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Torino Film Festival 2006

Sentiero tortuoso

1. Fake/autentico

 

Mohsen Makhmalbaf, Scream of the Ants

Ci sembra sintomatico percorrere il sentiero iniziale di questo dedalo che compone la XXIV edizione del festival torinese con una disamina degli aspetti "non docu" e "non fiction", in particolare per lo sforzo di mantenersi in un territorio in cui si salvaguardano tutte le ambiguità legate alla terra di confine tra fiction e documentario, che sembra ormai ultimamente essere la vera cifra del cinema mondiale, il terreno di confronto su cui la dose di maggiore o minore autenticità fa i conti con la componente di fittizio, di linguistico, di metalinguistico, di dubbio e di estrinsecazione dello stesso attraverso interventi interpretativi espliciti, di scambio dei ruoli tra attore e oggetto della ripresa - e per questo penso alla passeggiata in risciò della coppia rosselliniana di Makhmalbaf (la ripresa della manifestazione del Partito comunista indiano, in cui entra in campo il protagonista con la telecamera è un elemento linguistico già visto una pletora di volte, ma efficace all'interno di questo travaglio filmico personale e collettivo, eppure lirico e filosofico, religioso e sentenzioso) -, di gioco raffinato nel caso del reportage indiano di Makhmalbaf.

Shiroishi Koji, Noroi - The Curse

Una ludicità che si spinge fino al confine con il ridicolo che potrebbe servire come segnale del fatto che ci troviamo in piena fiction, se non si trattasse della realtà della società giapponese. Abbiamo attraversato il confine: come nel film di Shiroishi Koji (Noroi - The Curse), dove però tutto è talmente inficiato dall'incredibile e dal grottesco (la citazione della serie Scream nel disegno della ragazzina extrasensoriale) che giunge a essere plausibile qualunque cosa - non ovviamente l'intreccio sovrannaturale, ma che davvero quella massa di squilibrati abbia dato luogo a un'inchiesta strampalata (forse grazie alle trasmissioni televisive tipo Stargate) potrebbe anche darsi -, tanto che allo spettatore permane il dubbio che si tratti di una storia "autentica": il tono con cui vengono presentati spezzoni spacciati per andati in onda alla coloratissima e irreal televisione nipponica, mescolati sapientemente con quelli che vengono somministrati come inediti, accentuando in questo modo la loro autenticità, concorre a fare sì che la trappola scatti e si assista alle traballanti riprese dell'operatore o all'Uomo-scatola uscito aggiornato da un libro di Abe Kobo, ottenendo come risultato una graffiante parodia del pattume televisivo, che si spaccia per inchiesta seria, cercando di darsi una patina di scientificità, coinvolgendo studiosi o presunti tali.
Tutta l'illusione svanisce quando lo splatter, il gore dilaga e quella specie di Blair Witch Project arricchito di particolari e più composito nella trama diventa una corsa al finale che deve sancire la correttezza della precognizione della ragazzina esp: "Ormai credo che sia troppo tardi per tutti noi", una frase tipica degli allarmi ecologisti, che in realtà scopre dove affonda le radici questo strampalato film: in Gojira. L'intento della saga di Godzilla era infatti quello di esprimere le paure della nazione nipponica, bruciata sulla propria pelle dal nucleare: anche qui si intravedono preoccupazioni di carattere ecologico (la diga che ha sommerso la vallata dei riti in primis).
Entrambi questi film sono fiction che potrebbero essere documentari, poiché si appropriano e occupano il linguaggio documentaristico, piegandolo a un uso non ortodosso.
Lisandro Alonso, Fantasma

Il contraltare si trova nel Fantasma di Lisandro Alonso, dove il film-fantasma che si aggira nella sala del teatro San Martìn è una proiezione di Los Muertos (i due titoli si compendiano perfettamente, proponendosi come le due facce di Giano), che diventa un percorso "documentaristico" dei meandri di quel cinema; diventa documentaristico nel momento in cui non c'è narrazione, puro documento di rumori che si connettono con altri spostando l'attenzione della cinecamera in un altro luogo dove - anche lì - non succede nulla, montaggio flebile. Nessuno in realtà assiste alla proiezione - si scopre alla fine, che la sala è vuota, quando sugli ultimi fotogrammi entrano l'attore protagonista del film stesso, una inserviente del cinema e la maschera; li abbiamo seguiti tutti e tre in vacui giri claustrofobici (opposti - perché al chiuso, senza natura né pathos della stessa con azioni su di essa - e uguali, in quanto davvero si tocca con mano la morte al lavoro: dove passa la cinepresa sembra lasciare una sottile bava mortifera, come per l'originale), neanche alla ricerca di qualcosa, puro trascorrere di tempo e spazio attorno a una presenza inquietante che è il film, che si manifesta talvolta all'apertura di una porta della sala e si confonde con i rumori insistiti e ripetuti, che di nuovo dànno l'idea di una presenza ineffabile, che è quella della macchina da presa che registra quei movimenti che vediamo in Fantasma, ancora più ineffabile, perché in assenza di azione o di immagini significative, non si sa quale sia la sua natura e da cosa venga spinta a riprendere.
Certo che in questo modo getta una luce particolare su Los Muertos, caricando di ulteriori presenze l'intrico di canali fluviali, simili ai percorsi dei silenti protagonisti di Fantasma, che non è documentario, e non è fiction, usa un linguaggio più tipico della narrazione, producendo un documento di quello che accade nell'arco di una proiezione in un microcosmo concentrazionario, assimilabile al solare dipanarsi del pedinamento di Los Muertos, che si riduce anche lui a microcosmo asfittico. Quindi svolge il ruolo di making of..., pur essendo projection of....
Zina Modiano, La Vie privée

La figlia d'arte transalpina Zina Modiano usa Henry James per riportare la questione sui punti di vista diversi sulla realtà nell'ambito classico della dicotomia tra realtà e immaginazione, tra universi paralleli e improvvise sovrapposizioni di presenze/assenze: scrittori (non a caso) che si raddoppiano, sono ubiqui, ma improduttivi, perché probabilmente le loro produzioni stanno in un'altra realtà; e pittori che hanno difficoltà a mantenersi presenti nella realtà ripresa dalla macchina da presa, svaniscono e si manifestano come simulacri un po' flebili anche loro, come i rapporti tra i personaggi che variano e non sono mai fissi, persino le parentele (il figlio diventa fratello talvolta). Si tratta di una diversa evoluzione del "fake", quella che spalma lungo tutto il racconto la insicurezza sull'effettiva realtà e sulla sua reale riproduzione.

Ma è poi così importante che sia fake o meno? In fondo anche Flaherty inventava, adibiva set e spacciava per autentici dei veri e propri ciak... e poi Iwo Jima...

Mohsen Makhmalbaf, Scream of the Ants

continua...

a cura di
paola tarino
adriano boano

se invece poi volete vedere un film come si deve: Prières pour refusniks di Jean-Luc Godard