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La Noce-Le nozze
Anno: 2000
Regista: Pavel Lounguine;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Russia-Francia;
Data inserimento nel database: 13-01-2001


La noce - Le nozze di Pavel Lounguine

 

La Noce


Le nozze


regia
Pavel Lounguine

sceneggiatura
Pavel Lounguine, Alexandre Galine

fotografia
Alexandre Burov

montaggio
Sophie Brunet

scenografia
Ilia Amursky

musica
Vladimir Chekassine

suono
Alain Curvelier

produzione
Pyramide - CDP

Provenienza: Russia, Francia, Germania
durata
114'





interpreti: Marat Basharov . . . . . . Michka
Maria Mironova . . . . . . Tania
Andrei Panine . . . . . . Garcoucha
Alexandre Semtchev . . . . . . Borzov
Vladimir Simonov . . . . . . Borodine
Maria Goloubkina . . . . . . Sveta

 

 


Il cinema delle ex repubbliche sovietiche ha tratti comuni: l'inizio di Le nozze somiglia a quello di Summer or 27 missing kisses, georgiana favola tragica surreale quanto Luna Papa, che ha inaugurato il genere con la concitazione, gli spostamenti relegati in uno spazio onirico in cui tutto sembra possibile, l'evidenza dei percorsi a tutti i livelli dei mezzi di trasporto. E proprio una corriera apriva i 27 baci conducendo Sybille nel film georgiano a portare scompiglio erotico nel paesino percorso da ondate lascive, e gli stessi ballonzolî della corriera introducono l'ultimo film del regista di Taxi Blues.



L'introduzione prosegue poi a svelare dapprima il luogo - una cittadina mineraria in Russia - sempre mantenendo la scelta della camera a mano che segue la ragazza, poi appare una tomba e si scopre una casa. Lì finalmente la mdp si ferma e si conclude l'inseguimento. Si direbbe un percorso canonico per proiettare lo sguardo dello spettatore nello spazio del racconto. Tuttavia il regista si premunisce di inserire alcuni elementi non decrittabili: sono delle strisce di luce su uno sfondo scuro, come una superficie irregolare che scorre vertiginosamente, ma non abbiamo la percezione del proprietario della soggettiva che ogni tanto opprime il nostro sguardo, né riconosciamo il luogo. Inoltre a ingarbugliare ulteriormente la linearità di quel nostos della ragazza si frappongono strani ricordi che prendono spunto da una foto - scontato espediente: ci si poteva aspettare di più - e si concludono con lo svenimento di un bambino della terza elementare una quindicina di anni prima. Tutto questo è organizzato con precisione e serve per introdurre tutti gli elementi essenziali alla storia: un amore infantile mai spezzato nemmeno dalla lontananza o dalla presenza di un mafiosetto ammanicato che aveva agevolato la carriera di Tatiana a Mosca. Infatti il tourbillon riprende in una discoteca (ballano come le Bangles di Walk like an egyptian - per ricordare i vecchi tempi - ma il ritmo è un pochino più aggiornato) e lì ovviamente troviamo il bambino cresciutello. Non sono ancora passati dieci minuti della pellicola e sono decise - in modo rocambolesco e finalmente originale - le nozze del titolo; a sancire la fine del racconto di tutti i dettagli utili è la scoperta che quella immagine di scorrimento era la discesa dell'ascensore della miniera. Termina il prologo, che si trascina nel tentativo di raccontare l'intreccio che interessa relativamente al regista e se la toglie brevemente; con la decisione di sposarsi cambia registro. Tutto da quel momento fino alla festa catartica viene incentrato sul denaro e sulle infinite sfaccettature della sua mancanza, l’indispensabile regalo alla sposa, pretestuoso espediente per consentire al film di inanellare la serie di vicissitudini narrate, diventa simbolo di un rito a cui Michka si sottopone, però poi non hanno più importanza e alla fine perdono ogni lirismo e diventano merce di scambio per poter prelevare il bambino dal sordido – e un po’ esagerato – orfanotrofio; in questo modo il film palesa la propria divisione in tre compartimenti stagni che aggiunti al prologo non riescono ad amalgamarsi a pieno: la frenesia dei rubli, la festa con le solitudini struggenti dei cori, le situazioni demenziali (il carcere, la seduzione della zia, il bellissimo sidecar simbolo della fuga, liberi, lontano dalla campagna e dall’eterno ritorno dell’uguale). Tuttavia si trova un senso proprio nel progredire verso una sorta di poesia deprivata di ogni retorica attraverso il bagno di situazioni paradossali, che filtrano la difficoltà di riuscire a sognare dopo qualunque totalitarismo; non ce ne rendiamo ancora conto, ma quando crollerà anche il nostro imperialismo e il neo-fascismo che si va preparando a in occidente, sperimenteremo il medesimo spaesamento che ci renderà difficile sognare – e contemporaneamente ci spingerà a farlo – creando quello stesso atteggiamento ondivago che è la perla del film, capace di cogliere quel timore di essere liberi e di prendersi quella libertà che sembra irrinunciabile e allo stesso tempo impossibile: la bellezza da favola di Tania.



