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Il Vento ci portera' via - Le vent nous emportera
Anno: 1999
Regista: Abbas Kiarostami;
Autore Recensione: Andrea Caramanna
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 20-10-1999


ILVENTOCIPORTERAVIA

Il vento ci porterà via

Regia: Abbas Kiarostami

Sceneggiatura: Abbas Kiarostami
Fotografia: Mahmoud Kalari
Interpreti Behzad Dourani gli abitanti del villaggio di Siah Dareh
Produttori: Marin Karmiz, Abbas Kiarostami, MK2 Productions
Origine: Francia-Iran 1999
Durata: 115 minuti

 

“È vero che un film senza storia non ha molto successo presso il pubblico, ma bisogna anche sapere che una storia deve fornire indizi e alcune caselle vuote. Queste ultime, come nelle parole crociate, devono essere completate dallo spettatore. Chi guarda, come un detective privato in un intrigo poliziesco, dovrà trovare l’intreccio”. Abbas Kiarostami

"Il vento e le foglie s'incontreranno nell'oscurità della notte", "vivi ciò che hai e abbandona le promesse che l'eco della grancassa da lontano affievolisce…". Sono alcuni versi della poetessa Forugh Farrokhzad che attraversano il film. Dimostrano che la poesia è per Kiarostami l'imprescindibile contrappunto al progetto, certamente ambizioso, di elaborare luoghi della visione puramente simbolici. Un cinema costruito su prolungati sguardi che visitano territori misteriosi, i cui elementi, ricorrenti ed ossessivi, restano quasi intrappolati in un sistema imperscrutabile, forse il miracolo (ossimoro) oscuro e splendido della vita stessa, la Natura, le creature viventi, vi(t)a come iterazione bloccata di fronte al senso/segno (visibile) ultimo di tutte le cose, all'enigma della morte. Ma vediamo come Kiarostami costruisce il suo discorso. Innanzitutto bisogna dire che l'accoglienza tiepida di una parte della critica dipende dal fatto che Kiarostami, ne Il vento ci porterà via, s'impegna in un viaggio "apparentemente" già noto fin dai tempi di Dov'è la casa del mio amico?. La maggior parte dei critici si è soffermata a riconoscere la ripetizione di segni già visti nei film precedenti, elaborando giudizi negativi per l'ipotetico esaurirsi della vena creativa. Ci si accorge, invece, ad un’analisi più attenta, che le configurazioni simboliche subiscono variazioni anche notevoli, soprattutto nelle ultime due opere, mutazioni che confermano l'evoluzione complessiva del cinema di Kiarostami. Per individuare meglio queste variazioni è bene fissare l'analisi dentro una griglia metodologica (che non ha beninteso nessuna pretesa d’esattezza o scientificità), che ci permette di osservare la tipologia dei segni e la loro organizzazione nei film, ciascuno dei quali rappresenta un sistema a sé stante. Applicando le tesi di semiologia dell'arte di Ernst Gombrich, Kiarostami da una parte sviluppa, riproducendola ossessivamente sullo schermo, la funzione "mappa simbolica" che comprende una serie di invarianti: paesaggistiche, come il sentiero tortuoso a zig zag in salita, la collina, la cui vegetazione appare meno rigogliosa che in passato, l'albero in cima alla collina, tutti questi elementi che hanno spinto verso un’interpretazione "naturalistica", legata in modo riduttivo alla qualità fotografica delle immagini. Fanno parte della mappa simbolica anche oggetti inanimati, animali e molte figure umane. Dall'altra parte Kiarostami sviluppa, moltiplicandola, la funzione "specchio" per mezzo di personaggi chiave.

