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Nessuno scrive al colonnello
Anno: 1999
Regista: Arturo Ripstein;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Messico;
Data inserimento nel database: 01-09-2000


El coronel non tien quien le escriba

"I tempi cambiano, ma io non cambio d’abito"

Nessuno scrive al colonnello

Regia: Arturo Ripstein – Sceneggiatura: Paz Alicia Garciadiego dalla novela di Gabriel García Márquez – Fotografia: Guillermo Granillo – Montaggio: Fernando Pardo – Scenografia: Antonio Muños Hierro – Musica: David Mansfield – Suono: Jorge Ruiz – Costumi: Guadalupe Sánchez –
.

Interpreti: Marisa Paredes (Lola, moglie del colonnello), Fernando Luján (il Colonnello), Salma Hayek (Julia), Ernesto Yáñez (Don Sabas), Rafael Inclán (Padre Ángel), Odiseo Bichir (Doctor Pardo) –
Produzione: Jorge Sánchez, Gerardo Herrero, Thierry Forte per Fox–
Distribuzione: KeyFilm

Messico, Spagna, Francia, 1999, 118’

Il colonnello gli tolse il gallo dalle mani. «Buona sera,» mormorò. E non disse altro, perché la calda e profonda palpitazione dell'animale lo fece rabbrividire. Pensò che non aveva mai tenuto una cosa così viva tra le mani.

Non si pentì. Da molto tempo il paese era prostrato in una specie di sopore, corrotto da dieci anni di storia. Quel pomeriggio - un altro venerdì senza lettera - la gente si era svegliata.

Non è una battuta di Gabo, ma chiarifica l’intento di Ripstein accostandosi al testo del 1961. Allora dovevano ancora sorgere e implodere i movimenti che ci avrebbero regalato il nostro Macondo; Buendía però aveva già ispirato l’intera vita del colonnello: purtroppo abbiamo dovuto attendere l’interpretazione di Ripstein di quel testo per riconoscerci in quella testarda nostalgia in attesa non tanto e non solo del riconoscimento (la pensione), ma anche che trascorra la deriva reazionaria (e clericale: il personaggio del prete censore di film è una deliziosa aggiunta del regista messicano, ma totalmente nelle corde della scrittura del premio nobel colombiano). L’accoppiata dei due latinoamericani ci offre una figura al contempo magica e quotidiana, normale e mitica: un esempio di dignità, un rivoluzionario antieroe che si permette di rifiutare qualunque pensione o denaro offerto dal simbolo della mafia e del potere fascista – che gli ha ucciso il figlio – , non si piega a genuflettersi di fronte alle autorità, tornate trionfanti come prima, con la benedizione dei preti, fiero della propria miseria, non svende il gallo, sua anima e espressione della libertà in cui ha creduto e per cui ha combattuto e vinto.

Allo stesso modo García Márquez consente con molta parsimonia a pochissimi di convertire in film la sua opera: addirittura esiste un racconto (risalente all'interessamento di Rosi a Cronaca di una morte annunciata) che lo vede impegnato a definire criteri per concedere i diritti e analizzare le personalità di chi glieli richiede, negando comunque che sia possibile dare una faccia a Buendía.

L’autore di film mescola molte suggestioni e situazioni del mondo di Marquez, mantenendosi fedelissimo al canovaccio di Nessuno scrive al colonnello, del quale si mantengono battute e soprattutto atmosfera, aggiungendovi alcuni dettagli che arricchiscono l'universo di magica realtà e rivelano più di quanto non facesse il racconto: mai come nel momento in cui la moglie si accascia all'interno del cerchio dei combattimenti di galli con le luci dei fanali accese ("come in quella notte") si ha l'impressione che da quel cerchio promani un'aura che strega, incantando il tempo e lo spazio e lasciando aleggiare lo spirito di Agustin. Infatti proprio lì, in quello spazio magico sia il racconto filmico che quello di Gabo collocano il gesto risolutore.

Durante il pranzo il colonnello comprese che sua moglie stava sforzandosi di non piangere. Quella constatazione lo spaventò. Conosceva il carattere di sua moglie, naturalmente duro, e indurito ancor di più da quarant'anni di amarezze. La morte di suo figlio non le aveva strappato una lacrima

