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FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA - Milano, 2005

O HEROI (Un eroe) di Zeze Gamboa
Angola/Portogallo, 2004

In concorso nella sezione lungometraggi “Finestre sul mondo”
15° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina (Milano, 14 - 20 marzo 2005)

Manu con la nonna

Zeze Gamboa ha impiegato dieci anni per scrivere la sceneggiatura e trovare i finanziamenti per questo suo primo lungometraggio. Forse per questo motivo preferisce mettere subito in scena, comprendendoli nelle prime due sequenze, i protagonisti del film (messi in relazione tra loro anche dal commento musicale che transita dolcemente dall’una all’altra, snocciolando una canzone classica che parla di glorie e speranze del popolo angolano): la prima mostra ragazzini intenti a far canestro con una palla che rimbalza verso l’alto, lasciando il compito alla macchina da presa di proseguire idealmente la sua traiettoria fino a indagare la città di Luanda a volo d’uccello, per poi tornare gradualmente ad altezza bambino e coincidere con lo sguardo dell’adolescente, concentrato a guardare il porto, in fervida attesa di qualcuno che potrebbe sempre tornare da un momento all’altro; la seconda riprende un militare che avanza, facendosi largo con le stampelle, lungo il cortile di un ospedale, impegnato a reclamare la protesi che gli spetta di diritto, in quanto non è solo “un povero soldato” (come in genere viene considerato dagli altri), bensì un sergente, persino decorato con una medaglia al valor militare.

Espedienti per vivere

L’intero sviluppo diegetico rispetta fedelmente questo approccio duale, alternando le scene destinate ora all’eroe adulto, ora al ragazzino, tanto che viene spontaneo metterli in relazione fin dall’inizio, presupponendo che il primo sia in realtà il padre reduce, partito per la guerra di liberazione nazionale quindici anni prima, che il figlio attende con trepidazione, al punto da chiedere aiuto persino alla luna, perlustrata con un cannocchiale di fortuna, che al termine del film finirà per scivolare verso il basso, trasformandosi in quella palla desiderosa all’inizio di centrare il canestro.
Una semplice idea metaforica, efficace dal punto di vista visivo, condensa il messaggio del film di Gamboa: la sfera satellitare, rivestita come al solito di valenze oniriche, prende man mano la consistenza di una forma reale, consentendo a un mutilato di svolgere, anche se per interposta persona, il ruolo del padre che è venuto a mancare, dall’altro canto permette all’orfano di riabilitarsi nel contesto frequentato, perché scopre un genitore vicariante, al quale poter far riferimento, mettendo da parte i simulacri immaginari.
La continuazione del film ricama una tessitura narrativa adatta a legittimare l’incontro e il progressivo avvicinamento tra i due protagonisti, così lontani, eppure così vicini nel modo di reagire agli eventi, che si finisce per crederli davvero consanguinei, anche quando si comincia ad intuire che in realtà non lo sono.
Il soldato ottiene finalmente la sua protesi e comincia a deambulare per le strade di Luanda in cerca di lavoro: il supporto artificiale gli permette di sentirsi maggiormente sicuro, recuperando una parvenza d’equilibrio motorio, seppur ancora e per sempre instabile. Però nel quartiere nessuno sa cosa farsene di un invalido di guerra, che reclama invece da parte del suo popolo solidarietà e riconoscenza: le possibili e auspicabili prospettive occupazionali svaniscono giorno dopo giorno, lasciando all’uomo il tempo e lo spazio per riflettere sul senso di vent’anni di vita scippata dalla guerra, quando avrebbe potuto dedicarsi ad altre imprese, gratificanti dal punto di vista umano, morale e intellettuale. E allora l’esistenza ai margini finisce per trovare una naturale deriva nell’alcool e nella frequentazione di altrettante sfortunate creature femminili, alle quali non resta che il mercimonio eterodiretto del proprio corpo, che non consuma il desiderio di poter accompagnare altri compagni di sventura, condividendone il triste e sciagurato destino. Si sa che l’unione fa la forza… per cui quando l’ex combattente dell’esercito angolano, Vitório, incontra la prostituta Judite, ritrova anche la dimensione umana annichilita dalla guerra, ma, come non bastasse, ha la fortuna di imbattersi in un’altra donna, l’insegnante Joana, innamorata fin dall’adolescenza del vero padre del ragazzino, che, se da un lato gli consente di abbracciare per un attimo il sogno di un amore impossibile, dall’altro gli porge una mano, permettendogli di rendere pubblica la sua condizione di reduce mutilato grazie a una trasmissione radiofonica appoggiata da un rappresentate del governo, che gli garantisce un lavoro e persino di recuperare la protesi (che rappresenta per lui l’indipendenza attuale), rubata dai soliti ragazzini di strada.
Non è la prima volta che film provenienti da paesi lusofoni, ossia quelli che hanno subito la colonizzazione portoghese, mettono il dito sulla piaga dei niños de rua, avvezzi a essere educati dalla strada, anziché dalla scuola (non solo esempi provengono dal Brasile con famosi film distribuiti dal circuito “normale”, ma anche meno conosciuti prodotti mozambicani), forse questo consente di avanzare un’ipotesi su quali ancora maggiori danni possano derivare dal fatto che la potenza coloniale coincida con un feroce regime fascista come quello di Salazar e l’indipendenza sia stata raggiunta quasi un ventennio dopo le nazioni francofone.

