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La Faute a Voltaire
Anno: 2000
Regista: Abdellatif Kechiche;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 09-08-2001


La Faute à Voltaire

 

regia e sceneggiatura
Abdellatif Kechiche

fotografia
Dominique Brenguier
e Maris Emmanuelle Spencer
montaggio
Tina Baz Legal
suono
Joël Riant e Ludovic Henault
prouzione
Flash Films
produttore:
Jean-François Lepetit

provenienza: Francia
anno: 2000
durata: 129'
distribuzionefrancese: Rezo Films
distribuzione: Lucky Red

E nella civile Francia non esiste il reato di immigrazione clandestina!

La Faute à Voltaire

Tutta colpa di Voltaire



interpreti:
Sami Bouajila ... Jallel
Èlodie Bouchez ... Lucie
Bruno Lochet ... Franck
Aure Atika ... Nashra
Olivier Loustau ... Antonio
Virginie Darmon ... Leila

 

 





"Gremito di storia, è un libro in cui si celebra l’assenza della storia. È la favola dell’angoscioso stupore dell’uomo di fronte alla storia, della sofferenza dell’uomo dentro la storia; ma dentro questa favola ce n’è un’altra, come ogni buona favola arriva alla morale della favola: ed è quella dell’indenne trascorrere del destino umano dentro la storia. L’immobilità del movimento. Il movimento dell’immobilità. Il pessimismo più cupo." (prefazione di Leonardo Sciascia al suo Candido, pubblicato a confronto con il Candide di Voltaire nel 1977)

La forza e la debolezza del film si riassume nella pudica e al contempo esausta immagine fissa sull’ingresso di quella stazione metropolitana che ha inghiottito Jallel: pudica, perché, quasi temendo quel che sta avvenendo, non inscena l’ultima delusione del clandestino, estrema forma di rispetto per l’umiliazione e la sconfitta; esausta, perché alla fine sembra arrendersi e rinunciare a seguire la vicenda del giovane tunisino, scegliendo di offrire uno scarto linguistico rispetto alla prassi seguita fino ad allora, fatta di evidenza dei corpi e si rannicchia su una forma di reticenza della brutalità poliziesca (quando si sale con Jallel la scaletta dell’aereo non si può non ripensare alla ragazza che in una situazione del genere proprio in Francia morì soffocata per il cuscino schiacciato contro il suo volto e nemmeno si può dimenticare che persino la XMas rappresentata dal repubblichino Mirko Tremaglia considera vergognosa la legge Fini-Bossi sull’immigrazione).





Quella è l’unica inquadratura non occupata da nessuna persona, si direbbe che con quella assenza si sancisca la mancanza di umanità nel sistema occidentale, messo a nudo in tutta la vicenda raccontata attraverso primissimi piani estremi, che accentuano la sensazione di vedere il punto di vista del giovane arabo, ancor più che se si fosse adottato il criterio di usare uno sguardo in soggettiva che non viene mai adottato: le persone in quella immagine sono sostituite dall’attesa – l’immobilità di cui parla Sciascia. Un’attesa di ciò che sappiamo fin dall’inizio che sarebbe stato l’epilogo, lo abbiamo temuto da che il giovane tunisino si è dovuto far passare per algerino, e ne abbiamo avuto la certezza dopo che la cinecamera lo ha abbandonato sulla soglia di quel moloch-stazione dove si compie il suo destino.
D’altro canto il film trae linfa dal fatto che nulla di veramente tragico – di quella tragicità quotidiana che costella l’esistenza del clandestino, invisibile e privo di diritti quando si palesa, - tanto che anche gli episodi costruiti e paventati non si sfogano mai: nessuno tira una boccia in testa all’altro; gli sbirri non scoprono la falsificazione dei documenti; non viene pizzicato a vendere frutta… Giocare su questi toni medi permette di far emergere una vera vita da clandestino, seppure sembri edulcorata: senza eroismi, ma lasciando qualche spiraglio a una potente umanità che dovrebbe emergere dalle sequenze dedicate a documentare una comunità solidale, che appare un po’ idealizzata, a meno che Emmaus sia un’esperienza unica, che va a coprire il vuoto lascito dal rifiuto di collazionare un pamphlet militante e non del tutto riempito dalla creazione della figura di un essere umano alla mercé degli eventi, senza una sua analisi o una preparazione ad affrontarli.


Se non fosse stato inficiato dal "dogma" danese, già Lovers (evidentemente Elodie Bouchez si è specializzata in ruoli di compassionevole amante di clandestini) avrebbe consentito di leggere il dramma dei sans-papier: mentre là il motivo di fondo è la fierezza di cui dà prova lo slavo, qui sono invece l’innocenza del suo spirito e la partecipazione alle sue vicende che rendono Jallel figura dignitosa – e di conseguenza condannano all’esecrabilità il sistema occidentale – per tutto il tempo che lo seguiamo durante la sua permanenza sull’ostile territorio francese, che gli impedisce qualunque soddisfazione e, estrema beffa, quando sembra trovare sentimenti e una collocazione, lo caccia, riconoscendogli un’esistenza, uno spessore che lo fa uscire dalla trasparente invisibilità a cui la pellicola cerca di sottrarlo mantenendolo sempre ben presente sullo schermo (in carne e ossa) solo quando lo individua per negarlo.


