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FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA - Milano, 2005

EL CIELITO (Piccolo cielo) di Maria Victoria Menis
Argentina, 2004

In concorso nella sezione lungometraggi “Finestre sul mondo”
15° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina (Milano, 14 - 20 marzo 2005)

L'arrivo di Felix nel Chaco

“In un’Argentina devastata dalla crisi economica, nasce un tenero e insolito legame tra Felix, un giovane vagabondo, e Chango, un bimbo di appena un anno. Nella campagna della Pampas, Felix è assunto come bracciante da Roberto, il padre di Chango. Mentre in casa cresce la tensione tra Roberto e la moglie, Felix comincia a prendersi cura del neonato. Tra i due nasce un grande affetto. Felix, orfano dei genitori, sente che deve dare al bambino l’amore negatogli dalla famiglia. Emarginato dalla società e solitario, il giovane ha trovato uno scopo nella vita: salvare il bimbo dal caos” (dal Catalogo del 15° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Editrice Il Castoro, Milano 2005, pag. 25).

Felix e Chango

Leonardo Ramirez offre una prova attoriale stupenda nel ruolo del giovane padre adottivo: risultano sincere e convincenti le attenzioni e le cure prestate al piccolo Chango, dal momento in cui si accorge della sua presenza e soprattutto quando si rispecchia nella sua condizione, che lo porta gradualmente a ripercorrere alcuni frammenti della sua infanzia e soprattutto a ricordare nel finale il volto della nonna, che si era occupata di lui, una volta diventato orfano.
L’inserimento di flashback, dapprima sfocati o in bianco e nero e poi man mano maggiormente nitidi e a colori, dedicati al flusso di memoria del giovane, punteggia lo sviluppo della vicenda, arricchendo il personaggio di un fascino misterioso e facendo assumere alla sua recitazione una sorta di legittimo riscatto del proprio passato.

Felix sta scappando da un mondo che non è dato conoscere (di lui si saprà soltanto che è nativo del Paranà): lo vediamo scrutare il paesaggio, che si va facendo sempre più brullo e desertico, dal finestrino di un treno in corsa, che si lascia alle spalle anche le manifestazioni dei piqueteros ai bordi della ferrovia; senza biglietto in tasca è costretto a lanciarsi dal vagone al sopraggiungere del controllore e a proseguire arrancando lungo le rotaie, che lo portano a raggiungere la stazione di un villaggio nel Chaco, privo di grandi attrattive, dove il tempo sembra essere sospeso o scandito soltanto dal rito di una birra, consumata da un unico avventore intento a seguire alla televisione un incontro di pugilato. Il giovane è in cerca di un lavoro qualsiasi, mentre all’uomo interessa soltanto poter rinverdire le proprie trascorse prodezze boxistiche, in memoria dei bei tempi andati. L’adulto offre ospitalità e un’occupazione temporanea al ragazzo: dovrà occuparsi della fattoria e dare una mano alla moglie nella raccolta della frutta, destinata a trasformarsi in confettura da vendere agli angoli di una, poco frequentata, strada principale.