La guerra non ci dà pace

Manu è infatti un ragazzo di strada: frequenta la scuola, seppur senza grandi motivazioni né interesse a rinverdire la fama di studente modello incarnata dal padre, che gli viene spesso rinfacciata dalla nonna, l’unica adulta che si prende cura di lui, dopo che anche la madre ha pensato di andarsene di casa, sicuramente stanca di aspettare l’arrivo dell’eroe domestico (non tutte le donne infatti hanno la fortuna o la sventura di chiamarsi Penelope!).
Il giovane coltiva a modo suo il mito del padre soldato, perché, quando gli viene concessa la possibilità di barattare il magro bottino dei suoi furtarelli (la gomma di una bicicletta o un’autoradio), non ha dubbi sugli oggetti da scegliere: un coltello affilato e persino la protesi, sottratta (e poi rivenduta da un’altra banda di ragazzini del racket adolescenziale) al povero Vitório ubriaco, che, una volta sobrio, scampato per l’ennesima volta all’incubo dell’incidente subito allo scoppio della mina, trova ancora la forza di tentare di riprendersi almeno la medaglia al valor militare.
In realtà Manu ambisce a possedere una mitragliatrice notata presso il ricettatore: un’arma feticcio, surrogato del padre, di cui patisce l’assenza, e al contempo ideale collegamento materiale con lui. Non potendosela permettere, finisce per portarsi via proprio la protesi: un arto artificiale che lo riporta costantemente al pensiero del genitore, memore della sua mutilazione di cui è consapevole.

Alla ricerca di...

L’incontro tra Vitório e Manu, pur essendo destinale fin dall’avvio, si ammanta di una cornice fiabesca: avviene per caso, proprio di notte al chiaro di luna, come per magia, e sarà risolutivo per entrambi. L’adulto interviene a salvare il ragazzino da una violenta aggressione da parte della banda dei ragazzotti rivali, che avevano osato infangare il buon nome della madre; il giovane si aggrappa a lui, scambiandolo all’inizio per il padre desiderato e riconoscendo in seguito il valore di un’amicizia franca e disinteressata.
La macchina da presa attraversa instancabile Luanda, ora dall’alto verso il basso, ora viceversa, affidandosi agli sguardi dei due protagonisti, che si fanno vieppiù fermi e determinati; spesso si nota l’urgenza (forse a causa del ritardo accumulato nei dieci anni di gestazione) di affrontare questioni di più largo respiro rispetto alla storia particolare: la condanna della guerra (solo lei è una “hija de puta”), il desiderio di una riconciliazione tra civili e militari, il reintegro nella società dei centoventimila congedati disoccupati, le mutilazioni e il pericolo onnipresente di inciampare sulle numerose mine ancora inesplose, ma di conseguenza anche il problema degli orfani (strazianti i siparietti affidati al programma televisivo Punto di ritrovo, deputato ad ospitare gli appelli di un tragico “Chi l’ha visto?”).

Il programma televisivo Punto di ritrovo

È curiosa invece una coincidenza: scoprire sullo schermo insegnanti angolani in sciopero proprio il 18 marzo 2005, giornata nazionale di mobilitazione sindacale unitaria del pubblico impiego, scuola italiana compresa. Riconoscere una solidarietà angolana con le rivendicazioni nostrane attuali significa anche ammettere mali comuni nel sistema scolastico, ma anche analoghi rimedi auspicabili, sintetizzabili nella salvaguardia del diritto allo studio e nella difesa di un’educazione pubblica, laica e gratuita.

paola tarino