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In and Out Anno: 1997 Regista: Frank Oz; Autore Recensione: Adriano Boano Provenienza: USA; Data inserimento nel database: 02-02-1998
Regia : Frank Oz
Sceneggiatura : Paul Rudnick
Fotografia : Rob Han
Montaggio : John Jympson, Dan Hanley
Musica : Mark Shaiman
Costumi : Ann Roth
Scenografia : Ken Adam
Interpreti : Kevin Klein, Joan Cusak, Tom Selleck, Matt Dillon,
Debbie Reynolds.
Produzione : Scott Rudin per Spelling Film e Paramount
Pictures
Origine :USA, settembre 1997
Durata :90'
Brevissime note su un film che non vale la pena di una recensione,
data la sua pochezza, ma di cui è opportuno parlare
perché subdolo nei risultati che ottiene sull'immaginario
collettivo.
Il regista de La piccola bottega degli orrori rimane legato
ai clichés di bozzetti: una prassi valida per opere anche
scanzonate e d'evasione come Tesoro, mi si sono ristretti i
ragazzi, che possono ambire a restituire con qualche successo le
velleità di bonaria stigmatizzazione della solita
comunità di villette americana (e lo si vede anche in questo
film, quando parodizza in maniera anche esilarante film come
Platoon), ma quando effettua il salto verso la morale politically
correct diventa imbarazzante o addirittura pericolosa.
Quest'ultimo è il caso di In&out. L'intento non
dichiarato è quello di normalizzare la diversità:
infatti soltanto in questo modo, sembra suggerire la pellicola,
è possibile accettare la disgrazia di annoverare un
omosessuale tra i membri di un consesso come quello di Greenleaf; e
questo atteggiamento nel film, lungi dal descriverlo per censurarlo,
è fatto proprio, come si evince dal finale, quando gli amici
del reprobo, anziché preservarne le caratteristiche, si
pronunciano per un solidarismo altrettanto ipocrita dell'omofobia
(che, come si sa, nasconde una latente omosessualità).
Attraverso un peloso altruismo si fagocita la diversità,
rendendola innocua e liberando i normali (non bulimici ed
eterosessuali) della paura di scoprirsi finocchi.
I sospetti sulla falsità dell'atteggiamento dovrebbero
già sorgere dalla scelta smaccata di fabbricare il film come
una commedia edulcorata à la Frank Capra
Dunque la bulimica potrà riprendere a mangiare e il gay
confessi pure la sua colpa (c'è anche la sequenza della
confessione cattolica, prima ancora della presa di coscienza da cui
il titolo), che rimane tale, perché nella infinita
magnanimità dei concittadini si è disposti a perdonare,
anzi il gioco prevede che ci si accusi dello stesso turpe misfatto,
per dimostrare liberalità. Ma non viene mai messo in chiaro
che non si tratta di una colpa: cadrebbe l'impianto del film, che
prevede di sottolineare la diversità per occultarla meglio
tramite la prassi della cooptazione.
E allora agli occhi della politically correct Giulia D'Agnolo
Vallan diventa (nelle pagine di Ciak!) una sequenza da antologia
quella in cui tutti i più vieti stereotipi di macho e checca
sono elencati senza risparmiarne alcuno. Ed è con il massimo
candore che gli autori ammettono quanto il famoso bacio lungo come
quello di Notorius, il quale (senza che venga spiegato il motivo)
dovrebbe turbare gli spettatori, deve la sua lunghezza non ai motivi
voyeuristici di tutti i baci della storia del cinema, ma a calcoli
autoriali sulla reazione del pubblico, che in questo modo prima della
fine del bacio si abitua alla trasformazione dell'ignaro ed innocente
insegnante in mostro gay e si può riprendere dallo scandalo di
aver visto una scena così conturbante. Di nuovo ci si chiede
perché la scena iniziale di Happy Together dovrebbe turbarci,
mentre la prima sequenza di Betty Blue fu per la critica de la Stampa
una scopata quale ogni donna sogna?
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