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Love is the Devil
Anno: 1998
Regista: John Maybury;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: UK;
Data inserimento nel database: 21-04-1999


Love is the Devil
Visto al 14' Festival Intern. di Film con tematiche omosessuali
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LOVE IS THE DEVIL

Regia, soggetto e sceneggiatura: John Maybury
Fotografia: John Mathieson
Montaggio: Daniel Goddard
Scenografia: Alan McDonald
Costumi: Anne Symons
Musica: Ryuichi Sakamoto
Interpreti: Derek Jacobi, Daniel Craig, Anne Lambton, Karl Johnson, Annabel Brooks, Adrian Scaraborough, Tilda Swinton
Produzione: BFI
Produttori: BBC, The British Film Institute, Uplink
Formato: 35 mm.
Provenienza: UK
Anno: 1998
Distribuzione: Lucky Red

S'inizia su una stanza disadorna con letto sfatto, essenziale e tesa ad evidenziare fin da subito l'importanza del taglio di luci, molto definite negli ambienti ricostruiti dalla memoria ripercorsa da Francis Bacon a morte avvenuta di George Dyer, il suo partner. Si viene subito trasportati ai due limiti temporali tra i quali è racchiusa la trama: l'esposizione al Grand Palais (causa indiretta della morte del giovane eroinomane nel 1971) e l'intrusione di George, ladruncolo caduto letteralmente nell'antro ingombro di colori e tormenti del pittore britannico (1964). In questo modo si evita il biografismo, ribadendo l'attenzione, esplicitata dal punto di vista del pittore ("Egli è tutti loro assommati in una sola persona"), per il periodo in cui è durato l'amore tra Bacon e Dyer, senza mostrare opere artistiche, rincorrendo invece i fantasmi che popolavano la mente dell'artista prima di accanirsi sulla tela.

Ma l'essenzialità non è un dogma, così le schegge di ricordi sono talvolta frammenti che esplodono in fotogrammi subliminali che s'accalcano alla percezione, in altri casi sono deformazioni di visi e ambienti riflessi da superfici irregolari, concave come fondi di bicchieri, in certi momenti si affida la rievocazione a colori che tanto materici non si vedevano sullo schermo dalla morte di Jarman e danno vita a creature demoniache che popolano il delirio del visionario pittore, impegnato a scomporre lo spazio seguendo l'incanto che nasce da improvvisi squarci di luce; ma più spesso assistiamo alle azioni e alle figure plastiche attraverso la mediazione di uno o più specchi, come se non fosse più possibile vedere la realtà, se non con il filtro di una superficie deformante: la vita come la morte, dato che l'ennesimo specchietto viene avvicinato alla bocca riversa di George per sapere se respira. Un'attenzione filologicamente precisa visto il trittico di Bacon rielaborato dalla intelligenza degli autori nei frequenti tre specchi che rimandano la figura dell'artista.

Questa condizione però svuota di fisicità oggetti e soggetti, spostando sulle ombre l'interesse dell'artista ("A volte l'ombra di un uomo è più presente dell'uomo stesso"), fino al punto di legittimare lo sfociare nella body-art della pittura spalmata sui volti per dare spessore ai visi che il riflesso degli specchi rende evanescenti, accentuando con quel gesto la forza delle cicatrici nominate come parte essenziale delle figure, ribadendo l'angoscia di scoprirsi sanguinante internamente (ma con evidenza in un repentino fotogramma anche esternamente) per la violenza della boxe, pratica assistendo alla quale si aprirebbero i sensi.

