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Idioterne - Dogme 2 - Idioti
Anno: 1998
Regista: Lars Von Trier;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Danimarca;
Data inserimento nel database: 31-01-1999


Idioterne
-------- Axel Knud Romer J¿rgensen
Henrik Troels Lyby
Jeppe Nicolaj Lie Kaas
Josephine Marie Louise Mieritz
Karen Bodil J¿rgensen
Katrine Anne-grethe Bjarup Riis
Miguel Luis Mesonero
Nana Trine Michelsen
Ped Henrik Prip
Stoffer Jens Albinus
Susanne Anne Louise Hassing
Onkel Erik Weders¿e
Guida in fabbrica Claus Strandberg
Donna borghese Paprika Steen
Uomo della strada Michael Moritzen
          Regia Lars Von Trier
          SoggettoLars von Trier
          Sceneggiatura Lars von Trier
          Fotografia Lars von Trier, Jesper Jargil, Kristoffer Nyholm, Casper Holm
          Montaggio Molly Malene Stensgaard
          Direzione artistica Lene Nielsen
          Fonico Per Streit
          Musica Kim Kristensen
          Produttori Peter Aalb¾k Jensen, Vibeke Windeløv
          Produzione Zentropa Production, Liberator Productions
          Distribuzione Columbia Tristar
          Formato 35 mm. Widescreen Dolby SR
          Provenienza: Danimarca
          Anno 1998
          Durata 113'


    Importante è l'accezione del termine "Idioti" che il regista lascia trasparire come propria: quella condizione riveste una valenza positiva, al punto che pare uno stato di grazia da raggiungere, perché consente di uscire da schemi antropologici soffocanti e retrivi (spesso viene indicato schematicamente il nemico: i "borghesi di merda"). Questo valore del film si fatica a scoprirlo all'inizio, mentre dopo l'ingresso in scena per un delizioso ruolo cameo di autentici down, gradualmente va diminuendo l'insistenza ripetitiva che intervalla le beffe ai danni dei benpensanti con la ricostruzione a posteriori della vicenda, corredata addirittura dall'intervento della voce off, che sarebbe vietatissimo dal Dogma se non si trattasse di porzione del film; allo stesso modo lo diventa la musica di Camille Saint-Saëns, altra trasgressione elevata al rango di emozione per la collocazione all'inizio e alla fine del film: il brano è usato per sottolineare la predisposizione di Karen a sviluppare il suo lato emotivamente fuori dagli schemi e questa viene addirittura esplicitata da una frase: "Karen era dolce" (il verbo al passato della traduzione italiana lascia in sospeso anche il dubbio di un epilogo tragico), pronunciata durante quella specie di terapia di gruppo, registrata peggiorando, se possibile, le condizioni di ripresa con candele ridondanti nel loro sottolineare la condizione rituale del gioco messo in atto dai dogmatici (poiché ci si può chiedere in cosa differirebbe il gruppo ripreso in quella comunità dalla confraternita di Dogme95: assecondando una tecnica delle avanguardie essi autoironizzano, mostrando la parte più provocatoria e meno difendibile di sé); situazioni che rientrano nel disegno di mostrare i meccanismi artificiosi del cinema.

    La centralità della figura di Karen è sottolineata più volte nel film, perché è l'unica a distinguersi realmente, fin dalla prima sequenza al ristorante, dove nello scambio di sguardi è, per il gruppo, magnetica nel suo essere dimessa; e ciò rimane evidente nonostante l'offuscamento dei caratteri risultato della tecnica di ripresa, legittimata dalla volontà di trasgressione tipica delle avanguardie, da quelle storiche ai situazionisti, fino a Stan Brackhage, che aveva già nei primi anni '60 adottato la tecnica di ripresa dei giovani scandinavi di Dogme95. È comunque lei ad essere oggetto di un'analisi approfondita nelle riprese che alla moda della tv d'inchiesta documentano una realtà successiva (altra doverosa deroga ai dogmi), intervallandosi nel montaggio con gli episodi della sua adesione alla comunità. Non è tuttavia Karen l'osservatrice testimone, ma fin dall'inizio nel ristorante Susanne assume il ruolo dell'assistente (in tutte le accezioni della parola), al punto che la scena finale ci viene suggerita dal suo punto di vista e noi, come il regista, ci adeguiamo al suo atteggiamento di osservatore protettivo, giudice unico del superamento della prova e del definitivo cambiamento di Karen.

    Forse lo schematismo dell'impostazione di Stoffer, l'ideologo, e la conseguente coazione a riproporre le medesime situazioni all'inizio, serve all'economia del film per esasperare l'attenzione dello spettatore con lo scopo di equiparare quell'atteggiamento con quello dei pietosi conformisti, riconoscendogli una consapevolezza superiore a quella delle convenzioni, ma riconducendone poi i risultati ad un'incapacità di uscire effettivamente dagli schemi ("gli idioti sono gli uomini del futuro" è lo slogan degno di un manifesto costruttivista), se non attraverso fittizie dimostrazioni di liberazione, come la risibile ammucchiata, censurata in modo da rendere anche poco chiara la sequenza successiva con l'intervento autoritario del padre di Josephine; insomma gli schemi sembrano proposti fino alla nausea per spingere il pubblico a sentire il bisogno di distinguersi. E proprio questo è il significato etimologico del lemma greco idiothV : "modo di essere", con un'attenzione spiccata per ciò che di più "privato" si annida in esso; e nel film si tende a far emergere i caratteri distintivi del singolo individuo, il suo privato, che ne fa un essere speciale e questo si sostituisce all'irritante ripetizione di asfittiche burle nel momento in cui il gioco non si regge più: questo comincia ad avvenire proprio confrontandosi con i veri idioti, ma soprattutto con le reazioni dei presunti liberati di fronte al disagio che provano a relazionarsi con loro, un malessere riconosciuto nella reazione diversa che ognuno scatena di fronte al proprio imbarazzo. Differente tra gli appartenenti al gruppo, ma nessuna davvero idiota, cioè appartenente ad un "diverso", se non Jeppe (notevole attore, che non cancella il dubbio sulla sua effettiva menomazione), il quale unico si dispera, scatenandosi contro l'autoritarismo del padre di Josephine; egli era già stato protagonista della burla nel bar, che più delle precedenti sconvolge lo spettatore per la sua crudeltà, dovuta al tipo di disagio che comunica l'abbandono del giovane in mezzo ai bikers, ma soprattutto in quanto lascia in sospeso il reale livello di fiction.

