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El viento se llevo lo que - L'ultimo cinema del mondo
Anno: 1998
Regista: Alejandro Agresti;
Autore Recensione: Marcello T.& Adriano B.
Provenienza: Argentina;
Data inserimento nel database: 24-05-2000


El Viento se llevo lo que

EL VIENTO SE LLEVÓ LO QUE

L'ULTIMO CINEMA DEL MONDO

 

Regia e sceneggiatura: Alejandro Agresti – Fotografia: Mauricio Rubinstein – Montaggio: Alejandro Brodershon – Scenografia: Floris de Vos – Musica: Paul Michel van Brugge – Costumi: Anne Marie de Braw Suono: Fernando Soldevila – Interpreti: Fabian Vena (Pedro), Vera Fogwill (Soledad), Carlos Roffe (Amalfi), Sergio Poves Campo (Caruso), Jean Rochefort (Edgar Wexley), Angela Molina (Maria), Ulises Dumont (Antonio) – Argentina, 1998, 85’. (DMVB, Surf Film, Canal +)

 

Soledad, tassista porteña comincia a guidare senza meta verso sud per ore, per giorni, finché finisce improvvisamente la strada e cade dalla massicciata inesistente. Si risveglierà in Patagonia, ai confini della regione, in un paese decisamente anomalo e appassionato di cinema. É proprio l'unico cinema la causa di tanti problemi dei giovani locali... L'ultimo cinema del mondo è una Patagonia fuori dal mondo in un film illustrato da immagini sospese in un tempo che saccheggia i terribili Anni 70 della giunta militare, ma non dimentica ciò che fu codificato prima e lancia uno sguardo obliquo a come il presente talvolta si possa sentire orfano di quelle scombinate storie, ideologie, purezze e godimenti spazzati via dagli Anni 80.
Una storia divertente, fatta di personaggi stravaganti, raccontata da dialoghi in prima istanza surreali (e la presenza di Rochefort e Molina rafforzano la nostalgia per la stoccata buñueliana). L'ultimo cinema del mondo è il luogo in cui vanno a morire i film dopo averlo girato tutto; il luogo in cui un attore ormai dimenticato può trovare degli ammiratori; il luogo in cui un'intera comunità si ritrova e in funzione del quale vive.
In esso il critico è zoppo, afasico, omologato al pubblico; tenta disperatamente di "fare cinema", ma inciampa nell'home movie, assolutamente incapace di portare l'inquadratura oltre la propria soggettiva, che diventa la catastrofica cronaca di un fallimento. Non rinunciando alla pubblicazione delle sue acrobazie, il cinefilo ottiene però di unificare la sala in un movimento ondulatorio contemporaneo (e qui la citazione va senz'altro alle leggendarie prime proiezioni cinematografiche) e dovrebbe essere almeno contento di aver a tal punto coinvolto i compaesani (chissà come reagirebbero ai saliscendi di Cameron sul Titanic...).
È, quello del cinefilo, un personaggio "doppiato" dal regista stesso, che se da un lato lo deride, dall'altro ne esalta le doti artificiosamente romantiche nella danza a cui invita Soledad negli spazi ristretti della loro casa; se da un lato ne sottolinea il vocabolario limitato e "rimontato" (in fondo, quel villaggio potrebbe essere considerato un prototipo di postmodernismo estremo), dall'altro non può neanche lui staccarsi dal logos, sia inteso come discorso, sia inteso come pensiero. Forse proprio quest'ultimo dualismo può essere preso come paradigma sottinteso a tutto il film, una coppia di concetti che solo nella migliore e più remota (statisticamente) delle possibilità può dare vita a ottimi risultati; nella quotidianità, invece, discorso e pensiero si contrappongono, rubando energia l'uno all'altro. Il cinema rimontato diventa un'idea quasi pura, ma frammenta e disarmonizza il discorso, impedendo alle altre idee di circolare liberamente (di qui la convinzione dell'inventore di avere avuto idee originali); la storia, il racconto sono un imperativo etico, però, poi, non si sa bene quando e come "tagliare" e l'unico momento veramente sincretico si ha quando si racconta la "prevedibile" vicenda dell'inventore proto-marxista imprigionato dai torturatori militari.

"Todo es...", così spesso si esprime l’intellettuale nel film aggiungendo una rivelazione - dapprima di Einstein, todo es relativo, in un secondo tempo corretta da Freud, todo es sexo, e da ultimo imbevuta dell'idealismo internazionalista di todo somos iguales; le infatuazioni del movimentismo degli Anni 70 ci sono tutte, elencate con precisione e a queste si aggiungono la figura di amabile femminista, a cui allude evidentemente Soledad: "In questo paese così conservatore bisogna cambiare la condizione della donna" (detto nel periodo freudiano dell'intellettuale, quando lei si busca della "puttana" per aver espresso il desiderio di scopare e viene costretta a sposarsi), e l'ammiratore delle Black Panthers.

