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Todo sobre mi madre Anno: 1999 Regista: Pedro Almodovar; Autore Recensione: Giampiero Frasca Provenienza: Spagna,Francia; Data inserimento nel database: 20-09-1999
C’era una volta una madre
L'ultimo film di Almodovar è forse
il suo capolavoro.
Tutto su mia madre
Tutto su mia madre
(Todo sobre mi madre); di Pedro Almodovar; con Cecilia Roth, Marisa
Paredes, Antonia Sna Juan, Penelope Cruz; Spagna, 1999; durata
1h e 40'.
C'era una volta una madre...Così
potrebbe iniziare la traduzione scritta dell'ultimo film di Pedro
Almodovar, Tutto su mia madre. Attraverso la storia di
una madre, Manuela, il regista spagnolo tratteggia e descrive
il valore assoluto della maternità lungo le sue direttrici
fondamentali. Il personaggio della madre sofferente per la perdita
del proprio amato figlio è solo il momento preliminare,
quasi il pretesto, per sublimare una figura in un sentimento,
in un ideale fatto di passioni, reazioni, sensazioni, tristi ironie
ed oscuri (e beffardi) giochi del destino. Quello che Almodovar
costruisce è un sapiente mosaico fatto di differenti immagini,
antitetici caratteri, ulteriori evoluzioni, l'unione dei quali
fornisce uno spaccato a tutto tondo sul concetto di maternità,
spiegandone le più remote ed intime emozioni, i più
minuti ed insignificanti aspetti. Ma la maternità, a sua
volta, si piega e riflette anche un altro aspetto, più
importante e maggiormente comprensivo, quello della femminilità,
del quale l'essere madre, sostiene qualcuno, è il punto
più alto e realizzante. Proprio la figura del figlio di
Manuela (un'intensissima Cecilia Roth, già presente con
Almodovar in Labirinto di passioni), con la sua tragica
morte avvenuta nel giorno del suo diciassettesimo compleanno,
apre un vuoto che diventa sintomatico di una vera e propria assenza
maschile all'interno della pellicola. Il padre dello stesso ragazzo,
scomparso nel nulla da diciotto anni, ha cambiato sesso e si fa
chiamare Lola; l'altro uomo della pellicola, il padre di Rosa
(Penelope Cruz, nei panni di una suorina laica che rimane incautamente
incinta dopo aver avuto un rapporto sessuale sempre con Lola),
è diventato un vegetale che si limita a portare in giro
il cane e a chiedere alle donne che incontra quanti anni abbiano
e quanto siano alte. Ad un'assenza estrema della figura paterna
- che non fa altro che esaltare maggiormente, di quel sano eroismo
quotidiano, il ruolo della madre - si affianca una mancanza del
maschio inteso come figura sessuale: l'attore della compagnia
teatrale ha l'intenzione di ricorrere all'esperienza erotica del
transessuale Agrado per il proprio intimo sollazzo, mentre nel
rapporto sentimentale tra Huma (Marisa Paredes) e Nina si fa direttamente
a meno della presenza maschile, ritenuta superflua. Ma Tutto
su mia madre è anche, molto più semplicemente,
un film sui sentimenti e sulle loro ripercussioni nella vita quotidiana,
sugli atti che vengono compiuti in ragione delle sensazioni provate,
sulle conseguenze fattive che le emozioni hanno sui comportamenti
individuali. Quello che si nota e si apprezza è l'enorme
capacità di Almodovar di narrare sempre, costantemente,
con il tono giusto e la sensibilità adeguata, una storia
che si muove abilmente sul filo di un difficilissimo confine tra
la tragedia e la commedia. I due generi sono strettamente conglutinati:
come una maschera del teatro greco, il tragico nasce da situazioni
apparentemente comiche, così come anche il riso si origina
da azioni di grande e tesa drammaticità. Un critico spagnolo
ha coniato il termine "Almodrama" per indicare questa
inconsueta e riuscitissima miscela che riesce a coniugare differenti
(spesso addirittura antitetici) registri espressivi rendendoli
semplicemente facce di una stessa medaglia che è la vita.