Innanzitutto il regista ha trasportato l'intreccio nel suo Messico: l'umida calura di Veracruz avvolge l'attesa spasmodica del venerdì del colonnello, che serve perfettamente a rendere evidente l'assimilazione tra il mondo di Marquez e l'atmosfera messicana, non solo per il paesaggio interiore che corrisponde con la malinconica foresta che avvolge i dintorni di Veracruz (anche perché Paz Alicia Garciadiego, la sceneggiatrice, è nata nella città atlantica e anche Ripstein affonda le proprie radici nei racconti che gli faceva la nonna di quei quartieri portuali, nei cui odori e umori ha voluto intingere la novella di Marquez), ma anche per la maniera di intendere la vita: appunto il realismo magico. Poi ha aggiunto un fanatico "uomo con la sottana" usuraio che coi rintocchi delle campane, e sulla base della dottrina più oscurantista del cattolicesimo, segnala il livello di liceità della proiezione, a cui ama assistere la moglie del colonnello, perché gli serve per acuire la dose di anticlericalismo e in questo modo ribadisce la propria eredità buñueliana (espressa soprattutto in El Evangelio de las maravillas, che noi non vedremo mai, forse per intercessione papale); tratteggia come pederasta cinico il medico senza ridurlo a macchietta; inventa la figura del killer di Agustin, per dare corpo al nemico e preparare l'apoteosi finale, esplicitando la rocciosa coerenza, che già si era espressa all'inizio con la frase posta ad esergo di questa recensione. Ma soprattutto correda la scena madre, che Márquez aveva lasciato in sospeso, con il recupero del gallo, diventato "gallo del paese", e che nel film invece permette di pronunciare la individuale ribellione all'arroganza del potere, rifiutando la profferta dello sgherro: "Né per tutto il denaro del mondo, né per qualsiasi pensione" il colonnello svenderà il gallo, che ha finito con l'assumere su di sé il significato di riscatto di Agustin, di mantenimento della memoria della rivoluzione (di nuovo attesa con la pensione, senza speranza, dopo che tutto è tornato come prima), l'animale è collettore di tutto quello che è stato il colonnello, prima, come eroe della rivoluzione, e poi, come paziente idealista in attesa di una chimera, mai disposto a venire a compromessi. Non si tratta però di un eroe salvifico (infatti non ama che i giovani si approprino del suo gallo: ciascuno deve farsi il proprio), non è un redentore o un vendicatore delle ingiustizie: salvaguarda soltanto il proprio ricordo di quello che lui stesso è stato, non intende convertire nessuno o rilanciare la rivoluzione, senza sicumera né certezze, se non quel gallo in cui è compresa la speranza di poter tutelare la propria dignità e il proprio ideale di vita.

«Dimmi, cosa mangiamo.» Il colonnello ebbe bisogno di 75 anni - i 75 anni delal sua vita, minuto pe minuto - per giungere a quel momento. Si sentì puro, esplicito, invincibile, nell'istante in cui rispose: «Merda»
Il giorno dopo attese la lancia davanti all'ambulatorio del medico...

C'è una sequenza bellissima: è venerdì, il colonnello attende la sua pensione sul molo e Ripstein lo riprende da dietro, intanto arriva il battello della posta, poi, senza che la macchina da presa stacchi, tutti scendono, compreso il postino, mentre il colonnello, che vedevamo di spalle, si volge.

Il film e il racconto sono contenuti in quel fotogramma a mezz'aria, ineffabile tra i due momenti sul pontile che comprendono la speranza (in gioventù già rivoluzionaria), la disillusione e la testarda fede nella giustezza delle proprie convinzioni libertarie; notare le due luci, maestria del fotografo che cattura tutti i colori messicani in un piano sequenza: la malinconia e la speranza. Prima l'azzurro placido, benché tumultuoso, del fiume e dopo il calore del giallo della baia di Veracruz. Il colonnello conosce la sconfitta, i contorni del disincanto però assumono le stesse emozioni della fierezza: il suo pacato libertarismo è nel giusto e dunque, come un Don Quijote attempato si predispone a ergersi a figura esemplare, che riserva per il finale la summa di quel suo atteggiamento umanissimo, che non può non sfociare nella grande prova di orgoglio; in realtà estensibile a tutti i latinos. Dal testo letterario struggente e nobile cresce l'indomito protagonista: irriducibile alla restaurazione, che nel '61 non era così prepotente.

«Niente per il colonnello?» Il colonnello si sentì terrorrizzato. L'impiegato si buttò il sacco sulla spalla, scese dal marciapiede e rispose senza girare la testa: «Al colonnello non scrive nessuno»

Struggente; triste solitario e … non finale, benché consapevole, eppure non domo. È questo il massimo di tristezza che Ripstein si concede, il resto è storia d'amore, non più appassionata e fou come i suoi precedenti film, ma di un'intensità che passa attraverso i gesti della quotidianità, che fin dall'inizio del libro Márquez aveva voluto sottolineare con quella tazzina di caffè preparata per sé e poi lasciata alla moglie, prima di una lunga serie di attenzioni, che compongono il ritratto di una coppia che fonda il proprio affetto sui dolori (la morte del figlio), ma soprattutto sulla stima, che deriva dal non venir meno alle proprie convinzioni.

