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GLBT Film Festival di Torino - I film che cambiano la vita - Da sodoma a Hollywood 2007
Lampisterie sinaptiche

1: bolle e tolleranza

THE BUBBLE
di Eytan Fox

È un vero peccato che la "bolla" perlustrata dalla macchina da presa di Eytan Fox mostri solo il suo involucro superficiale e non abbia voglia di "spingersi oltre" per inquadrare anche le profondità, come invece fanno in un rapporto d'amore "esplosivo" Noam e Ashraf, l'ebreo e il palestinese, protagonisti dell'ultimo film del regista israeliano.
L'inquadratura che coglie il passaggio dalla scopata di Lulù, la ragazza coinquilina (bella, stralunata, un po' sfortunata), i cui capezzoli diventano turgidi mentre l'amante si spinge con le labbra a suggere gli afrori del suo sesso, all'altrettanto partecipata esplorazione ctonica dei corpi dei due maschietti: due amplessi esplosivi collegati tra loro da un intelligente montaggio visivo che deambula linearmente da uno all'altro a indicare che il "buon sesso" può davvero essere l'ingrediente giusto anche per creare un'ottima sequenza.
Per il resto il film non si schioda dallo sciorinare una sequela di cliché, vieppiù risaputi, affidati a una scelta linguistica che convince poco, soprattutto quando lo spingersi oltre del connubio erotico diventa prolessi di una scelta che da sempre gli israeliani attribuiscono alla causa palestinese: diventare kamikaze, anche se per amore stavolta e non solo per vendicare la morte di una sorella.
La "bolla" è Tel Aviv, Israele intera, ma soprattutto il microcosmo messo in scena, quello di Sheinkin Street, un quartiere che il regista conosce bene, una piccola porzione di mondo: un ristorante cool, un caffè, un negozio di dischi che privilegia la musica rock e uno votato al profumo di saponette biologiche. Questo ambiente radical, piccolo cuore alternativo, è lontano anni luce non solo dal fondamentalismo dell'ortodossia ebrea, ma anche dall'integralismo fanatico palestinese: nel fuori dalla bolla l'essere gay risulta impossibile, addirittura indicibile.

L'amarsi omosessuale in Sheinkin Street non risulta nemmeno accomunabile alla rappresentazione teatrale che mostra un amplesso simulato verbalmente tra due prigionieri in un campo di concentramento, che si sentono senza toccarsi, si accarezzano con le parole fino all'orgasmo, fanno all'amore senza essere uccisi dagli aguzzini nazisti e alla fine si dicono "ti amo" con un semplice gesto: un dito che percorre dolcemente l'arco sopraccigliare.

L'essere gay a Tel Aviv, una città moderna, occidentale, lontana dalla guerra e dai checkpoint, non è un'affermazione di vita trasgressiva, capace di superare i tabù culturali e i pregiudizi razziali, ma la messa in scena di un'ineluttabile, tragica e destinale osmosi, capace di darsi solo nel morire insieme, farsi esplodere con la speranza di raggiungere un paradiso ultra bolla, intravisto come unica possibilità per amarsi, ma anche come gesto di resa incondizionata.

Eytan Fox si compiace nell'indugiare l'attraversamento di questa superficie piacevole, ma non riesce a far esplodere le contraddizioni che si annidano nel profondo, così risulta poco credibile il suo tentativo di giocare tra diversi piani, le scelte documentaristiche affidate al racconto dei background biografici dei personaggi, i fatti di cronaca, le perquisizioni e le umiliazioni patite ai checkpoint si intrecciano maldestramente con la storia, risultano concrezioni aggiuntive, fuori luogo, extra bolla, incapaci di portare aggiunte di valore all'universo irreale dove vivono i protagonisti.

