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Torino Film Festival 2006

Sentiero tenebroso

1. Città vampirizzate, gelide, intrise di morti

 

Scream o the Ants

In questo caso vediamo come il Festival si rapporta con il mondo tenebroso (per scelte fotografiche) e anche molto perturbante dello sguardo sulle città. Città di morti. In certi casi si tratta di conglomerati per antonomasia ammantati di un'aura di pericolo, come Beyruth; in altri siamo abituati a vederli dipingere da quella scuola neorealista, ma anche di sapienti pittori di luce iraniana che non ci sembra possibile che Tehran sia la stessa città descritta con quei toni di grigio sfocato, riempito da lampi chiari di neve, come in Ray-e-baz di Mehd Nourbakhsh, oppure vediamo sancita la cartolina di Benares, ma dopo un percorso che le ha conferito una patina di dubbio sull'autenticità del culto.

Da quando te ne sei andato

Quello che risulta un po' inquietante è la liquidità in cui si finisce: in India è il Fiume per eccellenza che tutto fa scorrere via, un passaggio che porta con sé l'eterno ritorno in un tripudio di fiammelle sull'acqua; in Iran quella liquidità o è congelata in una neve privata anche del suo nitore, privilegiando il filtro grigiastro che ammanta tutto con la sua triste nostalgia; in Libano il fluido è rosso di plasma nei sacchetti, anticipato da quel liquido che scorre a coprire all'inizio la barca e tutti quelli compresi nell'inquadratura... e per estensione l'intera città dal 1976 in avanti. E ora a maggior ragione, dopo gli attacchi sconsiderati di quella che si vuole ipocritamente continuare a considerare l'unica democrazia del medioriente: abbiamo fatto bene a uscire dal festival ieri sera (13 novembre) per spostarci al Baretti ed assistere al film di Mohamed Bakri, Da quando te ne sei andato, dedicato a Emil Habibi e girato sulla sua tomba, ricostruendo i dieci anni trascorsi dalla sua morte. Anni di massacri, lutti, soprusi, eccidi, calunnie e convivenza con la vergogna di non essere riusciti a insegnare tolleranza, convivenza, rispetto nemmeno ai propri familiari e senso di sconfitta e di solitudine, quello che dal film di Bakri traspira è la sensazione di abbandono senza ricette, di mancanza di maestri e padri, di esempi, di indicazioni di strade da seguire, di prassi da contrapporre al fascismo, al cieco militarismo e al fanatismo: al festival queste risposte non c'erano... forse nemmeno nel film palestinese, ma almeno si poneva il problema di cercarle. Invece Nourbakhsh estetizzava malamente sentenze, ponendole su uno sfondo di rassegnazione; Salhab virava sulla metafora trita del vampiro la situzione trentennale del Libano e Makhmalbaf si rifugiava in un lucido sarcasmo contro ogni ricerca asfittica di spiritualismo, trovando nelle sue manifestazioni come è ovvio solo dozzinalità credulona e cartoline per "stupidi", come giustamente dice il giornalista autoctono.

La sostanza liquida, di natura acquatica o ematica, fa da "filo rosso trasparente" alla storia narrata nel film di Ghassan Salhab, Le dernier homme, ambientato nella Beyruth dei nostri giorni. Qui siamo prima dell'estate scorsa, ma tutto lascia presagire imminenti catastrofi e in città trasuda la sensazione di "mutazioni" in corso, sia pertinenti l'umanità che la abita sia in termini di architetture prossime a diventar rovine; infatti tra gli umani si nasconde il vampiro, che agisce nell'ombra come un serial killer, e anche gli edifici sembrano fantasmi annuncianti la calamità bellica a venire. La tonalità grigio acqua della fotografia domina il campo di ripresa: all'inizio onde perigliose, i cui flutti si frangono su rocce scavate dalle maree, si susseguono a inquadrature di giovani, immortalati come Gesù Cristo appena dismesso dalla croce, solo che al posto delle stigmate, si notano strane ferite al collo, cicatrici dai contorni evidenti, in quanto tracciate da una bocca assetata di suggere il sangue umano o quello diabolico della metafora occultata dietro l'apparente desiderio di ordine sociale; nuovi cadaveri vanno ad aggiungersi a quelli ospitati in una lunga teoria di celle frigorifere e allora la ricerca indiziaria è pronta a mettere in moto la curiosità del medico di turno, il protagonista del film, Khalil, dottore quarantenne presso l'ospedale cittadino, che innesca una sorta di subacquea indagine per scovare il presunto colpevole di così tanti corpi straziati e dissanguati che si trova a contemplare sopra il tavolo dell'obitorio.

