Un amore è un bel film perché, a differenza di molti film italiani,
gode di una sceneggiatura che è forte, ma sta al proprio posto; una
sceneggiatura che non invade il campo delle altrui competenze. Invece
molto spesso troviamo sceneggiatori con troppo potere, che magari sono
anche bravi, ma che vincolano troppo il "filmage", che resta così
soffocato. Per di più molte volte in Italia ci si mettono gli attori
troppo celebrati. Ora invece Tavarelli costruisce un film
rischiosissimo, tutto incentrato, come è, sui due protagonisti. Ma
astutamente, in questo andare avanti e indietro nel tempo, fra incontri,
reincontri, innamoramenti e disamori, crisi isteriche e noia, non ha
l’ambizione (o la presunzione) di parlare di questi due giovani (giovani
all’inizio, chiariamo, anche se in Italia si è considerati tali fino a
50 anni: io poi ho gli stessi anni della protagonista, lui non so) come
di due "tipi" rappresentativi di un’intera generazione. No, questi due
sono questi due e basta.
Si amano e poi si detestano, si incontrano per caso e poi riscoprono che
non possono fare a meno uno dell’altro. Intanto, il panorama, appena
tratteggiato (anche qui, molto umile il regista nel non voler dipingere
a tutti i costi lo sfondo sociologico) di una Torino prima
universitaria, poi trafficona, bella soprattutto nelle malinconiche e
nebbiose notti (e infatti è proprio così) accompagna crisi e
controcrisi. C’è un aspetto, sugli altri, che mi pare degno di nota: le
crisi peggiori vengono dopo l’adolescenza, la maturità che dovrebbe
sopraggiungere a un certo punto rovina clamorosamente, e si squaglia
come neve al sole. Anzi, le bizze si fanno più frequenti, gli isterismi
pure. Salvo che un giorno, chissà, le carte si mischino ancora una
volta. Alea e paura delle "rotture" (non delle seccature, voglio dire,
ma delle separazioni, dei traumi): è una caratteristica, credo,
abbastanza ben individuata in questa nostra generazione, anche se, come
si diceva, sembra un’attribuzione dei soli protagonisti.