Il film sulle nozze si inserisce in una tradizione fatta di illustri precedenti: Wajda, Altman, Saura, Scola, qui sviluppata in una commedia indiavolata, buffonesca e volgare, in climax con la progressiva dose di vodka ingurgitata; allo stesso tempo si apparenta con il geniale kitsch di Kusturica (anche in Gatto nero gatto bianco si tratta poi di una festa di nozze), ma lo trascende per mantenersi nell'ambito della credibilità, che purtroppo si esprime attraverso alcune scontate sequenze di costume che servono a dotare di una patina di ancien régime, ancora molto presente, la realtà fatta di transizione, come negli anni 50 italiani costellati di muri impregnati di scritte littorie: lo stesso effetto fa il poster del padre stakanovista con il commento – "coglione" – scritto a penna; e allo stesso modo possiamo riconoscere immagini familiari legate al modo di rappresentare la realtà distaccandosene, ma rimanendone suggestionati – nel senso malato – per la resistenza alla novità feroce e fuori dalla abitudine (la colletta tra minatori è ripresa brevissimamente, ma intensamente: come la creazione di una cassa di mutuo soccorso), il rifiuto di sussumere l’egoismo occidentale: "Non siamo bestie siamo persone". E la madre si disfa della sua vera nuziale con sullo sfondo un’immaginetta agiografica di Lenin appesa in casa come nei casolari delle campagne italiane degli anni 60 e successivi da cui occhieggiava sempre una foto di papa Giovanni.


Farsa nera infarcita di luoghi comuni si diceva – e anche questo apparenta questa formula con il neorealismo avviando la prassi italica di maschere che dovrebbero fotografare la realtà attraverso cliché, fino a imporli ribaltando lo specchio e costringendo la realtà a farsi influenzare dagli stereotipi falsificati dal Grande Fratello –, come la vodka e le canzoni struggenti, sbirri pingui e zerbini del potere (ma non troppo, come ai tempi dello stalinismo, quel tanto da finire in farsa, rasicurante quanto i cartelloni illuminati con il mascellone del nano di Arcore illuminati nelle notti deserte di strade ormai metafisico-espressioniste) e mafiosi, però sconfitti e un po’ stupidi. L’amico "deus ex vodka" male in arnese e gran scopatore, inaffidabile e risolutore potrebbe sembrare l'esempio più fulgido della caratterizzazione, se invece non rappresentasse proprio il passaggio epocale, di cui i due ragazzi sono il nuovo e lui, Garcoucha, è il tramite dell'evoluzione della società russa, ben rappresentata da quella coralità di personaggi avvolti nel turbine della festa, sempre più priva di regole in una vertigine di liberazione che prende tutti, persino lo sbirro alla fine (anche se con una pistola alla tempia) esasperando la fisicità, anzi l'incombenza dei corpi che si fanno sempre più vicini alla mdp, occupando lo schermo con i faccioni e i sudori secreti.

Apparentemente risaputo è il personaggio dell'amico e invece si va oltre la caricatura, si supera la banalità del plot attraverso la carica genuina e colma di energia della comunità e sta lì la vera contrapposizione contro un capitalismo incapace di risultare appetibile a Tania, che gli preferisce il villaggio tradizionale e Michka. Il gioioso atteggiamento nei confronti della vita non è riducibile alla triste regola del capitalismo che sottrae tempo e desideri, inculcando soltanto futili voglie e lascia gratuita soltanto la minzione (per ora e solo lì in aperta campagna): da antologia dell’interpretazione comica del neorealismo, che colpisce ogni popolo convalescente da un regime feroce, è la sequenza giocata sulla figura di Garcoucha che mentre analizza il capitalismo, giudicandolo alla stregua della legge della jungla, la applica puntando sui desideri del bambino per piazzare la vendita di un coltello al padre commerciante, musulmano mediorientale, nonostante sia sbalorditivo vedere affidato anche in Russia il monopolio della vendita ambulante agli arabi in omaggio a questo realismo omologante, al quale si cerca di contrapporre ancora una volta la speranza dei due giovani in un altrove, dove non ci siano sistemi totalitari come il capitalismo o lo stalinismo, che nella potente polemica del film sono accomunati.


Tant’è vero che le miniere non appaiono così terribili come la notte moscovita di dieci anni fa: è peggio in superficie l’economia di mercato, vero obiettivo della prima mezz’ora successiva al prologo, quando l’ossessione è il denaro sotto varie forme, mai quelle sperate. E questo nuovo sistema di scambi si presenta sotto forme strampalate, le più diverse: dallo scambio simbolico alla regressione al baratto, ma il vero rapporto è tra ricordo (il mafiosetto genero del padrone della miniera viene apostrofato: "Stakanovista del capitalismo" a sottolineare la continuità) e voglia di oblio e di cambiamento autentico: i due ragazzi e il bambino sul sidecar. E questa divisione può convivere grazie alle serenate, alla vodka, a tutti quegli elementi che concorrono a mediare la continuità, assicurando la comunanza nazionale senza connotazioni politiche, che conduce comunque alla disillusione sancita dall'ambigua ironia del sardonico rilievo messo in enjambement perché non passi inosservato: "I tempi sono cambiati, ora siamo liberi", contraddetta già dal fatto che Borzov dovrebbe sembrare rassicurante quando dice: "Amici sono rimasto" ed invece il poliziotto incarna proprio la perpetuazione del potere e il suo trasformismo.