Il
settimo sigillo. Ingmar Bergman. 1956. SVEZIA.
Attori: Max
von Sydow, Gunnar Björnstrand, Gunnel Lindblom, Bengt Ekerot, Bibi Andersson,
Nils Poppe
Durata: 96’
Titolo originale: Det Sjunde inseglet
Un falco solca il cielo. “Quando l’agnello aperse il settimo sigillo nel cielo si fece un
silenzio di circa mezz’ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e
furono loro date sette trombe…”. Due uomini, il cavaliere Antonius Block ed
il suo scudiero, sono con i loro cavalli in riva al mare. Al fianco di uno è
impostata una scacchiera. Sopraggiunge una strana figura che dice di essere la Morte. Antonius accetta di
giocare la partita con lei. All’alba il cavaliere ed il suo scudiero possono
ripartire. Un saltimbanco assiste all’apparizione di una donna con un bambino
ma quando prova a raccontarlo ai suoi compagni non gli credono. Antonius e il
suo scudiero arrivano in un paese colpito dalla peste. La Morte continua a seguire
Antonius con l’intento di convincerlo. Un giorno anche la famiglia di saltimbanchi
giunge in paese ed a loro si uniscono Antonius ed il suo scudiero. Il gruppo si
allontana e sul loro cammino assistono all’esecuzione di una donna accusata di
stregoneria. Afuggiti ad una tempesta, dopo aver passato altri imprevisti,
giungono finalmente nel castello dove ad attendere Antonius c’è la sua donna,
l’unica a non essere fuggita dalla peste. Al mattino solo la famiglia di
saltimbanchi può scorgere il sole.
Il settimo sigillo,
tra le più conosciute opere del regista svedese, è una grande riflessione sul
senso della vita e sul significato della morte, messe entrambe sullo stesso
tavolo, una di fronte all’altra, in una metaforica partita a scacchi dove ad
ogni mossa corrisponde una scelta. Religiosissimo, il film si aggrappa proprio
all’idea della morte (la partita a scacchi, il saltimbanco che la imita, la
peste, i dipinti con teschi, la condanna) come unica certezza e sicurezza in
grado di dare senso all’intera vita. Il terrore per il vuoto (che la morte
rappresenta) avvicina sempre di più l’uomo a Dio in una sorta di cieco
riconoscimento di una speranza, rappresentata dalla vita stessa (e nel film
dalle figure dei saltimbanchi). Il finale, in una sorta di rinascita, un Eden
medievale dove due saltimbanchi rappresentano in un certo senso Adamo ed Eva,
due esseri umani che guardano la morte portar via anche gli ultimi uomini. È
forse il sacrificio del cavaliere a salvare la vita della coppia? In questo
senso allora, un cavaliere che ha perso la fede (come Cristo in croce che
domanda al Padre il motivo dell’abbandono) è come un messia sulla terra che
torna a ribadire l’importanza dell’uomo di fonte alla morte ed alla
responsabilità della vita. Il contesto medievale poi, carico di simboli e
figure che si rifanno alla pittura ed alla letteratura, è anche il pretesto per
parlare degli anni in cui il film venne realizzato, una sorta di caos post
bellico ad un passo (si credeva all’epoca) da un conflitto ancora maggiore e
più devastante (la peste come flagello atomico). Allegorico, a volte
didascalico ma sempre profondo, il film è una pietra miliare del cinema
d’autore, fatto di inquadrature dal forte senso narrativo e da dialoghi che
nascondono, dietro ogni singola battuta, una riflessione tanto profonda quanto
personale. Non a caso il regista, parlando di questo lavoro, affermò che si
trattava di una delle ultime espressioni di fede, delle idee che aveva
ereditato dal padre e che portava con se fin dall'infanzia [i].
Bucci Mario
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