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Il film registra la progressiva trasformazione dell'indagatore e il suo malessere a convivere con la persistente presenza della sostanza ematica, tanto che lo spettatore finisce con il confondere le vittime con il carnefice perché l'indagine epidermica porta a farsi ingannare: Khalil prende coscienza della presenza del vampiro e man mano si lascia angosciare e al contempo irretire dal desiderio di scoprire cosa significhi risucchiare il sangue altrui. La ricerca lo conduce gradualmente a isolarsi, a cercare conforto soltanto nelle perlustrazioni subacquee, forse perché solo qui agisce la linea di frontiera tra l'umano e il mostruoso, ma al contempo comincia a gustare il piacere del sapore del "sangue del diavolo", perché le mutazioni introdotte dalle invasioni esterne (gli israeliani iniziano a bombardare il suolo: registra il reportage radiofonico, ma anche gli americani hanno invaso da tempo l'Iraq e donne palestinesi vengono da sempre arrestate e uccise ai posti di blocco di Tzahal) determinano la voglia di provare le medesime strategie di annientamento della specie. L'incantamento è troppo avvincente per dimostrare di essere migliori, per cui il medico finisce per giocare ad armi pari, mettendo in vista virtù e denti vampireschi che, però, nell'attimo fatale si ritraggono e non addentano la preda: operazione per altro inutile, perché quando riesce finalmente a identificare il vampiro, non funziona ripagarlo con la medesima strategia di annientamento. Purtroppo non è in grado di inventarne un'altra migliore e originale, per cui non gli resta che seguirlo, forse per accompagnarne le pulsioni desideranti. A furia di inseguire il mostro si finisce con il sostituirsi a lui nel piacere razionale di comprenderne l'ebbrezza efferata.
Le metafore che ricamano il film finiscono per diventare spudorate, troppo semplici da capire e al contempo fastidiose perché ridondanti o messe in scena con ritmi dilatati: nella prima parte sono punteggiate da siparietti teatrali, una figura femminile interviene a siglarne il messaggio attraverso passi di danza che alludono a rituali, ma ben presto il regista abbandona questa scelta stilistica, per concentrarsi sull'inseguimento delle piste indiziarie che portano a scoprire il carnefice. Nel frattempo l'acqua del mare continua a frangersi sulle rocce, si trasforma in bollicine per accogliere la respirazione subacquea di chi accetta di transitare da un confine all'altro, oppure tracima dalle scale delle abitazioni; diventa persino pluviale, pronta a scagliarsi sugli abitati cittadini simile a schegge incendiarie fuoriuscite da bombardamenti aerei israeliani sopra i cieli libanesi. Al termine della visione resta impressa una battuta: "Non si può filmare un vampiro", una giustificazione per ottenere la complicità dello spettatore o forse solo un alibi maldestro, per dichiarare, magari in vesti umili, di non avercela fatta a restituire la complessità delle mutazioni mostruose in corso d'opera là dove si vive, umano tra gli umani o mostro tra i mostri.



