Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Reporter
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna al sommario

Festival del cinema africano - Milano, 2004
<<< Torna all'indice

La realtà vista dalle donne
Completato il quadro del concorso. Stasera l'assegnazione dei premi.

L'ultima giornata di concorso ha veramente determinato una strerzata di un festival sempre affascinante per lo sguardo altro, ma un po' carente di stile altro.

Ed ancora una volta abbiamo ritrovato una fendente ironia che rende più critici nei confronti di elementi tipici della società del consumismo una società tradizionale e sognatrice.

Tiga au but du filSecondo lo stile tipico del'African Cartoon, torna la saga di Tiga. Il nuovo episodio vede il guardiano di Ouegadougou (Tiendrebeogo è del Burkina Faso) alle prese con l'esperienza del "mobile". Un po' il fil rouge del Festival. Il corto di animazione Tiga au but du fil segue il nonno che racconta ai nipotini la storia del telefono cellulare, quando era un oggetto misterioso che possedevano solo i ricchi. Un vero status symbol. Con la classica tecnica dell'animazione plastica e ricondotto alla tradizione orale africana dei cantastorie-griot, il corto è portatore di un insegnamento universale, quanto antico, attraverso la metafora dello scontro tra la cultura tradizionale e moderna, contrapposte e alleate nella costruzione dell'uomo nuovo. Tiga è vittima dello strumento tanto ambito. Ed ingenuamente pensa di poterlo usare come "media" per dare di sé un'immagine diversa, più popolare. E tutti cascano in questo gioco, di cui, però, solo lui dovrà scontarne le conseguenze e punizioni: con il cellulare la vita ti sorride, pensano che tu sia importante, hanno l'illusione di controllarti, ma tu puoi muoverti e mentire, perché filtrato. Morale della fiaba: "Quando non sai dove vai, devi sapere da dove vieni", sentenziza Tiga ai suoi piccoli nipotini.

Ed il "conte orale" si trasforma nella fiaba di Thiam, film prodotto dalla prolifica Laterit Production. La casa di produzione francese, condotta dalla grande regista malgascia Marie-Clèmence Paes e dal consorte argentino Cesar Paes, ha dato vita ad un classico ed amabilissimo corto sul rapporto uomo-donna. Thiam si dichiara militante femminista ed attraverso la favola di Samba e Comba, marito e moglie ciechi dalla nascita, riflettendo sulll'incomunicabilità tra uomo e donna, sulle distanze che si creano quando influenze esterne, e sociali, interferiscono nel rapporto di coppia. In un Africa in via di sviluppo, l'uomo, comunque, resta al centro del mondo. E la donna lo deve seguire, gli deve obbedire, non deve obiettare scelte e pensieri. Thiam, quindi, si affida ad una coppia metaforicamente pioniera: un Adamo ed Eva tentati da un fischietto-serpente. La visione per più di venti minuti ci impone una posizione fisica di dominanza: l'uomo-guida cieco impone il cammino, seguìto dalla donna, che viene tacciata di non conoscere il mondo. E i loro profili si stagliano lungo il panorama. Finché incontrano nella foresta un fischietto: uno strumento di libertà che restituisce la vista a chi ci soffia dentro. Samba vede per la prima volta in vita sua, ma non teme che anche la moglie si lliberi dall'handicapp. Addirittura immagina le ricchezze che potrà accumulare, restituendo la vista ai ciechi di tutto il mondo.

Gag esilarantissime portano alla persuasione dell'uomo: anche Comba ci vede ora, ma viene abbandonata dal marito, spaventato da una donna vedente ed intelligente: non potrà più assoggettarla a sé e non lo sostiene nel suo disegno bieco di sfruttamento. Ma Samba viene punito per i suoi cattivi propositi: soffiando ancora nel fischietto torna cieco e dovrà dipendere per tutta la vita dalla tenera e dolce mogliettina Comba, che, malgrado sia stata tradita, si dedica amorevolmente al maritino. Ispirato da Brodieux, Thiam ha voluto lanciare un messaggio universale, denunciando una situazione che non è relegabile all'Africa: "La giustificazione del maschio, si giustifica perché non ha bisogno di giustificazioni": E malgrado l'autore dichiari di aver scritto un racconto originale per questo corto, rievoca alla mente una fiaba tradizionale africana: Cosa fece la Vita quando andò in giro per il mondo. Una storia in cui la Vita, incontrando persone malate, le guarisce, ricordando loro che tormerà a verificare che non si dimentichino di lei e della loro ex malattia. Così con un cieco e con lebbroso, che puntualmente guariti diventano altezzosi e scostanti con tutti. "La Vita è un cambiamento continuo. La fortuna si trasforma all'improvviso in sfortuna, la povertà in ricchezza, l'amore in odio. Sventurato sia chi lo dimentica e non ne trae le debite conseguenze." Conclude la Vita della fiaba.