Non di vero melodramma si tratta: sono sì presenti i temi
dell'impedimento amoroso e della mancanza dolorosa (la morte dell'unico
figlio di Manuela, l'assenza di una figura paterna che in qualche
modo possa dare conforto e stabilità ad una situazione),
da sempre caratteristici del genere, ma risulta assente il finale
tragico che non riconcilia, visto che il bambino di Rosa (deceduta
sieropositiva in seguito al parto), di cui Manuela ha deciso di
prendersi cura, riesce a negativizzare il virus e a sostituire
quel figlio che la donna aveva perso tempo prima. Proprio del
melodramma è invece l'estrema caratterizzazione degli ambienti,
accuratamente arredati e connotati simbolicamente tramite precisi
colori. Nel film prevale il rosso, simbolo della passione, dell'amore,
del tormento e del dolore, ma anche di quel cuore di ragazzo che
Manuela decide di donare ad un cardiopatico, mentre un netto contrasto
a livello cromatico si genera con l'acceso tono azzurro della
scenografia del palcoscenico, immagine di quell'insanabile lotta
tra la realtà e la finzione, tra l'arte e la vita tra l'essere
e il dover essere che è un altro dei grandi motivi del
film. Di contro, nuovamente, alle convenzioni del melodramma,
Almodovar evita di rendersi ridondante mostrando la morte di Penelope
Cruz (che un classico melodramma avrebbe ripreso servendosi di
inquadrature sempre più strette sui presenti per penetrare
nei personaggi e ritrarne le reazioni al dolore) e decide di servirsi
di un'ellissi che porta lo spettatore direttamente al cimitero
in cui si stanno celebrando le esequie. Espressivo ed in qualche
modo sorprendente, non consono, ma non per questo meno doloroso.
Da sempre Almodovar ha operato su questo versante, cercando una
via espressiva personale, ma mai come in questo ultimo lavoro
il regista spagnolo è riuscito ad essere sensibile narrativamente
e maturo linguisticamente. L'importanza principale è sempre
accordata alla parola, vero motore della narrazione, modulata
secondo un equilibrio che contempla la battuta fulminante e la
frase che rende necessaria una profonda riflessione. La stessa
messa in scena dipende strettamente dalle modalità attraverso
le quali i personaggi assumono l'iniziativa della parola all'interno
della storia: la macchina da presa è sempre concentrata
sui personaggi che parlano in scena, la loro posizione è
rigorosamente nel campo, come a sottolineare la preminenza del
parlato e della funzione comunicativa rispetto a tutti gli elementi
di contorno. Questo non vuole assolutamente dire che la regia
di Almodovar sia dettata esclusivamente dalle esigenze di ciò
che si vuole esprimere tramite l'evidenza verbale. Anzi, la grandezza
registica di Almodovar risiede nella capacità di mostrarsi
discretamente, pienamente al servizio della storia che sta raccontando,
completamente inserito nella narrazione alla quale offre il suo
notevole contributo per quanto riguarda una significazione ulteriore,
pregnante e pienamente determinata. Si pensi al riguardo a solo
alcuni momenti, fors'anche minimi, in cui in una sola immagine
il regista spagnolo si rende responsabile di una chiarezza iconografica
che si lega immediatamente (ed inscindibilmente) al piano del
significante: in una delle prime inquadrature del film, ad esempio,
il figlio di Manuela, Esteban, provetto scrittore, prende appunti
mentre guarda in televisione Eva contro Eva di Mankiewicz
(tralasciando completamente di discutere il valore interdiegetico
che rivestono le pellicole cinematografiche inserite nella narrazione
di tutti i film di un Almodovar sempre pronto ad attribuire un
diretto valore simbolico alle immagini intercalate alla storia
principale). Il ragazzo, prendendo spunto dal titolo originale
del film, All about Eva (tutto su Eva), decide di progettare
un racconto intitolato Tutto su mia madre. La sua matita
inizia a scrivere su un foglio di carta, mentre l'inquadratura
successiva, sostituendo l'obiettivo della macchina da presa al
foglio, mostra la matita che scrive praticamente sullo schermo
della sala, rivolta agli spettatori: l'idea scritta si fa inquadratura,
la parola diventa immagine, un incipit letterario si trasforma
nella vera e propria narrazione di un film. Così il cinema
di parola di Almodovar diventa immagine, così una sceneggiatura
progettata nei minimi particolari si tramuta in una regia attenta
ai minimi particolari e sostanzialmente al servizio della storia.
Giampiero Frasca
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