Per fortuna anche la bolla si frantuma, tra i cocci restano il sangue, i brandelli di carne, le schegge impazzite di un amore esplosivo... Poi la macchina da presa si arresta, risparmiandoci il prosieguo in una dimensione ultraterrena.
Ma perché per entrare nella bolla, il giovane palestinese deve assumere un'altra identità, spacciarsi per ebreo, cambiare nome e farsi addirittura chiamare Shimi, che vuol dire Sansone, come quello venduto ai nemici dalla moglie Dalila? Ah... già, è un ulteriore stratagemma per farne l'archetipo del kamikaze palestinese, anche lui come Sansone disperato si fa esplodere, solo che stavolta non urla "Muoia Sansone con tutti i filistei", ma si tocca le sopracciglia con un dito per dire huby, "Ti amo".

AU- DELÀ DE LA HAINE
di Olivier Meyrou

Nel circuito visivo compreso tra il bianco immacolato della neve (che ricopre interamente il terreno di un parco, dove bambini sono impegnati a giocare una battaglia con palle di ghiaccio) e il nero indistinto della notte (che sfioca le ombre dei podisti che corrono veloci lungo i vialetti per scomparire nel buio), c'è il tempo e lo spazio perché un padre possa interrogarsi, seduto su una panchina del medesimo parco di Reims, dove 730 giorni prima suo figlio, François Chenu, 29 anni, è stato picchiato a morte da tre skinhead, per il semplice fatto di essere omosessuale.
Il suo monologo interiore recita un ritornello ossessivo: "Come è ancora possibile vivere dopo ciò".
Il documentario registra il metodo individuato dalla famiglia di François, per colmare la disperazione, sedare la rabbia vendicativa, oltrepassare l'odio e continuare a esistere.
I genitori decidono infatti di accompagnare il ricordo di questa tragica morte con la metodica ricerca delle ragioni che possono avere indotto tre giovani, iscritti al movimento repubblicano nazionale, ad accanirsi contro François, dapprima deridendolo, poi gettandolo a mollo nell'acqua di un laghetto del parco, dopo essersi accaniti a devastargli il volto, soltanto quello, non il resto del corpo, forse perché nel suo viso si depositava tutto l'orgoglio di essere gay, una bellezza al di là dell'appartenenza a una identità di genere, nella quale desiderava essere riconosciuto.
Sfigurare un volto nel vano tentativo di cancellare la traccia di una scelta di vita, giudicata deviante e deplorevole al punto da condannarla a morte, è una vile profanazione, analoga o forse peggiore a quella di uno stupro, perché la violenza si accanisce a esercitare la sua pulsione distruttiva soltanto su una porzione del corpo, in questo caso il viso, pars pro toto che consente di essere guardati e al contempo di vedere come gli altri reagiscono di fronte all'esibizione di quello che si è.
Per andare al di là dell'odio e tentare di ricostruire se stessi, i genitori di François scelgono di sperimentare un percorso faticoso e al contempo originale: decidono infatti di seguire gli incontri con gli avvocati della difesa e della pubblica accusa, prima, durante e dopo il processo (che si concluderà con una condanna a 15-20 anni di detenzione), per cercare di conoscere la storia dei tre ragazzini naziskin, la loro famiglia, l'educazione ricevuta, ma fanno ancora di più: si lasciano riprendere da una macchina da presa, accettano di parlare, intervallando le loro voci a quelle degli avvocati o dei familiari della controparte, affinché il racconto di questa loro battaglia con se stessi, animata dal desiderio di capire se ha ancora un senso parlare di tolleranza e rispetto dell'altro, possa assumere la valenza di una liberazione, catartica rispetto all'odio - subito e a sua volta provato - senza per questo giungere a giustificare il criminale comportamento di chi si è macchiato di questo orribile delitto.
Il film indaga con estrema lucidità gli svariati motivi da cui può scaturire l'odio, quello stesso che persino la madre di François riconosce di aver provato di fronte al viso sfigurato di suo figlio: "Questa rabbia, questo odio... io stessa sono stata capace della stessa violenza di loro. Bisogna viverla, per scoprire un altro lato di se stessi". Una testimonianza davvero esemplare.

paola tarino