I lungometraggi in concorso si sono contrapposti alla fendente ironia dei corti per una drammaticità reale, quanto per gli assunti rivoluzionari. E penso proprio che rientreranno nella lista dei premiati di stasera. Infatti, sono le pellicole più complete, per sceneggiatura, tecnica registica, costruzione narrativa e, non per ultimo "circolarità".

Mille moisMille mois del marocchino Foozi Bensaidi ritrae su uno sfondo politico rivoluzionario, la storia personale di una moglie ed un figlio, privati della figura maschile di riferimento, in carcere per motivi politici. I due tornano al paese per evitare le persecuzioni, ma sono soggetti a quelle sociali della comunità.

Dall'incipit veniamo immersi nella magia del mistero. C'è qualcosa che tutto il paese corre a vedere. Tranne noi spettatori. Siamo nel 1988, all'inizio del mese del ramadam. Ci colpiscono subito gli incroci di generazioni e tradizioni: donne vestite all'uopo africano, giovani ribelli che "imitano" i costumi occidentali e libertini. Negli aspetti peggiori. Mehdi, vive con una sedia in testa. Simbolo del riconoscimento e del potere conferitogli dal maestro, che, però, lo fa odiare dai suoi coetanei e compagni. Personaggi studiati nei minimi dettagli, situazioni tipo ribaltate dall'introduzione della modernità, paesaggi desolati, sono gli ingredienti di una regia eccellente, che passa dalla drammaticità della situazione politica alla grottesca, ma realissima, rappresentazione di una comunità contraddittoria, che si tritrova in cima alla montagna ogni sera per ammirare le luci della citta. Quelle che misteriosamente si accendono e si spengono tutte insieme.

Un film circolare, quasi completo, che riconduce alle atmosfere kusturiziane. Ma in questo caso sono reali e non frutto della fantasia. Come il matrimonio finale, che si conclude, comme d'habitude, in un delirante rogo di oggetti e di tradizioni. Per abbandonarci con l'immagine di un futuro auspicabile e positivo per i protagonisti che lasciano il paese su un carretto di suonatori tra le prime luci dell'alba, il panorame desertico e desolante, l'amaro ricordo di una rivoluzione di "ismi":

L'happy end, invece, non è neppure passato per la mente della fantastica regista angolese Maria João Ganga, che dopo dieci anni riesce a produrre con l'ex marito Na cidade vazia (una citta vuota). Soggetto: i niños de Rua di Luanda. Periodo storico: 1991. Panorama politico e sociale: militare. N'Dala è un piccolo fanciullo del villaggio di Bie, nella foresta. Perde in una strage militare la famiglia e viene portato in città. Sfugge al controllo di suore e militari per addentrarsi nella vita di strada. Tra gli insegnamenti di Zè, un ragazzo un po' più grande che sogna di fare l'attore al cinema, e di un vecchio pescatore, che vive in spiaggia aspettando che Kianda, la sirena, venga a prenderlo, N'Dala agisce sotto i nostri occhi come il Nuanga delle favole di Pepetela fino al tragico epilogo. Più cruento di quanto ci possiamo aspettare.

Na cidade vazia

La prima scittura dell'opera della quarantenne Ganga, risale al 1991. Quando i primi bambini di strada iniziarono ad invadere Luanda. Anche se oggi la situazione è migliorata, l'autrice non ha voluto cambiare il finale. Perché voleva sviscerare il problema e presentarlo agli angolesi (che forse lo vedranno in TV!). Maria João nel 1975 aveva 11 anni ed appartiene a quella generazione dell'utopia descritta proprio da Pepetela, scrittore a cui è dedicato il film. Il suo Nuanga, infatti, è l'eroe della rivoluzione. Quella che ha lasciato delusione e decadenza di un sogno. Proprio questa "sensazione" è stata trasposta cinematograficamente attraverso il destino fatale di N'dala. Senza utilizzare il sensazionalismo tipico degli occidentali che rappresentano ancora oggi la guerra come una notizia da prima pagina, senza entrare nelle ragioni reali. Un invito a guardare alla storia con semplicità. A guardare al futuro con realismo.