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Amnésia
Anno: 2001
Regista: Gabriele Salvatores;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 18-03-2002


Amnèsia - Gabriele Salvatores
Amnésia
Italia, 2001, 90'

regia.......................... Gabriele Salvatores

sceneggiatura............ Andrea Garello, Gabriele Salvatores
fotografia.................. Italo Petriccione
montaggio.................. Massimo Fiocchi
produttore.................. Maurizio Totti

cast: Diego Abatantuono, Sergio Rubini, Martina Stella, María Jurado, Alessandra Martines, Antonia San Juan, Bebo Storti, Ugo Conti, Orazio Donati
produzione................ Colorado Medusa
distribuzione............. Medusa

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Premessa

Il punto di maggior interesse del nuovo film di Salvatores è racchiuso nell'intuizione espressa in quella urgenza di mostrare come la fruizione di qualunque testo è a tal punto menzognera che si è in balia della volontà dell'autore, comunque. Intendo dire che potremmo inventarci innumerevoli altri raccordi perduti nella canonica ora e mezza di narrazione, che attribuirebbero all'evoluzione del plot altrettanti diversi approcci alla storia e ai personaggi. Questo evidenzia lo strapotere dell'autore - e ciò è un bene in fase creativa - ma allo stesso tempo denota il compiacimento - e da qui deriva una sofferenza durante lo sforzo ermeneutico dello spettatore. In questo caso non solo ci è interdetta, come è ovvio, la certezza dei motivi che hanno spinto l'autore a mettere in scena quell'intreccio in quel modo - e dunque per fortuna ci limitiamo alle nostre interpretazioni -, ma pure le inferenze personali ci vengono sottratte con uno scippo dal quale possiamo difenderci solo rilanciando: inventandoci un ennesimo sottotesto, rigorosamente all'interno del canovaccio - come per la commedia dell'arte - per poter scardinare l'immaginario altrui e riempirlo del nostro di spettatori. In questo senso può essere un'operazione di liberazione dalle pastoie della trama (che poi è un'accozzaglia di rimestazioni nel passato del Salvatores "in fuga" o di San Isidri futball club mescolati a personaggi avulsi dalla loro solita affabulazione cinematografica e ricollocati con il gusto di vedere cosa gli si può far agire in quel contesto), diversamente è una subdola manipolazione dell'immaginario degna del padrone della distribuzione (Medusa: un marchio, una garanzia) quando all'improvviso si riavvolge il nastro e noi, edotti dall'esperienza di Haneke, pensiamo ci venga proposta un'altra soluzione, una sorta di Lola Rennt o di Smoking/no smoking. Invece, no: assistiamo allo stesso film, ma sotto un altro punto di vista, come Rashomon, però a partire dall'incidente che vede raccogliere nello stesso incrocio la maggior parte dei personaggi che abbiamo seguito nelle loro evoluzioni a Ibiza, quando si fanno più assillanti i giochini di scomposizione elettronica del quadro.