Roberto e la fattoria

Felix accetta di buon grado quella sistemazione precaria in un casale desolato, dove le giornate, illuminate da un tiepido sole malsano, trascorrono apparentemente sempre uguali a se stesse (siamo nel nord dell’Argentina e non nell’evocativa Patagonia), ma il suo sguardo, muto e indagatore, si rende conto fin dall’inizio che qualcosa non va in quella coppia mal assortita. Roberto, il marito, è un sempliciotto rimasto disoccupato, pronto a divertirsi al tiro al bersaglio, usando come prede dei mandarini; ritiene sia necessario con i tempi che corrono viaggiare armati; inoltre è un beone e, quando alza il gomito, non si fa problemi a picchiare la moglie. Quest’ultima appare come una creatura mite e succube degli eventi domestici, i suoi lineamenti indigeni la rendono ancora più indifesa nei confronti delle violenze fisiche e psicologiche cui la sottopone il marito, mentre il suo comportamento discreto e silenzioso l’aiuta fin dall’inizio a sentirsi timidamente solidale nei confronti dell’estraneo. Oltre alla coppia nella cascina c’è Changuito, il figlio di un anno appena, che risveglia in Felix un’ondata di tenerezza, che, stupisce persino il giovane medesimo, incredulo di fronte alla sua capacità di saperci fare con un neonato. Tra i due scatta fin da subito qualcosa di travolgente: un’attrazione reciproca, fatta di sguardi, smorfie, abbracci, carezze, dita afferrate con la forza di un pugnetto (“Tu mi hai stretto la mano, non resterai mai solo, io mi occuperò di te”).
Al ragazzo viene naturale cullare Chango, cantargli la ninna-nanna, sfamarlo con il biberon, farlo divertire, eseguendo anche giochi di abilità con le mani, usando i mandarini non come bersagli da abbattere, bensì come attrezzi del mestiere degni di un clown. Inoltre intesse lunghi monologhi con il bambino, che gli consentono di riattraversare repertori della sua infanzia, permettendo così anche allo spettatore di comprendere la valenza di quei siparietti onirici, destinati a materializzare dal subconscio le fattezze della nonna, il cui volto, dimenticato, prenderà forma soltanto nel tragico finale, mentre dapprima di lei il ragazzo riesce a mettere a fuoco soltanto dettagli di gambe, mani e spalle.
Le inquadrature volte a mostrare l’apertura o la chiusura di porte e finestre finiscono per dare un ritmo alla convivenza stessa del quartetto, diventando al contempo cifra metaforica del dramma che si sta allestendo in quel microcosmo, che attribuisce sempre più al giovane il compito di muto testimone di una catastrofe familiare e al contempo di aiutante magico nei confronti della creatura più indifesa. Inoltre l’abbondante utilizzo di primi piani di Felix finisce con il registrare puntualmente i suoi stati d’animo: preoccupati e pensierosi da un lato, quando spia la relazione tra i coniugi; affettuosi e amorevoli dall’altro, man mano si rende conto dell’importanza che sta assumendo la presenza di Chango nella sua vita, alimentata anche dal sospetto che la madre del piccolo abbia deciso di metter fine alla propria, affidandogli indirettamente il figlio, che sa allevare così bene. Simbolica di questa variazione all’interno della ripetitività delle giornate un’altra inquadratura ricorrente mostra in campo lungo un muro perimetrale rossiccio, nel quale si confondono un po’ le figure del giovane e della madre, poste alle due estremità del quadro statico, ma in realtà dinamico perché i due si scambieranno i ruoli: Felix si trova con il bambino in braccio a osservare la donna che mangia al posto che lui occupava nell’inquadratura precedente. Lo scambio è avvenuto in una specie di montaggio delle attrazioni di stile ejzenstejniano.
Quando la tragedia si consuma e la donna sparisce (forse confondendo il proprio corpo proprio con le acque del fiume, vissuto come un orizzonte di salvezza), mentre il marito finisce con l’impazzire e distruggere la fattoria, in perenne stato di ubriachezza, il giovane decide di riprendere il viaggio di partenza, portando con sé il bambino e un gruzzolo di banconote.

Timidi contatti

Il film avrebbe potuto concludersi su questo finale positivo, capace di restituire una sorta di speranza all’esistenza di due creature sfortunate, che condividono il medesimo senso di orfanitudine, invece si scopre che il vero intento della regista argentina (che mette come chiosa la sinistra dicitura “Benedetti i nostri figli”) consiste nell’operare a questo punto una sorta di astrazione dalla fiaba per concentrarsi soprattutto sulla natura dell’oggetto d’affezione: l’analisi del rapporto tra Felix e Chango da un’angolazione diversa, capace di mostrare luci e ombre su questa totale dedizione all’altro da sé, colma di temperie emotive, che non lasciano margini a consapevolezze razionali. In preda all’euforia scatenata dall’avere finalmente uno scopo nella vita, qualcuno di cui occuparsi, il giovane dimentica di non poterlo mantenere: trascorre il suo tempo ad allestire una casa “a misura bambino”, dove poter vivere con Chango, scoprire il piacere di imbandire una tavola per due e dormire, cullandolo tra le sue braccia. Ma la realtà è amara come il suo sogno ricorrente, che rivela finalmente la sua portata anticipatoria: la sua manina di bambino intenta a rimestare l’acqua, in un secchio che ne riflette l’immagine, diventa rossa come il colore improvvisamente assunto da quella superficie liquida.

C'è pranzo e pranzo...

Colto impreparato di fronte alla morte della nonna, Felix trova un suo equilibrio nella seconda situazione, quando decide di abbandonare l’ambiente di fiumi e acquitrini della sua infanzia; trova un ruolo nel Chaco, sostituendosi a una madre, a sua volta impreparata, tanto che decide di suicidarsi, gettandosi proprio nell’acqua; risulta ancor di più sprovvisto di strumenti per sopravvivere all’interno di una città, quando si risolve nell’adozione del bambino. Come avviene normalmente nella cinematografia del nord dell’Argentina, si pensi a Los Muertos di Lisandro Alonso o ai film di Lucrezia Martel, questo può far pensare che l’uso dell’ambiente sia metaforico della cultura o dell’attuale società Entre Rios.

Vividi ricordi finali

paola tarino