Tehran senza speranza. La liquidità si è spostata completamente sulla fotografia, che è come se frapponesse una pellicola fluida su tutto, rendendo ancora più distaccata e algida la realtà in cui si muovono i personaggi, che per questo a tratti diventano maschere sentenziose.
Il significato del titolo Ray-e Baz viene spiegato fin dall'inizio su schermo nero da una voce fuori campo, attribuibile a una guardia carceraria che spiega che la libera uscita dal carcere per alcuni giorni viene concessa su cauzione e per buona condotta, a condizione di presentarsi presto il sabato mattina, altrimenti "la libertà sulla parola" potrebbe essere revocata.
Del carcerato Saber vengono mostrati dapprima soltanto i piedi, che calzano scarpe che faticano a calpestare la neve che ricopre il selciato antistante la struttura carceraria: si avrà modo di capire in seguito che la difficoltà a reggersi in piedi è accentuata dalla sua menomazione fisica; infatti il protagonista è claudicante a causa di una ferita provocata da una pallottola che gli ha interamente spappolato la caviglia. Al di sopra dei piedi compaiono le prime immagini di una Tehran lontana, fotografata in uno splendido bianco e nero, mentre la macchina da presa si concentra a far entrare in campo un furgoncino sgangherato da cui spuntano altri due piedi, stavolta davvero "in gamba", poiché con guizzo dinamico sono in grado di reggere la persona a cui appartengono: si tratta dello "zio" (sembra il fratello di Beppe Grillo per la somiglianza nella zazzera e pure per le smorfie sogghignanti), ex compagno di cella di Saber, che è venuto a prelevarlo per accompagnarne i vagabondaggi nella metropoli, consapevole delle ricerche a cui verrà sottoposto per accontentare le esigenze del suo migliore amico. Saber lo saluta con poco entusiasmo, il suo sguardo duro non ha spazio per il sorriso, si direbbe sia determinato a cercare qualcosa o forse qualcuno e anche l'urgenza trapela dai sui gesti, seppur contenuti. Lo zio sa dove andare, infatti lo saluta dicendogli: "Sali e ti porto da lei. Ma cosa ti piace di più di lei?", Saber risponde: "Il suo nome"; allo spettatore resta il dubbio se si tratti di una donna anelata o della città lontana, che occupa l'inquadratura con una teoria di palazzi, molti dei quali, avvicinandosi, si riveleranno una somma di macerie nel cuore martoriato di Tehran.
In uno di questi edifici viene accompagnato Saber, che nel frattempo riconosce il luogo in rovina, forse per averlo abitato in tempi migliori: visitandolo infatti rievoca musiche familiari, riconosce pareti, seppur devastate, e su una di queste sente il bisogno di lasciare un segno, incide tre lettere, probabilmente le sue iniziali per marcare il territorio o per lasciare una testimonianza rispetto al passato, che ha bisogno di memorie per definire identità, esistenze, punti di vista. La sua libertà vigilata e ridotta a pochi giorni necessita di prove per risolvere il dilemma che l'attanaglia: "Si è perduto o ha perduto qualcosa?". Di sicuro non ha bisogno di un orologio per sapere che ora è, nonostante lo zio si industri a rubarne uno, che un ragazzo si è appena sfilato prima di andare a fare pipì. Risulta facile effettuare il furto, come è abbastanza sbrigativo disfarsi del bottino, quando si comprende di aver rubato un oggetto inutile. Mentre è invece salutare sottrarre un giubbotto per rivestire il carcerato, uscito con indumenti estivi, che stavolta sembra apprezzare il desiderio di "darsi una ripulita", indossando vesti nuove, che non hanno però il potere di fargli dimenticare il senso della ricerca che l'ossessiona.
Durante i vagabondaggi in luoghi inediti di questa Tehran - ancora più in bianco e nero perché invernale - si avrà modo di perlustrare locali sordidi, bar di malaffare, negozi di usurai, persino una sala da biliardo, dove tentare di mangiare "piedi di pecora" (forse più sani di quelli umani!!), bere birra in bottiglia o lattina, farsi una canna o sniffare cocaina, combinare spacci di droghe o traffici di persone, munite di passaporti falsi. Si assiste gradualmente al viaggio all'interno di un inferno malavitoso, a cui contrapporre il desiderio di fuga all'estero come antidoto per dimenticare o forse dimenticarsi. Lo zio non ricorda nemmeno il proprio nome o probabilmente non ha più un nome, Saber invece ricorda ancora troppo del passato e quindi non riesce a perdonare.
