Fra i primi pensieri che si formano dopo la visione di Luna
rossa, film cupo, tesissimo e tenebroso, ce ne sono alcuni davvero radiosi:
intanto esiste un cinema italiano di cui non vergognarsi, un cinema ispirato
che trova i suoi stimoli in egual misura nella realtà, nella cultura, nella
storia; in secondo luogo, le immagini di questo cinema non hanno paura di
toccare l’estremo, e sviluppano in modo affatto originale la tendenza al
linguaggio del corpo (che a livello internazionale abbiamo visto in Chereau,
Wang, Haneke, Breillat, Dumont e via dicendo); infine, vi sono cineasti come
Antonio Capuano che hanno un’idea precisa della regia cinematografica.
Con Luna rossa Capuano restituisce all’immagine la
capacità di offrire veramente, insieme alla tragedia, il tragico; nel far
questo utilizza il linguaggio della macchina da presa con un adesione totale al
soggetto che narra. Luna rossa è un film di primi e primissimi piani,
scelta che amplifica al massimo grado gli elementi essenziali di un mezzo che
strutturalmente consente di vedere di più, e meglio; la stessa opzione era
stata adottata da Bellocchio nell’adattamento di von Kleist.
Lo spettatore del film guarda negli occhi l’attore, ne
scruta lo sguardo, ne scorre le pieghe del viso; e l’attore risponde con
un’attenta economia di quei gesti impercettibili che fanno il paesaggio del
volto. Sopra tutto si spande l’odore del sangue; anzi, per dirla con le parole
dell’Orestea cui Capuano ha attinto a piene mani, “la reggia spira
strage, stilla sangue” e “l’alito che sale è quello di un sepolcro”.
Nel raccontare la camorra in forma di tragedia, il regista
di Pianese Nunzio procede come in sogno per condensazione e
sostituzione, trovando in Eschilo il referente in grado di sollevare la vicenda
esemplare della famiglia Cammarano dalla cronaca; solo in virtù di questo patto
con lo spettatore, la villa-bunker dei Cammarano diventa la reggia di
Agamennone. In essa profezia, assassinio, incesto, tradimento si succedono
senza posa; certo, Capuano non è il primo ad aver pensato alle analogie fra i
temi della tragedia di Eschilo (in primo luogo la ferma determinazione alla
vendetta) e quelli della letteratura popolare di genere noir, con inclusione
del cinema: Coppola, Scorsese, De Palma, e oggi il loro erede più accreditato
Abel Ferrara, hanno creato grandi personaggi tragici, e lo stesso Capuano
riconosce (seppure in negativo) di aver trovato in un film di quest’ultimo (Fratelli)
uno stimolo a girare Luna rossa. Ciò che avvicina il regista partenopeo
agli esempi citati (e lo allontana dalla retorica televisiva delle Piovre)
è proprio la confidenza col racconto per immagini, nell’ambito del quale
Capuano trova un taglio personale spogliando l’inquadratura da ogni orpello,
affidando la costruzione dello spazio scenico meno agli oggetti che alla luce,
e valorizzando il nudo attore – che poi vuol dire accentrare il volto e col
volto anche la parola dell’attore stesso.
Gli interpreti di Capuano, non serve sottolinearlo, sono
formidabili, a conferma che talvolta (è il caso dell’Inghilterra) il rapporto
fra ambiente teatrale e cinematografico può essere fecondo di scambi; se questo
accade è perché nessuno di questi grandi attori (Cecchi e Servillo addirittura
grandissimi) ignora lo specifico progetto formale cui partecipa, e sebbene la
ripresa in continuità delle scene dialogate consenta agli interpreti di
conservare un rapporto col testo di tipo teatrale, è pur vero che ogni
performance rispetta la misura che si chiede alla recitazione cinematografica.
Antonio Capuano, dopo un esordio folgorante (Vito e gli
altri, che aprì il decennio dei Novanta con un grido), ha proseguito di
buon passo (un film ogni due anni) un cammino tutto da seguire, all’insegna di
un cinema stilisticamente sanguigno, simmetrico rispetto al ricercato barocco
di Pappi Corsicato; Luna rossa è proprio il film che ci aspettavamo da
lui, anzi di più.