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Funny Games
Anno: 1997
Regista: Michael Haneke;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Austria;
Data inserimento nel database: 15-07-1998


Michael Haneke

Funny Games

Regia e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Jürgen Jürges
Costumi: Lisy Chrisl
Montaggio: Andreas Prochaska
Suono: Walter Ammann
Cast: Susanne Lothar, Ulrich Mühe,
Frank Giering, Arno Frisch, Stefan Clapczynski

Produttore: Veit Heiduschka
Direttore di Produzione: Werner F.Reitmeier
Produzione: Wega Film Produktions
Formato: 35 mm.
Durata: 103'
Provenienza: Austria
Anno: 1997


"La finzione è vera quanto la realtà che si vede nel film", enunciato finale, rivelatore, se ancora ce ne fosse bisogno, di tutti gli intenti di Haneke. Egli espone i meccanismi mediologici sottesi alla disinformazione, come ormai è prassi nel cinema statunitense, ma per una volta, da europeo, a partire dal lettore e non dai padroni dell'informazione, e lo fa prospettando una quotidianità televisiva mascherata: siamo in grado di riconoscere dietro al thriller tutti i meccanismi di squallida macelleria psicologica dei cannibaleschi salotti televisivi: "Il valore dell'intrattenimento impedisce l'uccisione immediata". La novità è che siamo noi, spettatori, i responsabili di questo divertimento orchestrato in nostro onore: ciò che chiediamo ci viene ammannito ed è inutile che inorridiamo, perché, con il rigore giansenista che contraddistingue il regista austriaco, veniamo inchiodati all'esposizione della nostra turpe passione. Inoltre non possiamo sottrarci: lo spettacolo per noi condotto con uno stillicidio di graduali, lentissimi, spostamenti verso un epilogo scontato andrebbe avanti anche se rifiutiamo ipocritamente di vedere, difatti ci chiedono sfrontati: "Siamo ancora in onda?" e allusivi alla scommessa: "Non abbiamo sforato"; persino la violenza "perbene" dei due odiosi protagonisti è interessante per l'alternanza tra repulsione e attrazione che innesca nella situazione di tensione, resa intollerabile senza particolari eventi, ma il disagio risulta talmente palpabile che si avverte un sollievo al termine del film sollevarsi dalla platea per lo sforzo di tollerare il massaggio psicologico.

Haneke non ha bisogno della musica ruffiana che ci accompagna nelle case buie dei soliti splatter noiosi a sottolineare la falsità di tutto, non soggettive a immedesimarci nella vittima designata o nel carnefice (siamo già ascritti ad entrambe le categorie dall'appartenenza al genere umano: il film non fa che rammentarci senza falsi moralismi, né compiacimenti, un aspetto della nostra natura, la violenza prevaricatrice priva di ragione, ma perseguita con solerte premura), nessun gesto concitato chiuso in un improvviso taglio di frame a completare la catarsi verrà a liberarci dal senso di colpa per la consapevolezza di aver collettivamente voluto prendere visione precisamente di quanto vediamo e allo stesso tempo il lento trascorrere di azioni non caratterizzate da alcunché fuori dal normale non ci esime dal temere di subire umiliazioni simili. Anche perché le sopportiamo a livello psicologico ogni giorno: se togliamo i pochi risultati delle violenze operate dai ragazzi sempre fuori campo (sostanziali, ma nell'economia del film marginali rispetto all'inaudita tracotanza di un sistema in tutto simile ai meccanismi di potere quotidiani), ogni battuta è improntata alle regole del miglior galateo ed i due ragazzi non sono "bastardi dentro", piuttosto emanazioni inquietanti di una cultura che ha creato mostri di sofismi; d'altronde la stessa furia si scatena in modo inspiegabile secondo le regole della normalità, ma cambiandole in corso di opera persino le più turpi trovano spiegazioni nelle parole melliflue di Paul: il sopruso è nascosto nello scherno del dissidio paralogico.