I due compagni di sventura, durante il loro itinerario in queste malebolge, hanno modo di incontrare svariate figure femminili: donne sole, abbandonate dalla famiglia, orfane di genitori e parenti, disonorate dalle circostanze e costrette a "dimenticarsi" - a loro volta - per poter sopravvivere. "Una donna araba deve dimenticare" recita la sorellastra di Saber, Sabri, implicata in un traffico clandestino di esseri umani, la cui solitudine, alla morte dei genitori e con il fratello in galera, l'ha obbligata a unirsi a un altro uomo, "un'ombra nella sua vita", che è proprio quel qualcuno che Saber sta cercando. Si tratta di Safir, suo vecchio socio in affari, colui che gli ha spappolato il piede e che poi l'ha tradito.
Il fratello vorrebbe compiere la sua vendetta e ripagare il socio con la stessa arma da lui impiegata, ma intervengono a frenarlo proprio le parole disperate, urlate dalla sorella per cercare di convincerlo a desistere, insieme al desiderio di rintracciare la fidanzata, l'amata Raheleh, che riesce a ritrovare - chissà perché - proprio in punto di morte.
La trama fin qui sciorinata denuncia la difficoltà a comprendere gli eventi che si susseguono, inoltre il regista sembra prediligere un'esposizione non lineare, a volte a scapito dell'efficacia della narrazione, per cui risulta spesso complicato seguirne lo sviluppo, forse volutamente per introdurre il dubbio di acquisire sempre nuovi significati o visioni della vita, affidate all'interpretazione dello spettatore. Purtroppo il meccanismo funziona poco, perché la dovizie di eventi narrati non lascia molto spazio alla riflessione, alla ricerca di sensi altri, insoliti, non imprigionati dalla diegesi. Se lo sguardo di Saber resta costantemente domandante, le risposte che di volta in volta va a repertoriare confondono persino le sue prerogative. Si direbbe piuttosto che alla cura risposta nella sceneggiatura, fatta di "parole non dette, ma se le pronunci fanno soffrire e a volte peggiorano le situazioni", faccia da contraltare una pista visiva filmica, mai ripetitiva, girata in maniera intelligente e con una fotografia in bianco e nero suggestiva: il trionfo del visivo rispetto al parlato. Però le donne "perdute" iraniane, creature che sembrano uscite dalla novelle vague godardiana, sanno narrare in maniera passionale la propria vita e le vicissitudini subite, doppiamente vittime non solo rispetto alla propria cultura e alla sudditanza maschile, ma rispetto alla difficoltà di vivere in solitudine, malate di una malattia non contagiosa, proprio perché ne è impossibile la condivisione con altri da sé. Purtroppo la carrellata di ritratti femminili condannati a sopportare la solitarietà finisce con l'essere ridondante: troppo numerose le esperienze, talvolta omologante la loro dissertazione, a tratti addirittura sentenziosa. La si regge abbastanza bene nella prima parte del film, dove la comparsa di una "femme fatale" nel panorama delle solite donne velate - che di nascosto si truccano e fumano persino (vedasi Mohsen Makhmalbaf) - appare inedita... ma la ripetizione smorza l'originalità della loro apparizione e conduce a uniformarle, apparentandole al medesimo destino di emarginazione. I freddi bassifondi di Tehran non sono differenti allora da quelli di altre metropoli occidentali, si respira la medesima atmosfera claustrofobica annichilente e questo depone certo a favore di quella glocalità, che annulla la deriva localista, per appiattirne la legittima natura divergente.



Benares vista da uno straniero particolare: uno che fu arrestato dalla polizia dello Scià in quanto oppositore komehinista, ora sicuramente laico nella città che trasuda umori di morte, ma stavolta il rapporto con la morte non è drammatico come in Libano, o struggente come in Iran, questo appare naturale contatto con il trapasso... perché tanto ormai è una prassi: si va da un'incarnazione all'altra... però quello che trafila dalle dita immerse nel Gange è un fluido di sofferenza che accomuna tutto il mondo. Tornare a rinascere ogni volta è una colossale sofferenza e lo è perché l'esistenza dovunque si trascina con sé sofferenza... anzi è sommersa dalla merda.

continua...

a cura di
paola tarino
adriano boano

se invece poi volete vedere un film come si deve: Prières pour refusniks di Jean-Luc Godard