Vissute come in un altro film che scorre parallelo, spudoratamente inquadrato con un mascherino che ne evidenzia la teatralità, incorniciandolo e facendo comparire la nuca di Soledad mentre vi assiste, per poi immergerci nel plot, dove lei viene risucchiata anche come protagonista (pare di cogliere allusioni a Purple Rose of Cairo, anche per il titolo del film di Wexley prima che appaia nel paesino: L'Hombre sin Alfombra), fungendo da medium per il nostro ricordo di quando pure noi, come Agresti, giovani degli Anni 70 vivevamo come un film quelle utopie - riportate su cartelli scritti a mano, palinsesti artigianali che dimostrano quanto quegli anni fossero totalizzanti, rincorressero una visione del mondo univoca, esaltando i guasti dell'ideologia: eppure, pur ridendo su come eravamo apodittici, emerge il dubbio che si fosse più vicini alla corretta rappresentazione della realtà, che infatti ora, nell'epoca dell'immagine superficiale e rimasticata, anche nei film smontati casualmente, è di difficile comprensione, tanto che "le idee si mischiano nella zucca" dei ragazzi.

Probabilmente bisogna ripartire dalla schiettezza dei documentari girati dalla troupe abborracciata attorno a Soledad nominata giornalista e che riprendono momenti quotidiani resi artificiali dalla presenza della macchina da presa. molto più di quella messa in mano al ragazzino martire di Buenos Aires Viceversa, dove la realtà della Capital Federal era catturata dall'occhio esperto del bambino che sapeva ancora cosa inquadrare e denunciare; ora - o meglio, allora, nel marzo del 1976 - invece la confusione e l'eccitazione è grande ed il film mentale che riusciamo a ricostruire di quel periodo è lo splendido isolamento di un paese-comunità che rielabora persino i testi filmici, decostruendoli a suo uso, mentre l'orrore fascista (ora si dice neo-liberista) del mondo preparava la resa dei conti, quel gruppo di sognatori viveva un paese isolato, dove finisce la strada all'improvviso: la Città del Sole di Campanella doveva avere connotati simili, priva di tv e dove si tollera l'influenza benefica sui percorsi mentali derivante dal particolare modo di fruire le pellicole che concludevano il loro giro del mondo lì, a pochi passi da dove Wong Kar Wai lasciava il messaggio di disperata solitudine di Happy Together, alla "fin do mundo", ricettacolo di ogni oggetto, dove ogni cosa trova una sua dignità, per quanto possa essere consunta, - anzi, più è frusta e maggiore è il fascino che assumono a quelle latitudini -, logorata da quanto è stata sbattuta dal vento. Solo in quel territorio caro a Coloane poteva prendere forma credibile un sogno collettivo, incantato e naïf come Rio Pico.

Infatti le parole con cui esordisce lo scienziato di ritorno dal viaggio con il quale avrebbe voluto divulgare la scoperta dell'uguaglianza di tutti sono: "Se solo sapessero la verità". Poi riesce ad immergersi nel racconto di un abisso di torture subite con un tono di doloroso distacco che colpisce persino più della sofferenza di Garage Olimpo, perché non è estenuante, ma quasi attonita, inseguendo gli eventi sul filo di ricordi inaccettabili per una mente pura e ingenua, abituata a strutture libertarie quali quelle che il cinema - quel cinema - consente: un'arte pre-televisiva, che si può rimontare nella propria mente come si preferisce, perché la sensazione sta in uno sguardo, la scintilla che innesca l'adorazione è in un gesto che rimane tale anche se, montato al contrario, viene assorbito da se stesso. Quella sequenza trova la propria centralità nel film che non indulge nella rievocazione della desapareción, almeno non con evidenza (come già nel precedente lavoro di Agresti, seppure in entrambi sia un tema onnipresente, che trasuda dal singolo gesto), grazie ad un più ampio respiro registico: i tagli sono poco frequenti, è quasi un piano sequenza, come quasi epica la recitazione; è forse l'unico momento in cui la parola non assume un ruolo centrifugo rispetto al senso ed invece si mantiene razionale, quasi... Non un gioco di parole, non una performance lettrista: una narrazione mitica, dove il 'quasi' è elemento necessario per mantenersi sui toni incerti della sensazione. "Concentrati!" urla Doña Mirta, denunciando la difficoltà dei giovani catturati dall'emozione e refrattari a concentrarsi per conferire un senso ai loro percorsi mentali.