C'è uno splendido uso dei corpi ed in questo sta la pe culiarità gay del film, per altro verso teso invece a discernere quali as petti siano realmente le componenti abilitate a far parte della creazione artist ica senza la retorica di Basquiat, rinunciando alla proposta di tablea ux vivant come in Caravaggio dell'evidente maestro Jarman, con improv visi dettagli di colori, che non si limitano ad essere cromatismi, quanto piuttosto materia non depurata dall'uso artistico, quanto resa demoniaca dall'uso e con una inquietante predilezione per un rosso materico. Un limite, condiviso con la ricerca estrema di New Rose Hotel (la fotografia del quale appare curiosamente in sintonia), è quello che vede esaurirsi gli espedienti formali dopo poco e quindi alcune sequenze sono un po' risapute, però come nel caso di Ferrara si assiste ad alcuni pezzi di bravura tali da potersi perdonare con indulgenza qualche caduta di tono, come gli eccessi estetizzanti dell'amante nel bagno, mentre il dialogo si svolge attraverso gli specchi. Un bell'effetto, ricercato (anche nell'evocazione dei marchingegni messi in atto dal pittore di Greenaway in Draughtman's Contract per ridurre alla ragione la realtà fisica) ma non per questo disprezzabile, è quello che vede la spogliarellista posare per nudi femminili utili a Bacon: portando alle estreme conseguenze la divisione della realtà attraverso retini fotografici in grado di scomporla: assistiamo alle pose da pin up attraverso telaietti profondamente analitici a fare da contrappunto all'altrimenti frenetico accalcarsi di frames che presiedono alla intuizione creativa, perennemente oscillante tra la convinzione che "piacere e dolore sono della stessa natura" e che "non sono rappresentabili". Ma questo è il compito dell'artista e non è un caso che proprio per illustrare questa massima venga chiamato un testimonial d'eccezione come la carrozzina più famosa del cinema, conferendo a quelle immagini, scaturite da un profonda sensibilità e nobilitate dalla scalinata di Odessa, un valore di particolare "attrazione": le più intense di queste si vivono come improvvise scariche elettriche originate da dolorosi piaceri.

Vi sono altri momenti che catalizzano l'attenzione spesso persa dietro alla voce off, poeticamente maudit intenta a distillare pillole di disperazione ("Ognuno sta dentro la sua prigione e non si vede il sangue finché non ti tagliano la gola"): l'apparizione della figura demoniaca giunge a pacificare l'acme di ogni delirio, questi si avvalgono di inizi segnalati da riprese sempre sorprendenti come l'accensione di una sigaretta vista dal fumatore o le deformazioni ottenute da "odori, violazioni, dissacrazioni, frattaglie, circonferenze...", sempre comunque accompagnate da lampi di flash o spot di luce che improvvisamente illuminano le facoltà percettive sempre all'erta attraverso folgorazioni inopinate, fino all'evoluzione del water duchampiano dipinto su una tela fatta oggetto di una distratta quanto dissacrante minzione notturna, non sprezzante, ma prepotentemente impositiva della supremazia della fisicità. Anche il colore si impone come materia per diventare carne quando ritrae soggetti ripiegati in urla di silenziosa disperazione.

"Catarsi come compiuta sottomissione al partner" è l'oracolo del pittore apparentemente disatteso dallo stesso, ma in realtà la deriva di George coinvolge anche il genio non con l'evidenza che si immagina il regista avrebbe voluto perseguire per restituire l'assunto finale, ampiamente condivisibile visti i tempi e l'incertezza intollerante che accompagna lo Zeitgeist: "Tutto si sta spegnendo: ogni cosa sta morendo". Purtroppo George non riesce ad avere il titanico spessore indispensabile per incarnare questa sensazione terribile, ma rimane l'intenzione ad aleggiare sulle strutture spoglie, private anche dell'accoglienza domestica, ridotte a tubi delimitanti spazi aperti e vuoti o incombenti pareti senza aperture, scatole geometriche riprese dall'alto a schiacciare ulteriormente il soggetto e deprimenti per la loro angustia. Da quei tuguri scaturisono luci, colori lividi e flash che danno vita a questa fantasia coltissima, claustrofobica, biomorfica, perché la percezione non riesce più a ricevere informazioni non deformate.