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The Blackout
Anno: 1997
Regista: Abel Ferrara;
Autore Recensione: Giampiero Frasca
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 27-01-1998


Blackout (The Blackout, 1997). Sceneggiatura: Abel Ferrara, Marla Hanson, Christ Zois. Regia: Abel Ferrara.
Fotografia: Ken Kelsch. Musiche: Joe Delia. Montaggio: Anthony Redman. Cast: Matthew Modine (Matty), Dennis Hopper (Micky), Claudia Schiffer (Susan), Béatrice Dalle (Annie), Sarah Lassez (Annie 2). Produzione: CIPA / Les Films Number One / MDP Worldwide. Usa, 1997. Durata: 1h e 40'.

Blackout è, per estensione, l'oscurità totale in cui può piombare la mente umana a seguito di un trauma improvviso: nell'ultimo film di Abel Ferrara è l'assoluto vuoto di memoria che assale un Matthew Modine disastrato, alcolizzato e tossicodipendente dopo l'assassinio di una diciassettenne che crede erroneamente la donna che ama. Come realizzare cinematograficamente un vero e proprio "buco" psicologico nella mente ossessionata e malata del protagonista? Semplicissimo, si ricorre a quella che in linguistica viene chiamata ellissi, ossia l'omissione di una o più componenti del discorso. Nella lingua sono parole, nel cinema (nel quale, anche se non sembra, dell'ellissi si fa un uso smodato) si tratta di immagini. Matthew Modine si avvicina alla ragazza che, per ironia della sorte (sul piano della storia, perché a livello del racconto si tratta di un'astuta trovata della sceneggiatura) si chiama anche allo stesso modo della donna che lo ha abbandonato, la guarda con occhiate tristi e spiritate al contempo, le chiede perché lo abbia lasciato, le si butta in grembo e l'abbraccia. Punto. Dissolvenza in nero. Una didascalia bianca su sfondo nero comunica allo spettatore che sono passati diciotto mesi nei quali il personaggio ha cambiato città di residenza (New York e non più Miami), ragazza e salute, visto che si è disintossicato da tutte le scorie all'interno del suo organismo. A questo punto lo spettatore ricorda che all'inizio del film una voce disperata (quella di Modine) aveva detto di voler dimenticare il passato e quello di cui si era macchiato: qualcosa allora in mezzo a quei diciotto mesi è successo, ma il blackout del protagonista è anche quello del pubblico, la rimozione di Modine è quella di ognuno di noi. E a questo punto per Modine inizia, inconsapevolmente, una ricerca all'interno della sua psiche, un viaggio all'interno delle sue ossessioni (la chiave di tutto è l'enorme locandina di Otto e mezzo di Fellini posta alle spalle del personaggio all'interno dello studio dello psicanalista, vale a dire un altro viaggio - forse "il viaggio" - all'interno delle proprie ossessioni nel mondo del cinema). Modine cerca la donna che lo ha lasciato, non pago della tranquillità raggiunta a New York, ma trova la scomoda verità di un omicidio sulla coscienza grazie alle immagini rivelatrici (e solo grazie ad esse) di un videoartista suo amico (Dennis Hopper, altra icona dell'ossessione fuori e dentro la finzione filmica), abituato a riprendere il reale in modo "rosselliniano", senza finzioni, lasciando che la verità si generi da sola nell'ambito di un contesto indotto. È la cruda verità per un personaggio schizofrenico, incapace di scindere finzione e realtà (è un attore hollywoodiano), quotidianità e ossessioni. E la pellicola riprende questa concezione binaria moltiplicandola in una struttura dicotomica che bipartisce, allontanandoli, tutti gli opposti: salvezza e perdizione, donna bruna e donna bionda (la Schiffer, svuotata magistralmente di ogni attributo sensuale), torbidità e calma, staticità e ricerca, realtà ed apparenza, verità e finzione, prima e dopo, personaggi doppi di donna. Anche la struttura stessa del film appare bipartita, divisa esattamente in due dall'ellissi di cui si parlava in precedenza che, di fatto, compare nella metà esatta della durata della pellicola. La prima è la parte che si svolge a Miami, che assume a questo proposito i connotati simbolici della città della perdizione, perso com'è Matthew Modine nei suoi festini a base di droga ed alcool e nel sensualmente torbido rapporto con la donna bruna (una intrigantissima Beatrice Dalle), personaggio caricato sessualmente da vestiti attillatissimi ed atteggiamenti marcatamente erotici. Nell'altra metà della pellicola si trova la parte che si svolge a New York, che per una volta assurge ad oasi di tranquillità e calma rilassante. A New York Modine riesce a trovare la pace di una famiglia, di un appartamento, di una rilassante relazione sentimentale (mutano dalla prima parte addirittura la natura dei baci con la propria donna, più casti e meno umidicci), la comprensione di una ragazza opposta somaticamente e caratterialmente a quella di Miami e, soprattutto, la disintossicazione dall'abuso di alcool e droghe che lo aveva accompagnato precedentemente. Ma il suo pensiero è sempre a Miami e alla donna bruna, autentica ossessione per la sua ancora fragile persona. Come il fuoco tende verso l'alto, il suo è un tendere verso la perdizione, andando ed assecondando le proprie ossessioni, cercando di scavare in un passato che ha rimosso e che recupererà solo con grandi patimenti. La bipartizione concettuale è presente anche nel ruolo stesso del personaggio Modine (chiamato Matty nel film, ancora un ulteriore sdoppiamento tra finzione e realtà) che impersona un attore hollywoodiano, ossia una figura abituata, per indole e per contratto, ad entrare in un'altra personalità e farne le veci in una narrazione che dev'essere sentita come vera e reale, pena la mancanza di adesione del pubblico allo svolgimento della vicenda. Già per costituzione, quindi, Modine è un personaggio sdoppiato e sdoppiabile, schizofrenico per l'arte si potrebbe dire. Ferrara realizza un film statico, assolutamente non lineare nella sua narrazione; un film da cui le ossessioni escono e si raggomitolano, confermando la grande attitudine del regista per gli incubi che si generano dal proprio ego distorto.