E qui si innesca il discorso filosofico: la scommessa proposta sarcasticamente, chiedendoci di partecipare, rivolgendosi direttamente in macchina agli spettatori, negandoci anche la facoltà di scelta del campo, dileggia il precedente pascaliano per il fatto che il risultato non ha alternative e siamo tenuti a parteggiare per la fazione che sappiamo perdente fin dall'inizio; questo ci viene confermato nel momento in cui diventa possibile addirittura cambiare il corso delle cose, riavvolgendo come un video quella che per noi è divenuta realtà, essendo trascorsa sullo schermo. Invece siccome il decorso dei fatti ha preso una piega inaspettata per chi detiene il potere, si può addirittura riportare in vita Peter, semplicemente facendo scorrere al contrario la pellicola e così recuperare l'opportuno flusso delle cose, usando un telecomando (dettaglio non peregrino). Chi detta le regole e le muta durante il gioco è uno dei giocatori, contravvenendo ai criteri ideali (ma non alla norma di tutti i giorni, dove non si applicano: basti pensare alla linea difensiva di Berlusconi, volta proprio a presentarsi come vittima, laddove è imputato e a proporsi come garante delle regole, quando è il massimo interessato alla loro applicazione truffaldina, in grado di riavvolgere il nastro delle sue ribalderie con lo stesso ghigno irritante di Paul); dunque se tutto è decretato, se il destino è segnato solo per il fatto che nella catena dei delitti tocca a quella famiglia, allora la scommessa di Pascal non riguarda più il nostro rapporto con l'esistenza di Dio, dato che la scommessa è truccata, quanto il problema della Grazia, risolto dai cattolici in modo consolatorio con le buone azioni, illusoriamente capaci di riscattare una qualche salvezza (addirittura presso certi fanatici si arriva al sacrificio, come in Breaking the waves).

Questo è un universo di riferimento che nell'atmosfera giansenista del film non si pone e che è sostituito dai ruoli predestinati: un fato da affrontare semplicemente con dignità. Rinnovando lo sberleffo a Pascal, Haneke pone il problema di chi sia il Sommo Regolatore del gioco di ruolo di turno, perché anche i due ragazzi, che tra loro non a caso si chiamano Tom&Jerry a sottolineare il loro stato di figuranti (ed il riferimento al mondo dei comics aggiunge surrealtà all'incubo), sono comunque pedine del fato, al massimo caratterizzati dal loro maniacale rapporto con il cibo. Non funzionano le classiche definizioni di prammatica attraverso le quali la società dei benestanti ed i loro mezzi di comunicazione cercano di etichettare e quindi di ostracizzare i fantasmi, che dovrebbero avere connotati invariabilmente alieni, rappresentati dai due giovani, anzi addirittura Paul elenca tutti gli stereotipi giornalistici attraverso i quali i benpensanti si tranquillizzano (manca solo la definizione di squatters), riferendoli tutti in aperto contrasto tra loro al suo compagno di ribalderie, destabilizzando ulteriormente le certezze della coppia borghese e del pubblico in sala, fino alla beffa di chiedere alla vittima quale verità vorrebbe sentire.

Ma chi è il Dio di fronte al quale, durante uno degli allucinanti giochi imposti, Anna si deve inginocchiare? Apparentemente è Paul che le sta di fronte, in realtà è il moloch della platea inorridita dalle sue stesse voluttà, che non è più in grado di controllare, neanche con la farsa della sociologia da spettacolo giornalistico: Dio non sa più regolare la sua creazione, una volta creata, l'umanità degenera senza freni e si passa da Pascal al nichilismo nietzschiano. A questo punto anche la Grazia diventa un incubo ed il ruolo svolto da ognuno è una condanna: infatti fin dalla sequenza dei titoli iniziali, evocatrice dell'avvicinamento all'hotel di Shining, di cui recupera l'isolamento e la situazione claustrofobica, seguiamo un'auto dall'alto e la ripresa insistente evoca lo sguardo onnipotente ed il prossimo terrore incombente sui giochini innocui relativi a cantanti lirici, spazzati via insieme a Händel da un durissimo pezzo di metallo puro sparato a tutto volume nel momento in cui Georg si arrende di fronte all'ennesimo indovinello; solo a questo punto al di là del parabrezza ci viene finalmente mostrata la famigliola predestinata.

