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Festival del cinema africano - Milano, 2001

Recensioni

Il manifesto del festival

Via Lazzaroni, 8. A due passi dalla Stazione Centrale di Milano; esci dall'androne imponente con gazebo berlusconiano - molto adatto allo stile napoleonico della città, non foss'altro che per le dimensioni del nano di Arcore, sia fisiche sia di ambizioni imperiali - e, girato l'angolo, ti trovi nello spazio Coe, l'anima sociale del cattolicesimo meneghino sottratta alla ferocia di Formigoni, che però ha tagliato i fondi e quindi le nuove acquisizioni del folto catalogo della distribuzione saranno decurtate.

Il disbrigo per le pratiche degli accrediti sono come sempre informali (ormai è il quarto anno che seguiamo la rassegna direttamente, sobbarcandoci la spesa e la fatica di spostarci dalla nostra Torino per aggirarci tra le sale del San Lorenzo, con il suo colonnato ospitale, del De Amicis, con le sue poltrone sfondate, del San Fedele), ci ritroviamo velocemente in strada, carichi di cataloghi e borsone, stiamo per dirigerci verso un tram, quando l'autista del furgone adibito alla consegna delle pellicole si offre di accompagnarci al De Amicis. Egli ha sposato una camerounese e subito ci intervista riguardo al cinema africano: ritiene che non si debba porre troppo l'accento sui soldi investiti per produrre i film, quanto piuttosto i registi africani dovrebbero affrancarsi dal linguaggio occidentale, proporre materiali dai quali ottenere un quadro che consenta di individuare le differenze tra le diverse Afriche, senza calcare sulla tradizione, ma prendendo coscienza che gli africani hanno ormai assunto a

Probabilmente parla a ragion veduta, perché in realtà si direbbe che tutti i grandi padri della cinematografia africana abbiano deciso di rivolgersi finalmente al mercato interno, ottemperando a una richiesta che si sentiva urgente nelle parole degli spettatori africani che gli anni scorsi intervenivano ai dibattiti, chiedendo di produrre una cinema per il loro continente e non per solleticare le velleità delle innumerevoli "Mie Afriche" degli intellettuali occidentali alla ricerca di facile esotismo e "poesia" del bon sauvage. Questo vale per Sémbene Ousmane come per Idrissa Ouedraogo, Cheick Oumar Sissoko, ma ancora meglio viene spiegato da Kouyaté, regista e griot, una di quelle figure che possono affascinare qalsiasi platea, tenendola inchiodata ad ascoltare le semplici narrazioni che discendono dal video Metissakanà, voluto da Anna Maria Gallone, che lo ha montato con Giorgio De Finis per la sua casa di produzione Kenzi (in cinese significa "onesto, coraggioso, proiettato verso il futuro", in arabo lo stesso lemma si traduce in italiano con "tesoro"). Kouyaté è utilizzato nel breve video girato al Fespaco di quest'anno come narratore: egli trascende l'incarico e infila una serie di approcci analitici che fotografano la situazione a partire dal ruolo che da sempre in Africa svolgono i griot: essi "devono prendere la parola" e attualmente il mezzo che hanno è il cinema e quella forma di espressione Kouyaté indica come mezzo con il quale rivolgersi ai ragazzi, perché "è in atto uno scontro generazionale che diventa graduale prosciugamento della tradizione"; ma soprattutto è importante rilevare quanto i figli sono più concreti e integrati, non hanno più le esperienze di villaggio ("andare in giro scalzi come è

Metissakanà mette in luce anche gli aspetti più contraddittori della società africana, spesso presenti nel cinema, come il fatto che le custodi della tradizione siano le donne stesse che ne sono vittima (lo abbiamo visto in La Saison des hommes o in Badîs), Kouyaté lo esemplifica con l'escissione, difesa dalle donne per ragioni di tradizione: il griot ritiene che è utopistico immaginare che una legge possa stroncare la violenza di quella barbara usanza: "bisogna agire sulla mentalità" e si deve intervenire ora che "siamo sospesi tra due valori": la scommessa è riuscire a creare una cultura che tenga conto del meglio di entrambi. Per esemplificare Kouyaté addita il campo medico, dove spesso medici e guaritori collaborano e subito il montaggio va a pescare lo spezzone di un film nel quale assistiamo ad una disputa sul paludiamo, dove l'intervento del guaritore è altrettanto efficace di quello della medicina ufficiale e il confronto avviene sui ragazzini ammalati ripresi direttamente.