La mappa simbolica - 1. Gli elementi naturali e gli oggetti inanimati. Il paesaggio naturale, eterno, di fronte alla caducità umana, almeno quella del singolo individuo, contrapposta al progresso tecnologico. Osserviamo la netta divisione tra manufatto naturale (valore positivo) e manufatto tecnologico (valore negativo). La felicità dell’uomo è legata strettamente alle dinamiche del rapporto uomo-natura, è raggiungibile se l'uomo rimane metaforicamente in piano, coltiva la terra senza avventurarsi in progetti che solo apparentemente lo elevano (sulla collina) giacché lo conducono in un luogo di morte (il cimitero). Il simbolo della collina è legato alla prima manifestazione della creazione del mondo: sufficientemente elevata per differenziarsi dal caos iniziale, non ha tuttavia la maestosa immensità della montagna; segna l’inizio di un emergere, della differenziazione, e le sue linee dolci l’associano a un aspetto del sacro che è a misura d’uomo. Tuttavia il termine deriva dalla nozione di sid, e, nel mondo celtico, invece di indicare la creazione di questo mondo, la collina rappresenta l’altro mondo.[1]

Vi è anche una divisione simbolica tra i mezzi di trasporto, l'automobile, qui un’ingombrante, pesante Land Rover ed una motocicletta, tra cui si rivelano fondamentali differenze. Dentro l'automobile il conducente e i passeggeri viaggiano staccati fisicamente dal paesaggio, tendono ad inquadrarlo, osservarlo da più lontano, attraverso il filtro protettivo dei finestrini o gli specchietti retrovisori. La motocicletta, che, non è un caso, è condotta dal medico (figura spirituale, un medico non specialista perché così può occuparsi della guarigione di tutti gli organi), corre fendendo l'aria e la polvere dei luoghi, ha senz'altro un rapporto più stretto col territorio, meno distaccato rispetto all'automobile. Infine gli oggetti più clamorosamente simboli tecnologici: la macchina fotografica e il telefono cellulare. L’apparizione della macchina fotografica è una prova evidente della ricerca costante di segni, un occhio meccanico – come quello della macchina da presa - che ruba pezzetti di realtà, un mezzo di indagine fondamentale per Kiarostami che ha una lunga esperienza di fotografo. È utile ricordare una dichiarazione del regista rilasciata alcuni anni fa alla rivista francese Cahiers du Cinema a proposito della fotografia: la quale permetterebbe “d’accumuler des images dans son esprit” e “di educare il pensiero e la visione in ciò che concerne il senso d’equilibrio, l’armonia. Ancora di più se è vero che la bellezza è l’essenza dell’arte e che quest’ultima esprime l’equilibrio e l’armonia, allora la fotografia è una via per comprenderne il significato fondamentale. La fotografia come termometro della sensibilità estetica”. Queste dichiarazioni, che rivelano una fiducia nella macchina tecnologica, appaiono sempre più in crisi. L’ingegnere continua nel suo tentativo di registrare la realtà con i manufatti tecnologici, ma questi ultimi sono del tutto insufficienti, inappropriati per una reale comunione di sensi con la realtà.

La mappa simbolica - 2. Gli animali. C'è una presenza fondamentale in quest'ultimo film: la tartaruga. Sull'apparizione in cima alla collina di una piccola tartaruga, che l'ingegnere scorge tra la vegetazione, è ardua un'interpretazione univoca. Longevità, lentezza, ma anche precarietà apparente di questa creatura giacché basta un semplice gesto di un uomo, che senza alcun motivo la capovolge, lasciandola a dimenarsi con le zampe all'aria. La tartaruga, tuttavia, riesce a riprendere la posizione normale e a continuare il suo cammino. L'ostinazione pervicace può essere metaforicamente attribuita alle due parti in gioco nella traccia narrativa: la vecchietta, appartenente alle generazioni contadine del passato, della tradizione, da una parte, dall'altra l'ingegnere che incarna le generazioni future, dunque il desiderio di "capovolgere" il mondo, di seguire un percorso diverso dal passato. Ma la tartaruga ha sempre camminato lentamente e vive sulla terra da milioni di anni, prima che l'umanità facesse la sua apparizione sul pianeta. Ci sono altri elementi che non possono essere sottovalutati. Innanzitutto il fatto che la tartaruga si trovi in un luogo che non è il suo, cioè quello naturale di appartenenza. Che ci fa una tartaruga in cima alla collina lontano dal mare? La sua presenza è davvero perturbante se consideriamo l'etimologia complessa, che oscilla tra quella inquietante tardo latina di Demonio e quella greca non dissimile di abitante del Tartaro, perché l'appellativo si riferisce al fatto che l'animale è ritenuto demoniaco, immondamente avvolto nel fango (così suggerisce il vocabolario Zingarelli 1996). La tartaruga, lenta, oscura, rigonfia, simbolizzerebbe allora un movimento involutivo, un regresso verso l’incarnazione. Ma non si può escludere un’altra versione del simbolo: la tartaruga, materia prima dell’opera secondo il mito di Mercurio che ricava dalla carapace dell’animale la materia della cetra, come punto di partenza dell’evoluzione. Invece di segnare un’involuzione, un regresso, essa è uno dei termini del processo, l’inizio della spiritualizzazione della materia. La tartaruga, racchiusa fra le due piastre della sua corazza, rappresenta un piano intermedio (la collina e non la montagna), la via fra il cielo e la terra[2].
C'è anche un altro insetto che trascina una pallina di sterco. Singolare è il fatto che questo sterco sia utilizzato da incubatrice per favorire la crescita degli insetti appena nati.
La presenza degli animali domestici rafforza la potenza dell'immaginario contadino, di una tradizione umana legata ai cicli continui della Natura. Gli abitanti del villaggio vivono in stretta simbiosi con animali domestici: galline, capre, mucche.