Probabilmente il film che Ferreri avrebbe voluto venisse fuori dagli spezzoni in bianco e nero di Nitrato d'argento è quello che si può ricavare dai coriandoli di puro fenomeno cinematografico, apparentemente antinarrativo, che vengono sparpagliati sullo schermo della sala di Rio Pico. E "non è un film comico", anche se si sorride di fronte alla ineguagliabile vis ironica degli andini, capaci di ammantare di realismo magico un'ambientazione evidentemente metaforica, aperta a immagini/istanti prolungate che riassumono un intero universo di riferimenti, comprensive pure della loro analisi e della valutazione della distanza attuale di quel mondo, un uso del set ripreso come attraverso un filtro ulteriore che si giustappone ai già molti codici introdotti dalla costante presenza, ridondante e sottolineata, del linguaggio cinema sulla scena, come se in ogni momento si volesse ribadire che quel mondo parallelo vive esclusivamente dell'illusione cinematografica per autoesiliarsi dalla realtà come Soledad fa con Buenos Aires. Quando la macchina da presa si blocca a inquadrare per qualche secondo una situazione, alcune persone con cartelli o un dialogo sconclusionato in una cabina di proiezione, oppure arriva alla spudoratezza del fermo di fotogramma per convogliare l'attenzione su quel preciso momento e luogo, fondamentale per capire le occasioni in cui quel mondo è andato alla deriva, scollandosi dalla Storia, orribile e feroce, rifugiandosi in un altro parallelo (come quello di Moebius), in quei momenti si comprende "quale sia la vera natura del cinema", rispondendo alla domanda esplicita del regista attraverso due opzioni affidate al film che Wexley realizza a Rio Pico, trafugando la cinepresa.

Le proposte di cinema ancora possibili avanzate da Agresti/Wexley e inserite non a caso dopo l'avvento della televisione anche in quella landa desolata come a indicare le uniche forme cinematografiche percorribili nell'attuale contingenza di mondo in cui nietzschianamente "la realtà è stata rimpiazzata dal suo simulacro" (commento del giovane critico claudicante all'arrivo del mito Rochefort in carne e ossa), sono la testimonianza orale affidata ad un vecchio fermatosi in Patagonia anni addietro, povero e carico di un passato a cui riandare seguendo il percorso delle sue rughe; l'altra opzione coinvolge l'autore, che si narra in prima persona dichiarando Rochefort suo alter ego e indicando il compito che si è proposto pure nella realizzazione di El viento se llevo lo que, provocare un riso non sguaiato a commento di una situazione tragicissima. Per dichiararlo adotta nuovamente un espediente poco evidente come il primo piano sul narratore che va con la memoria ad una tournée in Tibet, spostando luogo e tempo conferendo così valore generale all'episodio: Agresti conferma così di usare sul piano narrativo il semplice racconto orale e su quello visivo il fermo di fotogramma per segnalare quando il tono riconduce ad un messaggio preciso la quantità di divertente materiale surreale scaricata sapientemente tra gag e spezzoni di film in bianco e nero realizzati con una Fairchild 16 mm ("Con questa cinepresa non si riesce a fare niente di serio") e proiettati nella sala da dove Soledad esce mostrando nel controluce livido del tramonto il titolo della pellicola che stiamo vedendo, aggiungendo un impossibile livello metalinguistico attraverso il quale la protagonista si chiama momentaneamente fuori, lasciandoci chiusi nella sala a gustare nostalgicamente tutto ciò che la bufera si è portata via. Il percorso di riordino del ricordo (paradossalmente nella confusione della decostruzione l'operazione che maggiormente spicca è il catalogo lucido di precise emozioni e idee perdute) si avvale pure della bellissima grafica che ricostruisce i colori e le forme della cartellonistica dei film, soprattutto in una memorabile sequenza che racchiude l'intera carriera di Wexley presentata come personale del cinema di Rio Pico, inframmezzata dalle immagini dei film, come in un ipnotico ricordo a distanza di anni, quando riaffiorano inquadrature isolate o scene montate al contrario, come accadeva nei cineclub di venticinque anni fa (grazie, Steve Della Casa). Le storie che il cinema si può permettere tuttora di narrare sono quelle che fanno affiorare risate in una situazione tragica o quelle che vedono un ottuagenario nonno Alphonse scopare tre volte al giorno con la giovane Selenie fissate in un'immagine solo descritta verbalmente, ma di una forza immaginifica che solo il cinema - ed il realismo magico sudamericano - è in grado di evocare.

