regia: paul verhoeven
soggetto: gary scott thompson e andrew marlowe
sceneggiatura: andrew marlowe fotografia: jost vocano, a.s.c.
scenografia: allan cameron
musica: jerry goldsmith
costumi: ellen mirojnik
montaggio: mark goldblatt
effetti speciali: scott anderson
produzione: columbia
usa, 2000, 112'

Lettere come cellule ci immergono in un corpo da Viaggio allucinante...

linda mckay elisabeth shue
sebastian caine kevin bacon
matthew kensington josh brolin
sarah kennedy kim dickens
carter abbey greg grunberg
frank chase joey slotnik
janice walton mary randle
dottor kramer william devane

 

 

Nel passato cinematografico ci sono stati alcuni registi, considerati minori perché solo amanti/amatori (la cinefilia spettacolarmente/specularmente espressa, mediante la mise in abîme, si scontra sempre con l’attenzione/disattenzione dei critici che cercano e trovano nel cinema una conferma del loro profilo intellettuale perché temono l’abisso, il vuoto, la vanità del segno, la sublime/subliminale inconsistenza della poesia dell’immagine che sorprende/smarrisce i codici dello sguardo "informato") della materia (la prassi) filmica ovvero della tecnica della visione, che hanno provato a tradurre in immagini (ergo rendere visibile) l’invisibilità. Il fascino della sfida è insito nel regista/spettatore che desidera vedere senza essere visto, essere nella storia senza viverla e credere innocentemente/perversamente che una emozione vera possa nascere da una "sensazione" falsa (in questo risiede la magia del cinema e Hitchcock ha il merito di averla "svelata"). In futuro lo spettatore/regista probabilmente vorrà vivere il "suo" film senza la mediazione della pellicola (il profilattico dovrà essere sempre più sottile e sensibile) inseguendo sempre più verosimilmente il suo percorso "virtuale". Di qui la macchina cinema rischia di divenire un video-gioco/giogo caratterizzato da una indefinita/infinita soggettiva.
Alla luce di queste considerazioni psycho-sociologiche è impossibile "vedere"un film come L’uomo senza ombra e non pensare all’ennesima sfida che un regista di genere (forse minore?) propone al "grande pubblico" ed a se stesso.

Che cosa significa per Sebastian (un convincente Kevin Bacon) essere invisibile? Paradossalmente per lui significa avere una vita sessuale che non ha (il suo desiderio alimentato dal voyeurismo sfocia nella repressione perché totalmente assorbito dal suo lavoro che lo costringe a vivere in una sorta di realtà che è una gabbia-laboratorio virtuale), avere uno sguardo che non ha (rendersi conto che l’amante della sua donna è il suo più grande amico/nemico), avere un potere che non ha (possiede il segreto dell’invisibilità che gli permette di uccidere/liberarsi dei suoi avversari); in altri termini l’invisibilità gli consente di avere una vita privata e sociale quindi una visibilità (si paragona a Dio ma la sua è una ambizione umana troppo umana che si esprime nella incredibile "carnalità" degli effetti/affetti speciali) che non ha forse mai avuto (persino la sua ex-fidanzata confessa di essersi innamorata non di lui ma del "concetto di lui").

Tutto il film è una soggettiva del protagonista e ne afferma i suoi umori/furori e le sue visioni/riproduzioni (come egli vuole vedere gli altri e come vuole che gli altri lo vedano/non vedano).
Veroheven rappresenta queste conflittualità e "lacerazioni" con due fondamentali colori spesso contrastati/contrastanti nell’arco dell’intero film (il siero
blu-acqua/cielo che dona l’invisibilità quindi realizzazione compiuta/finita del desiderio/volontà di infinito;il siero rosso-fuoco/sangue che riporta l'uomo alla sua visibile condizione terrestre caratterizzata da sentimenti ed idee forti quanto vulnerabili, due colori usati nelle tavole dei libri di biologia per distinguere gli apparati corporei derivanti dagli studi di Leonardo) e con singolari strumenti simbolici quali le maschere "termiche" che rivelano la presenza dell’individuo in virtù della sua temperatura corporea (gradazione di visibilità legata alla gradazione del calore umano).

Questi elementi che invadono/pervadono la pellicola cinematografica in questione la rendono eccessiva, a tratti poco fluida e brillante (anche se la regia è sempre sostenuta e coinvolgente) a causa di una sceneggiatura non sempre all’altezza - in particolare nel finale, ma sottilmente ispirata e necessaria (forse non è consapevole nemmeno di poterlo essere in quanto essa stessa rischia l’invisibilità autoriale da blockbuster) perché sa di contemporaneità e ci sprona come un vigoroso allarme a lacerare il velo/rompere l’opaco vetro (ovverosia la comunicazione mediatica che diventa iperbolica ed alienante nella "vita" virtuale) che ci impedisce di vedere e di avere una vita nostra (che sia incentrata sulle passioni intellettuali/sentimentali nel rispetto dell’alterità).

La non visibilità (reale o fittizia che sia) condanna l’essere umano a vivere con una maschera e nel buio(magari di una sala cinematografica oggi e di una estetica da videogame domani).