Il colonnello capì che quarant'anni di vita in comune, di fame in comune, di sofferenze in comune, non gli erano stati sufficienti per conoscere sua moglie. Sentì che qualcosa era invecchiato anche nell'amore

Proprio a quei tempi risale il primo film di Ripstein, anch'esso tratto dall'opera del colombiano (Tiempo de morir, 1965), con la differenza che in quest'ultimo caso gli attori sono in grado di tenere i tempi lunghi delle sequenze che attraverso le loro espressioni raggiungono la perfezione della coincidenza dell'attesa spasmodica della pensione con la dilatazione degli spazi, alternati tra grandangoli nella casa del compare ingombra di enormi ventilatori (il cui ronzio rafforza la penombra) e i campi ristretti sui due anziani coniugi nella loro casa, e ancora di più del tempo che non trascorre più da "quella sera" in cui Agustin fu ucciso: tutto è un'enorme bolla di umidità giallognola che non lascia cambiare nulla, sembra che nulla possa uscire dal tran tran, fatto di film all'aperto, lontani con i loro sogni che scorrono sullo sfondo, di inutili passeggiate con il panama e l'ombrello solo di figura, le scarpe nuove, che diventano "strette" quando rappresentano la capitolazione e quasi gli impediscono di afferrarsi al suo sogno, per il quale vale la pena di decidere: "Comeremos mierda". E nulla potrebbe essere condiviso con più affetto da una coppia di anziani che in quella indigenza riescono a far affiorare con prepotenza l'enorme amore che si portano e il rispetto per la memoria del figlio, ucciso per ragioni politiche, ci svela Ripstein con il bell'espediente dell'inchiostro rivelatore.

Un film di due ore tratto da una novella di settanta pagine! Attraverso ogni immagine si assapora il tempo trascorso e l'attesa ancora viva, in ogni fotogramma si stratificano i precedenti che contenevano già l'intera vita dei due vecchi coniugi, accumulandosi e attardandosi sulle sfumature di colori, sulla spossatezza dei corpi, sui quali anche ha inciso il tempo e così comprendiamo meglio cosa intendesse il regista, parlando di Nazarín del suo maestro Buñuel:

"La miseria del cinema odierno ha generato la superstizione della tecnica. Pura distrazione dell'arte cinematografica.
Non cerchiamo più la verità nel cinema, ma ne vediamo solo l'abilità tecnica.
La bellezza della prevedibilità poetica si trasforma in insultante impudenza.
Riteniamo brutto un film se non contiene colpi di scena e sorprese mozzafiato abilmente costruite, che paiono il prodotto di stratagemmi da computer.
Squallide soddisfazioni istantanee.
Le platee sembrano costantemente in preda all'affanno. L'incostanza è la regola
La bellezza del tempo fotografato e plasmato è insostenibile
Al centro solo meccanismi speculativi. Non il cuore o gli occhi o il cervello di individui che potrebbero far esplodere il mondo.

"Mi piacciono i sopravvissuti. I personaggi marginali. Le situazioni e le scene in cui le mie creature si trovano al limite delle loro forze. Sono sempre sull'orlo di un collasso. E vanno avanti, vanno avanti, vanno avanti. Mi piacciono i sopravvissuti."

Potrebbe forse sorgere la domanda sulla coerenza del corpus del regista e dei suoi collaboratori fissi: tra l'atmosfera surreale e corrotta di Profundo carmesì, o ancora più allucinata di El imperio de la fortuna (dove già la figura di un gallo da combattimento era centrale) e l'apparente naturalismo di El coronel no tien quien le escriba sembra abbiano poco da spartire; da alcune note di regia relative a Profundo carmesí però si rilevano alcuni tratti comuni a tutta la filmografia di questo gruppo di affiatati artigiani del cinema:

"Mi piacciono i sopravvissuti. I personaggi marginali. Le situazioni e le scene in cui le mie creature si trovano al limite delle loro forze. Sono sempre sull'orlo di un collasso. E vanno avanti, vanno avanti, vanno avanti. Mi piacciono i sopravvissuti."

E allora vide da vicino, per la prima volta in vita sua, l'uomo che aveva sparato a suo figlio. Era esattamente davanti a lui con la canna del fucile puntata contro il suo ventre. Era piccolo, meticcio, con la pelle scura, e emanava un lezzo infantile.il colonnello strinse i denti e scostò dolcemente con la punta delle dita la canna del fucile. «Permesso,» disse