La mappa simbolica - 3. Le figure umane. Nella mappa simbolica rientrano in questo film il bambino, il medico, la donna in cinta e la donna che munge la mucca dentro la caverna. Si tratta di figure non di semplice contorno, sono fondamentali perché il personaggio chiave, cioè l'ingegnere protagonista in cui s'incarna la funzione specchio, quindi probabile alter ego del regista, lungo il suo percorso incontrerà queste figure umane, dall'evidente carica simbolica, che funzionano come doppi del protagonista, sono indicativi della funzione riflessiva che si dipana attraverso vari incontri e prolissi dialoghi. Già accennato alla consueta contrapposizione tra elementi tradizionali ed elementi che fanno parte dell'attualità tecnologica. Le figure umane non si contrappongono al personaggio principale o "specchio principale", esprimono semplicemente il loro status e la loro appartenenza a tipi universali: il bambino, la madre, il dottore, il contadino. La donna in cinta riconosce il suo ruolo fondamentale di madre, è perfettamente naturale che aspetti il decimo bambino (riguardo al numero dieci, questo corrisponde anche alla realizzazione per Kiarostami del suo decimo lungometraggio, ma l'analogia è forse del tutto casuale). Il medico esprime chiaramente la sua posizione tradizionale, di medico che cura le persone ammalate, non soltanto degli organi, poiché la specializzazione medica ha causato la spersonalizzazione dell'ammalato rendendolo semplicemente l’organismo-macchina in cui alcuni pezzi non funzionano.
Il bambino. Per la prima volta il bambino ha una forte autonomia, non solo il bambino è portavoce della verità, ma conduce lungo il percorso l'ingegnere. Ne “Il cinema di Abbas Kiarostami”[3] avevo sostenuto, con riferimento ai primi cortometraggi, una lettura psicanalitica della presenza dei bambini, consideravo infatti l’analisi lacaniana dell’esperienza dello specchio che si colloca essenzialmente sul versante dell’immaginario: la formazione dell’io sarebbe legata all’identificazione con un fantasma, con un’immagine.[4]

I bambini sono stati sempre il mezzo per guardare il mondo e soprattutto il mondo dominato dalla mentalità degli adulti. Che adesso sia un bambino ad accompagnare un adulto è del tutto coerente, poiché l'adulto negli ultimi film si è allontanato dalla bellezza e semplicità del mondo. Solo seguendo un bambino c'è una speranza di salvezza.

La donna dentro la caverna. Si tratta dell’apparizione associata di due simboli: “equivalenza simbolica dell’immagine della donna e delle immagini di interno, come casa, caverna, ecc.”. Rappresenta la possibilità di rinascita, attraverso un percorso che vede la soggettività alle prese con i problemi della propria differenziazione[5].

