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Torino Film Festival 2007

La Zona

#02. A London Ferfi di Bela Tarr

 


Bela tarr, L'uomo di Londra

Efficace il gioco geometrico (orizzontale, verticale, in diagonale) sulle luci e le ombre, anzi sul concetto di buio e luce. Si nota subito: quella banchina con alcuni coni di luce, che richiamano immediatamente il cinema degli anni Trenta e nei coni di penombra alcune piccole figure attirano l'attenzione non tanto per la luce (che non sarà mai rivelatrice nel film), ma per il movimento. Infatti si avverte quasi un ribaltamento delle simbologie: la luce più intensa impedisce quasi la nettezza dei contorni; questo risulta evidente in quella splendida sequenza in cui il protagonista va a dormire - non è un caso che sia attivo nel buio, di notte, e il borgo sia fatto di case spettrali che illuminate completano quell'aura da cinema francese dell'epoca del romanzo (Simenon, 1933) - e dopo un po' che lui è scomparso dallo schermo, entra in campo la moglie e non si elimina la luce intensissima e frontale con accorgimenti fotografici, non si opera una dissolvenza o si spegne una fonte di luce... si chiudono le imposte delle finestre fino a lasciare lo spettatore nel buio; e la sequenza successiva è di nuovo concepita al buio.

Bela tarr, L'uomo di Londra

Quello stesso buio che caratterizza il lungo, lento, bellissimo piano sequenza iniziale che caracolla lungo la chiglia di una nave, utilizzando grigi e brume filologicamente simenoniani, poi segue anonimamente gesti di sagome di uomini che animano la tarda serata di un arrivo presso una banchina del piccolissimo porto di Dieppe (la location è spostata a Bastia nel film); lo sguardo è quello del lavoratore notturno, uno scambista, collocato in una postazione, che è un osservatorio su tutti gli eventi: in sostanza siamo noi spettatori, lui è una nostra proiezione (o così ci viene fatto percepire), tant'è vero che con il piano sequenza i tempi sono quelli dell'azione, assistiamo anche noi allo strano lancio di una valigetta e - molto dopo nei tempi dilatati dalle operazioni di trasbordo, tutte seguite con maniacale attenzione a seguire linee invisibili che ogni figurina traccia nei suoi spostamenti - forse anche noi, di fronte alla lotta dei due uomini e al tuffo mortale di quello che aveva lanciato sulla banchina la valigia, ci saremmo comportati come l'Osservatore. Quel primo di una lunga serie di piani sequenza - lineare per introdurre i fatti, avvolgenti in seguito alcuni, fissi altri: tutti con un evidente significato recondito nella loro scelta stilistica - è visto come se si trattasse di una quinta scenica, non ci vengono risparmiati nemmeno i tubi che si frappongono tra noi/attore e il teatro della scena, come a voler sancire il distacco tra la nostra (e sua) percezione e l'azione. Inoltre è evidente che si tratta di una vetrata, come avverrà in molti altri frangenti di questo film costituito da finestre sul mondo, vetrate inondate di luce (quelle dove è meno chiaro che vita scorre al di là), porte-vetri a cui si affaccia l'attore in quel momento inquadrato, persino gli interni del bar sono divisi in locali dove c'è una sorta di vetrata a frapporsi tra azioni che si svolgono autonomamente, ma di cui si ha sentore attraverso suoni, rumori, musiche rivelati nei molti movimenti di macchina che gradualmente conducono all'epilogo di una storia sordida, sulla quale siamo completamente informati... a parte l'epilogo che cancella l'errore giudiziario tuffandosi in un bianco assoluto e obnubilante (opposto a quel tuffo nel buio della chiusura delle ante a cui si accennava prima) preceduto da un'immagine affezione ricavata dal volto della vedova della vittima, presunto colpevole.
Bela tarr, L'uomo di Londra

