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Torino Film Festival 2007

La Zona

#01. July Trip

 


Wa‘l Noureddine, July trip

Wael Noureddine si è portato una cinecamera 16 mm-hd e una pipa di crack nel Libano 2006 bombardato da Tzahal, l'esercito israeliano di cui "mostra" i proclami radiofonici, rendendoli palpabili attraverso un'autoradio, inquadratura fissa, come se gli occhi sgranati rimanessero fissi a osservare attoniti non l'apparecchio che trasmette i proclami, ma il criminale invasato che li pronuncia: sequenza che fa il paio con quella a camera inclinata, abbandonata in grembo, mentre l'auto percorre strade di macerie inondata da note hezbollah, di cui si immagina il tono altrettanto militaresco e subìto con lo stesso sbigottito turbamento immoto. Sono tra i pochi momenti di camera quasi statica di un film molto dinamico, che fa dell'aleatoria inquadratura in velocità la sua cifra: da un lato questo conferma la citazione in epigrafe ("Non si possono fare film sulla guerra", Rainer Werner Fassbinder, nume tutelare che ricompare alla fine), dall'altro cerca di confutarla, attento a non riprendere persone perché nei bombardamenti la gente è solo un incidente che capita per caso nell'inquadratura... e nella roulette vita/morte.

Wa‘l Noureddine, July trip

Per farlo comincia con l'annichilimento della figura umana: le persone non hanno nessuno spessore narrativo, gli uomini che entrano in campo non hanno esistenza: ombre capitate per caso nell'inquadratura, che non sta mai ferma, ipercinetica nel tentativo di registrare tutta la distruzione; gli unici momenti in cui la macchina da presa si sofferma su fattezze umane è per reificarle, infatte queste appartengono a manichini di negozio. Oppure sono cadaveri irrigiditi dalla guerra chimica, talmente contraffatti da non appartenere più al consesso umano di ombre che scorrono sullo schermo in un repertorio di "oggetti visivi" che riempiono l'inquadratura per un attimo alla stessa stregua di un carro armato o di una mucca. Si tratta di un catalogo pure questo, uguale e contrario a quello di Gianikian: quello là è già collocato dal lato della decomposizione dei giocattoli repertoriati, qui invece si repertoria per recuperare la dimensione essenziale di documentare.


Ma non interessa tanto documentare eventi, quanto stati d'animo, movimenti e gesti inconsulti dettati dal panico... ecco, questo attanaglia presto lo spettatore, perché i rumori sono quelli che sentirebbe (sconvolgenti urla e esplosioni: lancinanti), ma soprattutto le immagini sono quelle che vedrebbe: nulla di eccezionale, ma esattametne quelel di una qualunque guerra: ruderi su macerie, deserto - a parte le poche persone che transitano davanti all'obiettivo come se fossero incidenti che capitano per caso, spinti da concitazione ma forse non irrazionale, anzi, forse grazie alla luminosità naturale, sembra tutto così lucido; e poi gli stati d'animo non sono descritti, ma il vacillare delal candela nell'oscuramento contiene tutto il bombardamento,,, aereo compreso. Allo stesso modo la ricerca di scampo e la pietas si rinnova con l'uomo che va a recuperare il vecchio padre, caricandoselo, novello Anchise, sulle spalle. La sequenza finale si affida a sovrimpressioni che raddoppiano le situazioni, le confondono ulteriormente e così danno un quadro di cosa sia la confusione della guerra: piani inclinati prolungati, difficoltà a mantenere l'attenzione fissa su un evento, perché ne sta capitando un altro poco più in là... e poi più in là... Né più né meno. Però geniale, perché le scarne connotazioni rndono universale "questa" guerra che può essere tutte le guerre: catalogando anche alla rinfusa si può trovare il giusto modo comunicare Guerra..

continua...

a cura di
adriano boano