Lo specchio. Questa funzione si ritrova costantemente nel cinema di Kiarostami. Possiamo identificare l'evoluzione di una figura umana, un personaggio che riveste il ruolo di probabile alter ego del regista. In alcuni casi il regista è presente egli stesso (vedi Sotto gli ulivi o Compiti a casa, il finale de Il sapore della ciliegia). L'ingegnere arriva con alcuni colleghi in un paesino sperduto del Kurdistan iraniano. Non si sa nulla delle intenzioni dei forestieri, si tratta ancora di un'altra troupe cinematografica? Come negli ultimi film il villaggio li accoglie con affetto, l'ingegnere continua a salire e scendere con la sua Land Rover sulla montagnola in cima alla quale si trova un cimitero, dove un uomo sprofondato in una buca (ancora un antro, questa volta simbolo del sonno eterno) scava il terreno, scampa ad una frana che stava per seppellirlo per sempre, ed un osso, un femore umano, grottesca metafora della morte, scaraventato dalla cima del colle, galleggia nelle acque di un piccolo fiume che lo trascina chissà dove. L'ingegnere ha interminabili dialoghi con altri personaggi, spesso in macchina, in cui l'uso del fuori campo visivo è accentuato, sostituito dal controcampo sonoro. Qualche volta l'ingegnere sembra che parli da solo, con personaggi che non vedremo mai. Il sentiero tortuoso che porta in cima alla collina è percorso in salita e in discesa decine di volte, anche perché il telefono cellulare dell'ingegnere ha bisogno, per funzionare bene, di un luogo più alto. Il mondo contadino, nei suoi cicli eterni, appare impassibile al cambiamento mentre l'ingegnere si affanna per raggiungere i suoi obiettivi, attraverso un lavoro indefinibile, che non si vede, forse non esiste.


Considerazioni sul testo.

Kiarostami non apporta novità linguistiche, di conseguenza ho concentrato l’attenzione sull’organizzazione delle forme simboliche che è, a mio avviso, più interessante. Certi artifizi, come l’utilizzo del sonoro, o i dialoghi sbilanciati su un campo, le stesse figure fuori campo che non si vedranno mai per tutto il film, sono già stati i suoi mezzi espressivi emblematici. Certo gli effetti sullo spettatore sono esigui rispetto alle vertigini e allo spaesamento di luoghi e personaggi di Close-Up (ma possiamo negare in questo caso la seduzione della storia?), ma, diciamo sempre che alcuni registi girano sempre lo stesso film, ebbene la medesima affermazione si può fare per Kiarostami. È implicita, inoltre, se vogliamo usare categorie, l’appartenenza del corpus filmico kiarostamiano, per le sue caratteristiche intrinseche già evidenziate, al testo poetico. Le relazioni tra tipologie di testi (filosofico, letterario, poetico) semmai sono interessanti, in rapporto all’utilizzo di strumenti narrativi più o meno forti. Si evidenzia anche in questo film la presenza simultanea di caratteristiche filosofiche e narrative, ma con l’impressione che le categorie dello spazio (componente filosofica) predominino su quelle del tempo (componente narrativa-lineare).[6]


Alcune… provvisorie… conclusioni. Ne Il vento ci porterà via Kiarostami riflette sul proprio ruolo di regista, di produttore d’immagini, d’alterazione di una realtà che funziona così com'è da millenni. Cosicché il regista si affanna sempre più su un sentiero tortuoso che non va da nessuna parte, sembra girare a vuoto, anzi lo allontana dall'essenza del mondo, dalla vita, e lo conduce in un luogo illusorio, il cimitero, dunque la morte. Si può notare anche il fortissimo imbarazzo, che mancava nei film precedenti, per la presenza disturbante della troupe (cinematografica) in un luogo incontaminato.



[1] Vedi Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, volume primo, Bur editore.

[2] Vedi Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, volume secondo, Bur editore.

[3] Andrea Caramanna “Il cinema di Abbas Kiarostami”, tesi di specializzazione, Istituto Superiore di Giornalismo, anno accademico 1996-97.

[4] Christian Metz “Cinema e psicanalisi” capitolo I “Il significante immaginario” pag. 12.

[5] vedi Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur editore, I volume, pagg. 234-239.

[6] vedi Il Verri L’esercizio della lettura n° 9, maggio 1999 ed in particolare Emilio Garroni “Comprendere e narrare. Un paradosso”.