C'è un altro ripetuto sistema di svelamento di quello che è attorno a noi spettatori (e mdp) ma ancora fuori campo, come se dovesse essere presente da un po' alla nostra percezione, ma non è ancora avvertito: un meccanismo che ricalca la soluzione narrativa trovata. Infatti il protagonista si trarrà d'impiccio in un modo ambiguo, che può essere interpretato in due modi: intenzionale, frutto di un piano machiavellico, oppure casuale e frutto di un eccesso di autodifesa; avvenuto al buio e unica parte del film a noi preclusa da una porta assolutamente chiusa e che non si aprirà mai alla mdp, dunque rimaniamo frustrati dal fatto che per tutto il film sappiamo esattamente come sono andate le cose dal punto di vista di colui che ha agito e potuto osservare tutti, ma proprio all'epilogo non possiamo assistervi. In entrambi i casi l'epilogo è già contenuto nello sguardo che il protagonista intreccia con la sua vittima - sospettato dalla polizia - il primo mattino (l'orologio del bar segna le 6,10) dopo l'evento scatenante. Anche questo incrocio, che sintetizza il rapporto complesso tra i due uomini nel romanzo, avviene attraverso una vetrata, ma il movimento di macchina che ricalca questo modo di procedere, guardandosi attorno a scoprire cosa compone il mondo circostante e come utilizzarlo a proprio vantaggio è quel percorso che fa la cinepresa, quando termina di seguire un personaggio (in genere di spalle, come per fiatargli sul collo), allora fa una panoramica di 45 gradi a svelare il resto del mondo attorno: un bambino che palleggia in un vicoletto, tre anziani che ballano con una scopa e una biglia vicino al tavolo da bigliardo, una fisarmonica che sta suonando la melodia che ormai da qualche minuto invadeva l'inquadratura. C'è tutto un mondo di fianco che può gettare una nuova luce sulla vicenda: un mondo parallelo che fuorvia e produce un diverso sviluppo del racconto, fino a renderlo contraddittorio con quello che noi sappiamo, ma quella è la verità sancita dall'ordine giudiziario, di fronte al quale nulla può il volto affezione, chiaro e limpido (nella più corretta accezione deleuziana), della donna rimasta vedova.

Bela tarr, L'uomo di Londra


Non ci viene risparmiato un gesto, tutto si svolge in tempo reale, e siamo presenti a osservare, come se gli autori volessero dimostrarci che assistiamo a tutto e quindi nulla ci può sfuggire: saremo in grado sicuramente di ricostruire la verità, o avere la certezza di quello che è successo: la svestizione all'arrivo a casa, persino il sonoro di una goccia che stilla e poi prosegue anche fuori della casa, diventando una sorta di metronomo, serve a scandire i tempi in modo che nulla è soggetto a elisione, eppure la sagoma ineffabile di un uomo nel cono di luce fievole del lampione sotto casa che si eclissa dovrebbe già fare da indizio del fatto che si gioca sporco: sparisce e non lo vediamo uscire dal campo o dalla luce (di nuovo fonte di ambiguità al contrario del buio). Anche la ripetizione integrale del piano sequenza iniziale, questa volta con l'unica variante dell'ispettore che anziché la valigetta lancia un salvagente, serve a far credere allo spettatore - che magari è estenuato dalla prova, ma si lascia affascinare da quel bianco e nero e dalla perfetta linearità del movimento di macchina - che continua ad avere tutti gli elementi: non solo quelli osservati dal protagonista, ma anche quelli ricostruiti dalla polizia che abbiamo avuto modo di vedere. Coincidono. E coincidono anche il racconto dell'incontro tra il poliziotto e Brown, il londinese che sarà vittima e considerato colpevole: lo sappiamo perché abbiamo assistito all'incontro e alla fuga di Brown e il barista lo racconta precisamente, in ogni dettaglio.

Bela tarr, L'uomo di Londra

Ma la vita familiare ha dei rapporti e delle prassi che non sono completamente chiare (quali i ricatti a cui deve sottostare la famiglia per cui sarebbe impossibile riscattare la figlia-serva in un negozio?) ma sono spiegabili perché servono a dare una motivazione per il gesto del protagonista e per introdurre anche un primo indizio che bisognerà immolare qualcuno: mentre Henriette viene portata via dal negozio entra il macellaio con una mannaia a tagliare a pezzi un quarto di un animale. Ci si aspetta che alla fine del sopralluogo il poliziotto, accortosi del punto privilegiato di vista del luogo di lavoro, abbia qualche sospetto... infatti va a interrogare l'uomo, ma a questo punto le nostre attese cominciano a divergere, fino alla catarsi mancata, perché il nostro sguardo rimane tenuto fuori dalla baracca: ci entrano tutti, l'assassino, il poliziotto, la vedova, ma in tutti e tre i casi il racconto si ferma sulla soglia... e rimarremo sempre con il dubbio - immerso in quella luce lattiginosa che dissolve le tenebre in cui ci eravamo abituati a vedere gli eventi capitare sotto lampioni o luci che li ricalcano lasciando in ombra zone vicine - di come noi ci saremmo comportati, perché se vale l'identificazione iniziale con lo sguardo del protagonista, questa deve valere anche alla fine: avremo caricato la borsa di vettovaglie per consentire il proseguimento della fuga di Brown, per poi trovarci a ucciderlo senza volerlo, oppure avremmo premeditato tutto per far ricadere la colpa su di lui e levarci d'impaccio? Non potremo mai sapere la nostra natura come si sarebbe comportata aprendo quella porta.

continua...

a cura di
adriano boano