Come capita spesso nei film francesi i corpi dirompono, occupano tutto lo spazio a disposizione. In questo caso è un po’ come se il corpo fosse l’unica proprietà che rimane: una disperazione simile a quella di Memento, dove il corpo diventa palinsesto per recuperare memoria e identità; la stesa cosa avviene attraverso i desideri inibiti da due culture opposte e coalizzate a impedire il recupero di soggettività per un uomo che l’emigrazione ha ridotto a invisibile. Il vero uomo-invisibile, conscio di esistere solo come corpo sottratto al gioco del mondo anche dalle sue radici che gli impediscono lo sfogo sessuale con una ragazza incinta (ma con non lieve contraddizione per quel che riguarda gli alcolici, palesata dalle intollerabili restrizioni sulla vendita di bevande in San Salvario), eppure coinvolto proprio da pulsioni esterne a cui aggrapparsi per poter uscire dalla negazione di esistenza. Anche in questo caso questo Candido, che si lascia vivere non avendo parametri del reale che lo guidino, proprio come il personaggio voltairiano imbevuto di metafisica, si ritrova diviso tra la passione per una donna beur, a sua volta condizionata da esperienze limite che le impediscono di concedersi, e una ragazza ninfomane, molto "disturbata", che corrisponde con lui facendo passare tutto attraverso il corpo ("Dopo la politica facciamo l’amore"). Di qui discende l’occupazione dello schermo da parte della fisicità esasperata dai particolari, mentre lui quando è ritagliato da solo interagisce con un ambiente il più delle volte spoglio, che lo isola ancora di più, infiggendolo nella emarginazione anche visiva: quando è da solo, lo è veramente e nessuna figura umana condivide lo spazio a lui riservato. Un’intuizione davvero da rimarcare e imprescindibile per il futuro: gli ambienti sono quasi sempre completamente spogli, costituiti da muri anonimi, sia nell’ostello, dove la sua espressione spaesata si staglia su un muro bianco di un piano medio, sia nella sotterranea in piano americano addossato a un muro, sia addirittura in strada, accovacciato su gradini che esagerano la vuota ostilità di Parigi-castello del barone di Pangloss e lo estromettono anche dal diritto all’orgasmo, sempre spezzato, rimandato, interrotto. Castrato.


Il film si struttura su due diversi episodi che lo dividono perfettamente in altrettanti quasi autonomi diversi plot complementari, rendendolo così esageratamente lungo: nella prima parte Jallel ha speranze di integrarsi, gode della solidarietà, si illude di affrancarsi con l’amore – benché prezzolato, ma forse non del tutto – e il momento di più raggiungibile felicità si trasforma nella disperazione più nera che gli costa un ribaltamento di atteggiamento: la seconda parte è tutto un tentativo di superare la ferita e nella convalescenza risalire alla superficie, facendosi anche guidare dalla nuova ragazza, che nonostante il suo distacco (corazza che è un primo risultato delle prime cocenti disillusioni), riesce a fargli accettare la vita per quello che è, lasciandosi anche andare allo stimolo dei sensi. Cioè lasciarsi andare a percepire e farsi percepire dal mondo… e forse proprio questa nuova fiducia può essere causa della sua visibilità e dell’epilogo.
La chiosa di Voltaire per il suo Candide ("Gli eventi formano tutti una catena nel migliore dei mondi possibili… "), con la sua carica di pessimismo ironico, è la vera colpa dell’illuminismo: infatti la catena di eventi che accompagnano Jallel lo riportano al punto di partenza: la cacciata dal castello del barone.



La debolezza dell’operazione si concentra nelle singole situazioni che sfuggono alla quotidianità dell’emarginazione aspirando al ruolo di apologhi, spesso con la morale didascalica (come la ricerca vana dei nomi arabi presso il memoriale dei caduti, altre esistenze invisibili pur nell’eroismo nazionalistico, proprio per questo reso più becero dal senso sottilmente intollerante del monumento), però non incidono, anzi: allungano il brodo, sottraendogli la forza derivante dal sorriso di Lucie o dalla grazia di Nashra anche quando fugge ripresa di spalle con le esigenze del suo bambino, o prodotta dal volto spaesato di Jallel, o dagli ambienti. Tranne alcune felici caratterizzazioni (il clochard che enuncia un metodo per ottenere elemosine degno di San Giovanni Crisostomo: "Dobbiamo colpevolizzare la gente.") o l’ostracismo per l’abuso di alcol che sembra proporsi come capitolo iniziale irrinunciabile di un corollario ad uso dei sans-papier stessi, qualora andassero al cinema. L’inquadratura che lo vede sverso sulla metropolitana è perfetta nella sua anomalia di taglio rispetto al resto del film fatto di moltissimi controcampi (surclassati soltanto dai classici profili a due in una stessa inquadratura), almeno quanto quelle che lo mostrano in lacrime dopo il matrimonio sfumato: amara disperazione.


All’interno dei siparietti autonomi dal racconto centrale si rintracciano dunque alcuni appunti, per lo più pleonastici e didascalici, ma anche poetici momenti ben costruiti, come il duetto recitato in metropolitana, o i sogni che scorrono paralleli: a occhi chiusi, come quello di Lucie, che sogna di fare l’amore con Jallel, interrotto dal risveglio quando sta per venire, o a occhi aperti, come quello del bretone, che aveva sognato la sparizione del lavoro: "Tutti pagati, tutti disoccupati".