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Trois Fables africanes
Anno: 2000
Regista: Claude Gnakouri; Luis Marques;
Autore Recensione: adriano
Provenienza: Costa d'Avorio;
Data inserimento nel database: 01-04-2001


Trois Fables africanes

Trois Fables africanes

Visto all'12 festival internazionale del cinema africano - Milano


 



Regia:  Claude Gnakouri, Luis Marques
Sceneggiatura:  Claude Gnakouri, Luis Marques
Fotografia:  Pascal Baillargeau
Montaqgio:  Bertrand Boutillier
Musica:  Dimitri Artemenko, Yvan Kazan, Ali MWague, Mamadou Kouyate, Djeli Moussa Condé
Suono:  Michel Guiffan

CAST

Moohna N'Diaye,
Cécile Besse,
Robin Shuffield,
Philippe Helies,
Frank Prunier,
Assandé Koichi
, Luis Marques.


Produzione: Avalon Films
Durata: 20'
Anno: 2000
Nazione: Costa d'Avorio
Distribuzione: Avalon Films. 8, rue de la Bruyère 75009 Paris (France). 33-1 40 16 11 12; avalonfilmswanadoo.fr

Espliciti intenti didattici in tutt’e tre gli episodi. Eppure la loro levità li rende particolarmente preziosi nella polemica sarcastica sull’approccio dell’uomo bianco alla cultura africana; leggeri, un po’ per la brevità, un po’ per la forma amaramente ironica.

La prima storia, Scoop, è esemplare riguardo al fatto che l’Occidente esporta le sue guerre per poi avere immagini truculente da sbattere in prima serata; in questo caso però i reporter senza scrupoli rimangono buggerati. Quello che catturano con la loro cinepresa è una rappresentazione di quanto aspettano da giorni e quindi sono predisposti a prenderla per buona: colpi di mitra, un ponte attraversato da una donna (dopo Mostar ogni cameraman sogna un ponte battuto da cecchini con donne impaurite che corrono come nel finale di Civilisées), un fardello in braccio, urla, strepiti… la donna cade. La concitazione è grande: un vero scoop, come recita il titolo del racconto edificante, ma quando – orripilati – vedono il corpo del bambino sfuggire alla donna, le loro espressioni trascolorano dall’orrore al compiacimento per aver catturato un momento emotivamente possente… Solo che la testa rotola fino ai loro piedi: è un bambolotto. Delusi e interdetti nei nostri meccanismi percettivi, incapaci di cogliere i fatti nella loro realtà, noi, con i nostri simulacri sotto le spoglie dei giornalisti – nostri tramite tra le proiezioni dell’occidente confermate dalle notizie confezionate e un universo che continua a sfuggirci –, finiamo con assumere lo stesso atteggiamento rassegnato all’esclusione dei due apostrofati dal loro autista, che si propone come motto morale della favola presente in tutt’e tre gli episodi: "Avete occhi grandi, ma miopi: quella è la pazza del villaggio". L’ultima stoccata dunque riguarda il loro (nostro) punto di vista, rinunciando a indicarci il vero aspetto della realtà africana, la guida rivela di aver trovato un pezzo di carne col quale preparare un manicaretto locale, "altro che l’hotel Continental…", dal quale avremmo l’ardire di capire ciò che ci circonda, cadendo nella miopia delle telecamere cnn.

 

Altrettanto tagliente è la seconda favola istruttiva di come l’uomo bianco – e in questo caso le due coppie oppositive non sono solo nord/sud, ma anche sciovinismo maschile/fertilità femminile (Le Cadeaux de Babadi). La vulgata esotica dei sogni fallocrati esige di descrivere le donne africane così seducenti: lunghi capelli in trecce ricciolute, movenze sinuose con ritmi ancestrali, né lenti né veloci, adatti alla ctonica richiesta della madre Terra, portamento elegante, profonda conoscenza della natura, come dimostra la scena del germoglio da raccogliere secondo un rituale propiziatorio, che alla luce della fuga successiva risulta beffardo, ma soprattutto estromette l’europeo dall’armonia naturale. Quell’aura magica di segreto che traspare invece nell’antro del vecchio incontrato dai due amanti, che sacralizza l’arbusto che dovrebbe assicurare la fertilità, dono massimo per una coppia immersa in quel paradiso, ma responsabilità eccessiva per il fedifrago delle promesse elencate in una sintesi invidiabile dai due autori all’inizio dell’episodio, nella prima sequenza dove mollemente adagiati nella calda notte africana i corpi si lasciano andare a una mescolanza completa, con membra bianche intrecciate alla levigata pelle d’ebano… È il suo "culo nero" a interessare il francese? come domanda – con raffinatezza da moglie abbandonata – telefonicamente la parigina che aspetta il ritorno dell’antropologo (forse questa è la professione tanto vituperata dalle popolazioni autoctone, stufe di essere considerate animali da laboratorio); la risposta è genialmente riassunta con uno stacco in totale sulla spiaggia e l’uomo di spalle che allarga le braccia, come a voler abbracciare ciò che lo circonda e chiamarlo a testimone di quale dovrebbe essere la scelta tra la petulante borghese e quel paradiso e contemporaneamente esprimere la propria impossibilità di rispondere a parole del mondo di sensazioni che lo travolgono. In questo accomunando le due donne con il suo egoismo.

Però la paura delle responsabilità, l’inadeguatezza, la mancanza di comodità, il venir meno dell’esotismo, lo mostrano imboccare a tutta velocità il parcheggio dell’aeroporto africano e subito dopo di corsa l’atrio dell’aeroporto europeo. L’ultima sequenza, triste e promanante vergogna per l’abiezione del gesto dell’uomo, riassume in una sola inquadratura il giudizio morale: la giovane africana, incinta, sola, immersa in un pianto dimesso e sordo. Con qualche franco in mano. Una situazione imbarazzante per qualsiasi immaginario di spettatore bianco che abbia seguito il film con gli occhi del francese, che si beava delle orme lasciate dall’andatura nobile della giovane; angosciante pensare che si possa operare una scelta di quel tipo e cercare di immaginare il proprio comportamento nella stessa condizione.

In questo caso lo stupro dell’Africa non ha il riscatto della burla come nella prima fiaba o come nella terza (Le serment de la brousse), dove l’oggetto di strali è un’altra forma di colonialismo dopo quello mediatico e sessuale: la religione dei missionari invasati dal dovere di imporre l’evangelio ovunque, scardinando le tradizioni, che non conosce (e perciò considera ostili a priori) e alle quali è programmaticamente chiusa. Il missionario può apparire un facile bersaglio, ma in questo caso è soltanto il prototipo di una tipologia che continua la sua intolleranza. Viene buggerato nuovamente adattandosi al ruolo che l’immaginario occidentale assegna alle popolazioni: lasciando credere di essere antropofagi, non smentendo le affrettate conclusioni del fondamentalista cattolico e preparando il finale, geniale per il tono scanzonato e quasi da comica, ma potente nel messaggio, esplicitato ad uso non solo locale: la fuga impaurita del missionario è coperta dalle risate che echeggiano la frase didascalica che stigmatizza l’intera breve operazione di rivendicazione di rispetto, pari dignità e identità propria per le culture sconosciute.


Chiunque, cineclub o rassegna, voglia dare un'idea del rapporto nord/sud non deve prescindere dall'inserire questi venti minuti di profondi insegnamenti offerti con stile e divertimento senza pregiudiziali legate a presenza di sottotitoli: i dialoghi sono ridotti al minimo e la mimica sopperisce a qualunque barrera linguistica.