L'epifania di Rochefort è anche l'effimera rivincita dell'attore, affrancato dalla doppia tirannia di regia e montaggio. Ha bisogno di un vero e proprio palcoscenico teatrale (anche se ricavato in una sala di proiezione) per riacquistare dignità. Risorto prima fisicamente e poi intellettualmente, tonificato dall'idolatria che ironicamente riconosce anche alle singole parti del suo corpo (divertentissimo il mostrarsi dalla finestra un pezzo alla volta, accolto dalle ovazioni del pubblico, come il Benigni irriverente di Pap'Occhio alla finestra gestatoria nei primi anni di pontificato dello slavo più mediatico della Storia della Chiesa), egli si sente pronto per fregare l'Istituzione nel sonno e rapire a quel sonno stesso la cinepresa che riposava inerte accanto al potere. Ma completare la rivincita sarà impresa ardua, a causa della scarsa maneggevolezza del logos di cui sopra.
E alla fine anche Agresti, fino a quel momento sfacciatamente pro-narrativo, cede dolcemente alla catastrofica immagine: sulle parole del commiato narrativo di Soledad, al racconto si sovrappone, potente l'istantanea, da non dimenticare della Molina immobile, di spalle, controluce, sola e aggrappata al ricordo da una musica che scivola via.
Tutti gli aspetti del cinema trovano spazio in questo manuale di cinematografia: la produzione, le riprese, le considerazioni narratologiche, il metalinguaggio, persino la critica militante: "Tu hai gli occhi, ma non puoi vedere"; speriamo che la definizione di "re della frantumazione" appioppata al cinefilo non si attagli al nostro caso... O era un complimento?

Rassegna di pareri

Un taxi che corre lungo la Pampa. La voce di una donna, Soledad, racconta che è un bel pezzo che si trova a bordo del suo taxi per arrivare alla fine del mondo. La trova arrivando a Rio Pico, in Patagonia: né televisione né radio, soltanto il cinema, o per lo meno dei frammenti di cinema. Le bobine arrivano al paese dopo un circuito di più di 350 sale nel paese. Quindi sono in uno stato pessimo, fatto di pezzetti incollati in modo selvaggio e disordinato, talvolta al contrario, cosa che suggerisce il gioco di parole del titolo originale ["Ciò che fu gettato al vento", ma anche versione spagnofona di Via col vento]. I giovani hanno preso come paradigma di vita l'illogicità dei montaggi, delle repliche e delle azioni del loro eroe, Edgar Wexley (Jean Rochefort), popolare attore francese degli anni sessanta. Soledad diviene amica di Doña Mirta (Angela Molina), donna delusa da un matrimonio finito, integrandosi nella vita di Rio Pico. Finché due elementi non arrivano a turbare questa armoniosa follia: il loro eroe e la televisione. (T.de B., "Le web de L'Humanité").

La vicenda è un'allegoria dell'Argentina e anche una riflessione sulla frammentazione e manipolazione dell'informazione, sugli effetti distorsivi e stranianti cui questa può dar luogo. Agresti, senza rinunciare ai propri temi di sempre, compresi i desaparecidos, trova risultati felici: il rivestimento allegorico gli consente di essere ora morbido ora pungente e di cercare momenti di suggestione e di sintesi. Come nell'episodio - che cristallizza lo smarrimento dell'uomo di fronte all'ingiustizia - in cui lo stralunato inventore del villaggio marcia alla volta della capitale per brevettare "l'idea dell'uguaglianza". (Enrico Danesi, Duel).

Soledad è stanca... stanca della città, Buenos Aires, stanca del caos in cui è costretta a vivere. Scappa... anzi, no... parte. E' più semplice. Il suo è un viaggio senza meta, probabilmente un viaggio dentro di sé, più che una fuga da qualcosa. Si addormenta... forse sogna? Forse si sveglia.

Come in quei narratori e leggende in cui attraverso l'incoscienza si raggiungono nuove dimensioni così Soledad, da svenuta, arriva in una realtà irreale (ma esiste davvero?). Comunque sia si ritrova in un altro universo. É caduta in piena Patagonia. Siamo ai confini del mondo, lontani dalla "civiltà", in un paese che vive necessariamente in una condizione di isolamento totale. All'ultimo cinema del mondo proiettano dei film senza senso, senza logica, e una buona metà del paese è cresciuta con questa educazione "dissociata"... Condizione normale è quella di straniamento, soprattutto linguistico visto che quasi tutti i giovani non riescono a seguire un filo logico nel discorso, abituati come sono a un incessante susseguirsi di immagini slegate tra loro. Forse è proprio questo il modo per salvarsi dalle imposizioni di una società opprimente e che ci dice cosa e come pensare. Nella dislessia c'è la libertà della fantasia, della libera associazione, delle idee. lontana dalla città Soledad (=solitudine, in spagnolo... indicativo, no?) si ritrova, riesce a dare un senso alla sua vita, si innamora.

Un tuffo nella verginità originaria che purtroppo non può durare molto... la conclusione è aperta, ma chissà che sia qualcosa di più di un sogno, magari un nuovo inizio, una nuova nascita alla vita. (Mattia Pasquini)