Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Reporter
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna al sommario

GLBT Film Festival di Torino - I film che cambiano la vita - Da sodoma a Hollywood 2007
Lampisterie sinaptiche

1: bolle e tolleranza

THE BUBBLE

Il passaggio dal cinema minimale, attento a singoli aspetti, che probabilmente prende spunto da esperienze personali - come i due militari Yossi e Jagger -, a quello mainstream, si è concluso lasciando sul campo alcune vestigia della spontaneità iniziale: la sequenza iniziale che finge l'intrusione della telecamera, denunciando i modi di Tzahal ai checkpoint; la pacata attenzione ai corpi nudi, perlustrati prendendosi tutto il tempo che ci vuole per cogliere il piacere che possono darsi - che in questo caso ha il guizzo geniale di passare dai due corpi etero ripresi in plongé scendendo verso il pube con luci, tagli e spessore della penombra identici al quasi inavvertibile stacco per risalire con la macchina da presa sui corpi omosessuali intenti alle stesse tenerezze; l'improvvisa virata sul cotè drammatico (in questo caso lasciato in sospeso fin dall'inizio con prolessi più o meno esplicite)... A ben guardare si possono ancora riconoscere alcuni tratti di quella godibile freschezza degli esordi, ma Fox lo ha infarcito a tal punto di elementi, praticamente tutti quelli che si possono toccare in Israele, da risultare non solo superficiale, ma a tratti macchiettistico... e guarda caso, sono proprio gli aspetti meno conosciuti dall'autore quelli che risultano stereotipati: la rappresentazione di Hamas sembra uscita dal sito di Pezzana. Anche mettendo a confronto il cognato di Ashraf con l'isterica israeliana simile a Fiamma Nierenstein che in mezzo alla strada rifiuta il volantino del Rave della pace e aizza l'energumeno contro gli attivisti, quest'ultima risulta tratteggiata con maggiore precisione, anche se l'intento è proprio quello di mostrare gli opposti fanatismi senza approfondirli né in un caso, né nell'altro. Questa è una scelta di moderatismo che è ben distante dall'impatto che deriva dalle immagini del video degli Anarchici israeliani contro il muro e inficia lo sforzo iniziale di mostrare le angherie sopportate dai palestinesi, annacquando il discorso politico, che emerge carsicamente tra i vari registri, sembrando però sempre un elemento giustapposto da un lato per dare una patina di impegno al film e dall'altro per legittimare il finale tragico.

Proprio questa svolta finale paradossalmente nasce da un'incapacità di comprendere le "ragioni" dell'Altro, l'esasperazione palestinese: nel momento in cui apparentemente i due giovani diventano tragica summa di intolleranze, sia etniche che sessuali. Infatti a prima vista si direbbe che condividano la fine "esplosiva", come annunciata sul terrazzo del loro secondo incontro, ma la scelta kamikaze è fatta scaturire da un meccanicismo propagandistico che non si attaglia al personaggio come è descritto fino al momento dell'assassinio della sorella (e anche dopo: si pensi alle attenzioni che dedica al padre durante il rito funebre, ben diverse da quelle del macho cognato-vedovo di Hamas). Un assassinio brutale e insensato da parte dei soliti militari dell'esercito israeliano e dai loro modi criminali, che però non è in campo mentre viene perpetrato per una sorta di incapacità di raccontare i misfatti della propria gente comune a tutti i colonialismi e le pulizie eniche della storia (ne sappiamo qualcosa noi, che ancora non siamo capaci di istituire il 19 febbraio come giorno dela memoria per tutti i crimini coloniali italiani: i 600 mila morti africani che costellano l'occupazione italiana della Libia; la censura sul film su Mukhtar...): non si mostra il dettaglio del futile assassinio di Rana, perché è solo funzionale al finale che capita in modo scontato e atteso in seguito a quelle prolessi, eppure risulta slegato dal resto del film nonostante i mille registri adottati; allo stesso modo non si mostra il feto nato morto al checkpoint, che serve solo per introdurre la sensibilità del giovane - e dimostrare che non tutti i riservisti sono ignobili criminali degni di un tribunale dell'Aja -, salvo poi dimenticarsi che lo si è spacciato per medico, ma nel resto del film non c'è traccia di questa sua professione, una sciatteria dello script che è solo l'episodio più evidente di un'accozzaglia di diversi racconti che adottano linguaggi differenti: la commedia giovanilistica tipicamente americana su giovani trentenni coinquilini si fonde al reportage d'inchiesta e all'episodio davvero pleonastico dell'amorazzo di Lulu con l'editore macho e bastardo, che non aggiunge nulla alla storia e viene anche stiracchiato riemergendo saltuariamente.

Ecco, ci sono troppi personaggi collaterali che risultano semplici macchiette, inutili e poco significative, ma che sembrano interessare molto al regista in una sorta di coazione a fissare i tratti dell'intera composita nazione israeliana, ed in particolare si focalizza su Tel Aviv, per sdoganarne la propensione alla libertà dei costumi e al piacere dei rave sulla spiaggia (ovviamente con una sottile patina di politica, ma lieve come se fosse zucchero a velo)... anche questo in opposizione con il mondo palestinese, chiuso e islamizzato, omofobo e conservatore.
Un nuovo paradosso è che per tutto il film si continua a ribadire l'intento ("non parliamo di politica") di fermarsi al di qua della propaganda politica, vista come un territorio impraticabile, ma attraente per le riunioni vagamente di sinistra e superficiali come il resto degli argomenti affrontati nel film... e questo atteggiamento è di per sé la politica del film, che deve compiacere una blanda sinistra locale che accetta posizioni meno militariste, ma che non trapeli la scelta politica... ed è un guaio, perché la parte migliore è proprio quella col taglio documentaristico, benché sia troppo smaccato e quella scontornatura video diventa vezzo scenografico.

Invece la scena madre finale è quanto di meno accettabile per come è ripresa, non solo per la melensaggine dell'amour fou, che abusa di pastelli e misticismo; con i toni cromatici non preparati in modo corretto, per cui il dramma capita senza che lo spettatore abbia voglia di viverlo come tale e la commedia non diverte abbastanza, mentre la descrizione della Tel Aviv spensierata, il rave, i locali... sarebbero interessanti se non apparissero sempre soltanto come dei teatri di posa.

adriano boano