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9 ottobre 2010
20 sigarette: Il fumo uccide


20 sigarette
di Aureliano Amadei


"Sulle bombe decida il parlamento"
(dichiarazione congiunta di Ignazio La Russa e Piero Fassino, In mezz'ora, "Raitre", 9 ottobre 2010)

Badate, non la Costituzione e il suo articolo 11, ma un Parlamento fatto di corrotti, delinquenti, fascisti e prezzolati, che hanno il potere di decidere di uccidere migliaia di civili afgani casualmente incocciati in una bomba che piove chissà da dove e perché.
Oggi la Nazione sarebbe sprofondata secondo le loro dichiarazioni in un cordoglio senza limite che viene usato da questi spregiudicati criminali di guerra per finalmente riuscire a fare la guerra esplicitamente senza nasconderla dietro un paravento da Pulcinella di "missione di pace"... in realtà non credo che fuori dai tg importi qualcosa a qualcuno.

Ho apprezzato il film per la sua fattura: l'uso del linguaggio cinematografico è efficace, sia il ritmo che le soluzioni per descrivere per esempio i passaggi di autorità nell'ospedale, adoperando l'accelerazione, sia la precisione della sensazione che si può provare a rimanere conivolti in una situazione di guerra restituiscono genuinità: sembrava di essere minacciati dalla cisterna anche noi in poltrona. Ma il motivo principale per cui ho apprezzato il film è che dismessa la retorica tardofascista (a parte il controverso momento del generale, padre e madre di uno dei defunti) tanto diffusa dalla macchietta che fa il mefistofelico ministro, lascia anche emergere la voce del dissenso alla logica guerrafondaia che impedisce da sempre qualsiasi opinione fuori dal coro nel caso di conflitti e soprattutto di morti in missione militare: cioè non si parte dal presupposto che i cosidetti "ragazzi" sono eroi a priori, ma dal suo contrario, perché alla partenza il simpatico aspirante regista è un fiero pacifista con scarse o nulle adesioni alla italica fierezza militare.
Forse per questo si è voluto intendere che l'autore abbia "tradito" e sia divenuto militarista durante l'esperienza a cui era del tutto impreparato e (come tutti noi) a digiuno di quello che lo poteva aspettare laggiù

Ecco, pur non credendo che il decorso del film ribalti in guerrafondaio l'afflato pacifista dell'autore, che alla partenza è schierato sul versante opposto di coloro che va a documentare, sono particolarmente soddisfatto che abbia voluto mettere in scena un episodio successivo alla uscita del libro - quasi a dimostrare che non c'è appartenenza totale agli schieramenti che si fronteggiano, militarmente anche loro -: rappresentando i suoi stessi dubbi, per dimostrare che provare pietà per il destino di chi si è anche brevemente frequentato non significa aderire alla sua ideologia, sempre che quei militari siano mossi da questa e non da febbre di carriera ai danni altrui come il militare salvatosi con la croce celtica tatuata... o da sacro fuoco di avere un posto fisso molto ben pagato e un po' pericoloso.
Infatti mi immedesimo piuttosto nel giovane compagno che pacatamente dice "non mi hai convinto" e a maggior ragione non mi convince alla luce non solo della retorica di nuovi professionisti della morte (quattro morti sul lavoro in trasferta ieri, 8 ottobre 2010: la media nazionale giornaliera di morti sul lavoro è garantita anche oggi), perché è palese che si sfrutteranno questi altri "caduti" (voce del gergo militare che da sempre nasconde la carne da macello): morti su un posto di lavoro schifoso e immorale (perché accettare di uccidere a comando è immorale per qualunque coscienza e fuor di retorica), che fanno più effetto delle migliaia non italiani che li hanno preceduti e li seguiranno nella macelleria neoliberista perpetrata in Afghanistan. E in questo modo consentiranno ai potenti di tutti gli schieramenti di fare finalmente la guerra, con tanto di bombe gettate su civili inermi, giusto in tempo prima di ritirarsi dai territori persiani devastati alla ricerca di nuovi scenari per la fame di commesse dell'industria bellica (e basterebbe soffiare sul nazionalismo becero legaiolo per ottenere una riproposta balcanica in chiave italiota).


Sempre più facile è incidere su un'opinione pubblica ormai condizionabile e orientabile come si vuole da parte del sistema mediatico inFeltrito, ormai tonitruante nelle urla precedute dagli strilloni che profeticamente nel 1990 Ronconi - esattamente vent'anni fa - rifece annunciare Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, appena un anno prima che il neoliberismo si perpetuasse risorgendo dalle Twin Towers.

Il punto di vista dell'autore è ovviamente - guai non fosse così, verrebbe meno il presupposto di noi tutti che "ripudiamo la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" - quello di un essere umano venuto a contatto con altri esseri umani: non si commuovesse per la morte di persone conosciute e che non l'avevano trattato male, sarebbe uguale a La Russa e Fassino, invece lui è un essere umano, capace di distinguere tra fantocci da mandare ad ammazzare per interesse politico e economico personale e persone con cui ha cenato e condiviso una birra (questo non significa condividere anche le scelte di vita o aderire a minuti di silenzio retorici come quello che nei giorni di Nassirya fu imposto all'inaugurazione del Tff 2003).