Il video è molto breve: una ventina di minuti- anche meno - del volto del narratore africano alternato e sovrimpresso a spezzoni di film che hanno fatto la storia del cinema di quel continente e questa brevità consentirebbe una distribuzione capillare presso tutti gli insegnanti del regno italico, in modo che possano avere un'idea di come avvicinarsi ai problemi dell'Africa, andando oltre le due pagine dedicate alla civiltà araba dai sussidiari arcaici del figlio di Rachid Benhadj, il quale ha con vigore scrollato le certezze dei docenti presenti per il convegno "Finestre sull'Africa". Nonostante le sue innumerevoli dimostrazioni di insipienza della categoria degli insegnanti, incapaci di capire un testo filmico per loro impreparazione e distanti anche dalla possibilità di cogliere quale possa essere l'approccio all'intercultura, alcuni funzionari Irrsae presenti con una faccia tosta non comune si sonno permessi di confutare il dato di inadeguatezza che ne scaturiva, difendendo l'(in)operato del ministero. Basta considerare che uno dei pochi concorsi non attivati nell'ultima tornata è proprio quello relativo alle cattedre di Storia e Analisi del Cinema, salvo poi inserire l'insegnamento tra i curricula appena emanati. Come dice Benhadj, che ha girato le scuole del regno con il suo film Mirka - a Torino mai uscito nemmeno nelle sale (sopperisce ancora per quest'anno il cineclub di Collegno il 28 giugno p.v.) - facendolo vedere a 80000 ragazzi delle scuole, discutendone con loro direttamente: "la stragrande maggioranza degli insegnanti non hanno gli strumenti per analizzare un film, dicono anche stronzate opposte a quelle che volevo dire io facendolo".

Un episodio avvenuto ad una proiezione padovana del film ha visto l'intervento di una donna che ha cercato di evitare che si parlasse del film con i bambini, asserendo che essi sono innocenti e gentili a priori e parlando del film, parlando di cinema, si finiva con il parlare di violenza, argomento tabù nelle scuole italiane. Da questo aneddoto si evince che l'approccio culturale è già un problema, ma lo si affronta attraverso il linguaggio filmico senza preparazione adeguata e quindi al primo problema insormontabile se ne aggiunge un altro, di incapacità di decrittazione per mancanza dei rudimenti del codice adottato. Già al convegno di fronte a queste patenti prove della chiusura mentale e razzista della classe insegnante nella maggior parte dei casi si era levata una salva di distinguo piccati; ma assistendo alla proiezione di Daouda, un delizioso lavoro burkinabé sullo sfruttamento minorile nelle miniere d'oro, e al successivo dibattito ho avuto modo di ascoltare i commenti di tre insegnanti: non erano state in grado di capire che si trattava di miniere d'oro (lo stupore alla rivelazione che non era caolino, forse unica reminiscenza del sussidiario adottato, le ha gettate nella prostrazione più totale e ne sono uscite soltanto annotando l'uso di uno strumento musicale che il regista assicurava nessuno più suona, perché si dice che porti sfortuna), ma dimostrando quanto già Benhadj aveva esposto al mattino, di fronte a considerazioni legate alla variazione di ottiche tra la luce accecante, luminosissima del Burkina e quella al tramonto lungo il fiume, con la pace dei cavalli al trotto sull'orizzonte mentre i ragazzi riposano sognando un luogo d'incanto dove il buio non soffoca il sole: di fronte a ragazzi dodicenni che sopravvivono solo attraverso i sogni (metafora dell'Africa che si difende rifugiandosUno per tutti, tutti per uno, di nuovo su una comunità di bambini) quando la macchina da presa che ha pressato fino a quel momento i ragazzini, mostrando ogni dettaglio dei momenti che precedono la discesa nell'abisso, comincia ad allontanarsi e li lascia soli, sull'altro lato della collina divisa dallo squarcio coperto dai pali dell'ingresso alla miniera, in mezzo ai quali i bambini si infilano resi ancora più piccoli dal grandangolo che li sparpaglia lungo tutto il pendio, zoomando all'indietro, una cinepresa quasi orripilata dalla ferita fisica del terreno che esibisce la ferita morale del lavoro (quel lavoro!) minorile, a cui il regista da bambino è stato costretto. Non noi e tantomeno le insegnanti con cui ha avuto a che fare Benhadj.

Il regista maghrebino, all'inverso dell'autista del Coe, ha sposato un'italiana e, vivendo sulla sua pelle il razzismo della brava gente italiana può permettersi di dire: "L'Italia è chiusa a tutte le altre culture, ad ogni livello"; per dimostrarlo racconta di aver provato negli incontri con le classi a chiedere se qualcuno era in grado di formulare un nome di uno scrittore maghrebino ("contando sul fatto che Tahar Ben Jalloun ormai compare dovunque", per non parlare di Mohamed Choukri, Abdelkébir Khatibi, Rachid Boudjedra, Yusuf Idris, ÎAbd al-Rahman Munif, Abdelkader Benali, Fanon, Senghor, Stephen Biko), di fronte al silenzio ha provato ad estendere l'area all'intero continente, sperando che la pubblicità per i libri di Ngûgî wa Thiong'o e Nagib Mahfuz o Mia Couto e Ben Okri avesse forato il velo di indifferenza: infatti una volta una mano si alzò per confortare le sue speranze, subito stroncate dal nome proferito: Garcia Marquez.

Chissà se avesse chiesto alle insegnanti cosa avrebbe ottenuto?

Adriano Boano


Archivio:
1999


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