti di reale e razionale: la razionalità avrebbe previsto un diverso atteggiamento del padre orbato del figlio dall'assassino che aveva di fronte, il quale non lascia trapelare alcun pentimento autentico. Invece non lo strozza, come in Minority report, potrebbe, ma non può: non si tratta di perdono cristiano o di razionale conseguimento di una consapevolezza: semplicemente si colloca in un'altra dimensione da quella dove è avvenuto l'omicidio e forse addirittura l'assassino può sostituire il figlio, imparando la provenienza del legno.
È strano che due film così distanti, lo scarno Les Fils e l'ipereidomatizzato film di Spielberg, prendano spunto dal medesimo motivo scatenante e si ritrovino - a distanze siderali - a risolvere la identica mancanza iniziale con la stessa scelta di rifiuto della vendetta. Serve un metro per misurare le emozioni? Forse è sufficiente misurarsi con la possibilità: avere la possibilità di scegliere, come i due episodi ambigui nelle precognizioni precog del film di Spielberg; soltanto chein un caso si descrive il travaglio seminconsapevole, regolato dalla mancanza di certezze, che invece sono duplicate come accozzaglia di buoni sentimenti nell'altro thriller con finale ricomposizione statica dell'Essere che spunta al di là delle immagini virtuali della tecnica, descritta come in un racconto di Jünger; invece la vecchia Europa stavolta propone una nuova dimensione, un divenire del rapporto tra i due, fondato su una percezione della materia, che si radica nell'insegnamento, ma che no proviene dal carisma del maestro e non trova automatica applicazione dei precetti del docente-guida, bensì vanno trovati stimoli e l'equilibrio si trova insito nella natura (del legno), come di legno sono le biglie di Minority report, che sono "uniche" nelle loro venature, levigate e bellissime, ma che nella loro asettica plasticità negano la natura (se non recuperandola attraverso improbabili giardinere eremite), di cui non conoscono l'asse grezzo di provenienza, che va individuato e lavorato (cioè non conoscono Francis, cheha ucciso davvero e non virtualmente).