Mi sembra giusto e inevitabile provare reazioni di quel tipo se si è vssuta un'esperienza del genere, come è opportuno indignarsi per i civili che il nostro contingente "di pace" ha già ucciso e per quelli che, bipartisan e con l'accordo stipulato di fronte a un'esterrefatta Annunziata, s'è deciso di uccidere attraverso droni senza pilota dotati di bombe; per noi che conosciamo molti ragazzi afgani qui arrivati in fuga è più facile emozionarci per la loro sorte e quella dei loro amici e parenti che almeno in fotografia conosciamo, rispetto a quella dei loro carnefici prezzolati... è che li sappiamo privi anche della possibilità di scegliere se mettere in gioco la loro vita per denaro. Infatti è giusto incazzarsi di fronte al millantato eroismo del fascio emulo di La Russa, che "fa l'uomo" con il culo degli altri, e che il ragazzo va a stanare nella stanza d'ospedale dove si vanta delle sue presunte imprese di salvataggio immaginario.
Per lui erano persone conosciute, mentre per me non rimangono che simboli di oppressione, perlopiù fasci e invasati: incarnano morte, persecuzione, occupazione; sono servi che operano al soldo dei peggiori interessi, nascosti sotto una trasparente coltre di intervento umanitario che ha soffocato ancora di più la nazione in guerra da decenni: chiedete ai molti ragazzi afgani emigrati da noi come hanno trovato il loro paese ora che ci sono tornati... dopo 9 anni di corruzione di Karzai e di aiuti umanitari che non vediamo perché My Lai sarebbe una storia edificante che ha insegnato al potere come si fa giornalismo di guerra e quindi evita ogni occasinoe di mostrare le decine di My Lai afgane. Infatti quello che manca secondo i giovani tornati a trovare il resto delle famiglie sono soprattutto i giornalisti che documentino lo stupro di una nazione da parte degli interessi occidentali, difesi in modo consono dai militari mandati laggiù.



Eppure ho apprezzato 20 sigarette, perché non vuole convincere di quello che non ha convinto il giovane compagno della presentazione del libro (come quella tesi presunta non avrebbe convinto me, se ci avesse davvero provato): racconta un'esperienza e non la impone, come avrebbe fatto estendendola e generalizzandola, semplicemente mostra cosa è guerra e cosa significa vedere improvvisamente la morte in faccia, dopo una lunga serie di sequenze preparatorie che rassicurano proprio per preparare l'improvviso cambio di registro, materico, pieno di sangue polvere lacrime urla... merda. Un bimbo afgano che ti muore addosso in un cassone di camion.
Quella sequenza che inchioda alla poltrona restituendo in soggettiva il gusto di terra in bocca, il sangue negli occhi, la percezione di essere impediti nei movimenti e il contemporaneo trascinarsi, il grandangolo delle urla rintronate... mi sembra un urlo di dolore soggettivo (anzi in soggettiva) che prosegue il disgusto per la guerra dell'inizio del film, imperniato all'opposto in una sorta di spensierato viversi al di fuori dell'orrore bellico (eppure già un po' consapevole in quelle scorribande ciclistiche in piena libertà, riprese quasi Nouvelle Vague, riuscendo a restituire con pochi tocchi un universo giovanile e non giovanilistico, che poi torna riproposto in montaggi di attrazioni geniali e sul movimento a proseguire un'esistenza fortemente segnata, ma in fondo in grado di proseguire sulla stessa onda di prima): sono due ambiti che non hanno alcun addentellato se non il casuale e anomalo coinvolgimento dello stesso personaggio che però sono funzionali allo stesso punto di vista: l'orrore per la guerra, uno inconsapevole e distante, l'altro coinvolto e vicinissimo a tutto quel disgusto che comporta la guerra nelle persone normali che non provano i ministri della guerra.



E, forse per abitudine, non lo provano nemmeno i generali finché - come David Grossman - non vengono toccati nei loro affetti più vicini. E comunque come dimostra la vicenda dello scrittore israeliano, ma anche quella del generale del film, non per questo recuperano una dolente figura umana: rimangono figurine stravolte nella loro fisionomia, ma incapaci di essere credibili sia per la loro parte guerrafondaia da cui prendono le distanze, sia per l'altra parte a cui non riescono ad appartenere, perché non possono staccarsi dall'idea che i loro ragazzi sono morti praticando un lavoro di cui non si potevano vergognare (a maggior ragione dopo che li ha riportati a casa dentro una bara), come invece avrebbero dovuto: un lavoro pericoloso, ampiamente ripagato anche nelle sue conseguenze ferali. Perché una vita è impagabile, ma solo se non viene offerta in cambio di denaro: chi riesce a pensare di farsi pagare una somma qualunque per ammazzare a comando, anche se mette a repentaglio la propria vita, vuol dire che ha accettato di dare un prezzo alla vita propria e altrui. Ma forse quelle consistenti cifre che allettano questi "eroi" ripagano anche le coscienze di lavoratori a cui è stata messa la sordina alla loro morale in cambio di 30 mila denari e qualche grado in gerarchia.




E quella incapacità di inserirsi nella vita, perché la vuota retorica che tiene in piedi le scelte dei militaristi impedisce di potersi aggrappare a qualcosa dopo che si disvela la vacuità e l'unico sbocco di morte, da parte dei dolenti genitori degli eroi è palese nella diversità di incontri al capezzale: tra l'arrivo all'ospedale dei genitori del ragazzo protagonista e quello, comunque pomposo del generale con la consorte, c'è un abisso, ci sono sorrisi e speranza contro disperazione per il vuoto (anche di valori) e pianti; e non solo per la morte del pargolo militare, ma anche e soprattutto per l'approccio e i valori che sostengono le divise rispetto alle risorse mentali e psichiche di civili ancora più contrari alla guerra una volta colpiti. Capaci di riandare con la memoria all'abbraccio strenuo del bambino afgano morto nel momento in cui si coccola il proprio neonato di notte: lo stesso abbraccio mortale in un caso scatena il pianto liberatorio, nell'altro... ma per sua fortuna per lui i pianti sono liberatori, per un militare di carriera sono sempre pieni di senso di colpa.



a lucha continua...

a cura di
adriano boano