In fondo la proposta di Peter e Paul non fa che spostare la predisposizione al giochetto della famiglia benestante: dal terreno di innocuo passatempo la traspone su un piano esiziale, senza implicazioni di lotta di classe o di teppismo, anzi si direbbe che i carnefici provengano dall'interno della loro stessa classe abbiente di cui non si peritano di rinunciare ai modi e alle maniere più urbane, facendo rilevare con parole garbate le scortesie subite ("Tutto questo per esserci dati del tu"); addirittura è Anna la prima a introdurre il concetto di gioco, invitandoli a smetterlo. Ma i due giovani hanno buon gioco a replicare alla domanda: "Perché lo fate?" con un laconico e irridente: "Perché no?". Il film prende sul serio questo quesito e si sforza di elencare ogni possibile presa di posizione che possa riformare le regole di convivenza, fondandosi sulla prepotenza, per dimostrare quale labile difesa si può opporre contro il pensiero negativo, quando diventa fondamento di devianze.

Tecnicamente l'inizio è ineccepibile con la serie di piccole incombenze documentate solo attraverso gambe e braccia che freneticamente si adoperano ad organizzare il luogo della rappresentazione, una villa con accesso al lago per la barca privata, campi da golf e prospettive di grigliate. I personaggi sono così spersonalizzati e conquistano gradualmente il loro ruolo precipuo nella mattanza. Il pregio maggiore della regia è la graduale attenuazione della presenza di inquadrature indiziarie e prolessi iniziali, per lasciare il posto ad immagini/affezione (così Deleuze definirebbe forse i primi piani sui volti che restituiscono l'azione fuori campo, aggiungendo la loro impressione e il climax dello stato d'animo che ne consegue: la sorpresa, il presagio, il tremore, l'umiliazione, il panico, il terrore) come il viso solcato da lacrime di Anna costretta a spogliarsi, fino ad arrivare a quell'estenuante inquadratura fissa sul teatro della tragedia con il cadavere del bambino, il sangue sul televisore e sul muro, la madre attonita e legata, il padre riverso sul pavimento e il dettaglio allucinante del Gran Premio di Formula 1 in corso di svolgimento, unico soggetto in movimento, colto soltanto attraverso il sonoro dei bolidi, ossessionante e fuori luogo, tanto che la prima azione che riesce a fare Anna è quella di spegnere il televisore. In quel frangente si ha la cifra del dramma realmente avvenuto; di qui in poi il racconto si fa estenuante per i tempi reali imposti alle riprese: assistiamo ai preparativi alla fuga, ai maneggiamenti, alle operazioni di lutto pietoso dei due genitori e in realtà siamo oppressi dal loro stato d'animo, grazie alla durata reale delle loro azioni. È davvero un momento di compassione, non per commozione, ma perché grava l'enormità degli eventi a cui stiamo assistendo: è l'opposto di ciò che avviene nel cinema d'oltreoceano, dove l'abitudine all'azione violenta diventa prassi ed esaltazione, in questo caso gli atti inauditi si accumulano impastandosi con la tensione fino a imporre quella lunga inquadratura di rimeditazione senza diventare mai pretesto per la reazione violenta, automaticamente connotata come buona, perché esercitata dall'eroe. In questo film tutte le violenze, improvvise e fuori campo, si palesano come eruzioni, che allentano temporaneamente l'insostenibile tensione: sono gesti e non lunghe sequenze di lotta alla John Woo, sono imprescindibili nella loro astrattezza e non estetizzanti. Non sono loro a colpire l'immaginario, quanto l'assurdità della situazione e la percezione che una logica perversa in grado di legittimare un Diritto simile a quello cui stiamo assistendo è già esistita, è la stessa sensazione di nausea da vertigine per la perdita dell'equilibrio razionale che coglie alla visione del Salò di Pasolini. Sarà per questo che i fascisti nostrani si sono allineati ai moralisti come Wenders per chiedere la censura di un film che evidenzia le storture presenti alla fonte di un'ideologia deviante come la loro esponendo anche la loro connaturata "insolenza inaudita"?