L'aspetto positivo è la sottolineatura che tutte le ellissi (ed eclissi) che uno spettatore medio completa con sue arbitrarie attribuzioni per accettare la storia, saccheggiando dal suo immaginario costruito su innumerevoli plot simili (e questo serve a dimostrare che si rimane all'interno di stereotipi), sono ampiamente scardinabili da chi - come l'autore - sa "in realtà" come si sono svolti i fatti e rivelandoli, cambia d'autorità le inferenze presupposte dallo spettatore che fino a metà film si era costruito aspettative che vengono rivoluzionate; l'aspetto negativo è che si rimane all'interno del bozzetto per i personaggi (più o meno gigioneggianti nei loro ruoli precostituiti), anche quando come il gangster amante dei Beatles riesce a ritagliarsi un ruolo con uno spessore wendersiano da "nemico americano" attraverso non solo il vissuto da vecchi hippies che tutti questi bikers emanano, in sintonia con il primo defunto della storiella poi abbandonato come la macchia d'olio, ma anche lasciando immaginare una storia, un rimpianto. Una nostalgia, incomprensibile a tutti («Lo siento. Non intiendo l'inglès»). E dunque, lui, è costretto a vivere in un universo ulteriormente parallelo, poiché lo sforzo di moltiplicare gli specchi per arrivare alla solita fissazione da Nirvana («Nothing is real», ancora più vero dato che Rubini, destinato a raccogliere le ultime parole del gangster, non capisce l'inglese) rischia di non creare - forse volutamente - un mondo diegetico unico, ma tanti piccoli universi in cui ciascun personaggio è racchiuso con difficoltà a transitare in quelli altrui.
E questo potrebbe essere il punto di partenza della nuova evoluzione di un eventuale plot che riavvolge integralmente la storia - riavvolgimento alla Funny Games concluso al funerale del primo motociclista, ma non alla sua caduta - per dimostrare che si può differire all'infinito il montaggio alternato in una diacronia che rinvia a una sincronia di cui si sono perdute alcune tracce, quelle che permettono di spiegare l'evoluzione e soprattutto l'intreccio di due apparentemente parallele storie, montate fino ad allora in montaggio parallelo e che al giro di boa diventano nel ricordo un montaggio strettamente alternato e intrecciato, che lascia sapientemente cadere qualche inquadratura quasi uguale - con battute rigorosamente ripetute, allo scopo di creare il riconoscimento, quasi fosse un giallo - ma da altro punto di vista, quasi si volesse sottolineare la simmetria delle due storie, che vedono la loro identità sottolineata nell'incontro dei padri all'aereoporto: per rimarcare che la prima parte è la crescita della famiglia disastrata del pornografo a venire fatta a brani (pessima la recitazione della signorina, mai quanto la Martinez), mentre nella seconda si scandaglia il disastro di quella del poliziotto (eccellente l'interpretazione dello scapestrato figlio, che conferisce brio al film facendolo decollare, perché la sua presenza scenica consente riprese ritmate sulla sua vita "drogata", sregolata: gli attori spagnoli offrono una prova superlativa, anche la "segretaria" almodovariana è strepitosa).

Si diceva "fino a metà film", quando con un effettaccio da Haneke si torna all'inizio - ma non al prologo - per riprovare a narrare le infinite storie che combinano il microcosmo di Ibiza, ma utilizzando una sorta di specchio deformante, che già aveva avuto nella produzione filmica dell'improbabile padre Abatantuono un esempio di come si poteva duplicare la realtà (infilandoci pure una surreale eclisse alla Savinio, già nello Schnitzler kubrickiano e prima ancora nella festa di Shining). Nella seconda parte, ben più scandita da citazioni di genere e ritmo incalzante, si ritrova lo schema appena abbandonato di un padre posto di fronte ai suoi fallimenti, che incrocia più volte la storia fin lì narrata attraverso infiniti personaggi interagenti, ma grazie alla più incisiva recitazione dei due protagonisti il dramma viene meglio alla superficie e la tensione si fa più coinvolgente. Come la musica sempre più virata su sonorità teckno che ben si adattano alle furberie da postproduzione con scomposizione dello schermo, la cui fotografia, finché è banalmente statica, non va al di là del b-movie anni ottanta (sfruttando la luminosità del sole), ma quando accelera i passaggi consente davvero di sviluppare velocemente le singole storie, contemporaneamente dimostrando che il vero tema a base del film è il lavoro sulla sincronicità dilatata, decostruita e ricomposta, conferendo ai singoli spezzoni tempi e ritmi che allontanano gli episodi tra loro trovando raccordi distanti nel tempo, seppure logicamente contigui. Una sincronia diacronizzata e differita per assegnare a ogni episodio il suo corretto e calibrato respiro: l'intuizione era giusta, ovvero denunciare che le storie sono già narrate e il pubblico anticipa - magari erroneamente e senza badarci troppo - i raccordi tra una sequenza e l'altra, bisognava solo affidare poi la realizzazione a chi con maggiore professionalità avrebbe ottenuto un risultato più convincente. Le figure di contorno invece sono azzeccatissime: sia Bebo Storti, una specie di Lino Ventura della bergamasca in un ruolo adattissimo, sia soprattutto Rubini, capace di attribuire al suo personaggio una dimensione convincente con i suoi classici birignao e una sorta di autismo egotistico.
Ma perché lo spagnolo è stato doppiato (tranne la battuta della puta e lo spagnolo maccheronico dei soliti italiani. e l'"inglés" no?





























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