    A quel punto cambia il registro dell'opera e sorge l'effettivo interesse del film, di cui la prima parte diventa solo una preparazione troppo lunga: era ovvio che il dileggio si sarebbe ribaltato a loro danno - e non tanto per i molti dettagli sparsi dal regista, da cui affioravano autentici disturbi simulati e squallide manipolazioni del disagio altrui, quanto perché il plot non può che evolvere in quella direzione o implodere -, ma non ci si poteva aspettare che il film potesse mettere a nudo tanta vacuità o simili condizioni di reale malessere psichico incontrollabile. Insicurezze che dapprima sembrano limitarsi ad essere satira tardiva di certe vecchie pratiche antipsichiatriche di una generazione persa in velleitarismi e bisognosa di darsi normative anche nella mancanza di regole (deve "decidere" l'ammucchiata come gioco per abbandonare i freni inibitori), ma poi almeno capace di ammirare in silenzio chi riesce a superare atteggiamenti banali o artefatti; solo nella seconda parte viene introdotto l'argomento felicità, affrontato beffardamente ("Se la società è sempre più ricca, perché la gente non è più felice?", Stoffer), ma ogni volta che viene avanzato da Karen, si ammanta di spessore emotivo: una cappa triste, che è senso di colpa per il fatto di sentirsi felice in quella situazione anomala e a noi è concesso soltanto di fare ipotesi sul motivo di quell'ombra che s'allarga sulle burle e sull'artificiosità degli altri componenti il gruppo. Di certo il doppio rifiuto della famiglia appare una evoluzione rispetto alla insopportabile figura di donna dedita al sacrificio di sé di matrice cattolica e che prevede un'espiazione in Breaking the waves; qui si torna a più sani atteggiamenti riformati: la grazia tocca improvvisamente ("Susanne, kom og se. Karen er gået i spas", è il richiamo di Nana al gruppo, scorgendo nella Karen stranita alla finestra i sintomi dell'idiozia) e non si ottiene attraverso indulgenze o penitenze, quali appaiono le carnevalate messe in scena. Qui tutto ciò che viene rifiutato è la falsità: sia quella dei borghesi , sia l'inautenticità del gruppo, di cui si tirano a sorte gli elementi chiamati a dimostrare di "essere in grado di esibire la vostra anormalità nei vostri ambienti". Risultato: Axel, il più odioso perché fallocrate, si accorge subito dell'inanità degli sforzi di assurgere al livello di idiota, mentre il maestro (altra figura che per il suo ruolo didattico è sempre stato bersaglio delle anarchiche avanguardie) torna a svolgere il proprio compito senza trovare appigli per non soffocare il proprio afflato idiota, perpetuando il suo personaggio integrato e benamato dalle borghesi. É significativo nella sequenza il punto di partenza: il destino legato alle circonvoluzioni aleatorie della bottiglia (assimilabile alla macchina da presa) è uno scherno ulteriore proveniente dalla mancanza di possibilità redentrici: senza la grazia si può soltanto vaneggiare di poter conseguire lo status di idioti con pratiche più o meno provocatorie, ma a rispondere è solo un silenzio inibitore (in questo senso si può assimilare l'opera del danese con il connazionale Dreyer) e la frustrazione del fallimento. Per manifestare questo non facile concetto si passa attraverso la contrapposizione tra vero e falso; quest'ultimo occupa l'intero film, giocato sempre sulla rappresentazione della rappresentazione, lasciando all'espressione della più autentica espressione di sé la catarsi finale, che non ha i caratteri di una liberazione, ma è una soluzione meno squallida dell'ipocrita autocontrollo quotidiano.

    Questo manca a Festen: quello di Vinterberg è un esercizio di stile vacuo, come appare all'inizio anche il film di Von Trier, ma Idioterne a partire da una disamina della impossibilità della felicità riesce a scavare nei caratteri, che rimangono quelli degli stereotipi per certuni (lo testimonia la sequenza di impianto teatrale in cui viene inscenato l'elettrochoc, la contenzione e la stanza imbottita), la cui "normalità" deve salvaguardare l'evidenza degli altri, i diversi. Da questo scavo non emergono i motivi del disturbo mentale, ma la disperazione, lo sconforto, che annienta le provocazioni, lasciando gradatamente spazio al "reale" stato degli "infelici": "Perché deve essere umiliante e frustrante? Non stupisce che i malati abbiano una visione distorta della realtà", quella stessa che la tecnica di ripresa potrebbe suggerire attraverso i contorcimenti innaturali, se non fosse limitata dal palese artificio linguistico, che occlude la possibilità di offrire una visione ingenua (compreso l'operatore che entra in campo), mentre Stoffer invidia ai down proprio l'aria così spontanea che hanno. Il tocco in più di questo film sono le sfaccettature dei personaggi che hanno una pena speciale e questa salvaguardia della loro unicità rappresenta la reale portata dirompente, dolorosamente dirompente, del disordine mentale, che una tragedia come la perdita del figlio può arrecare e, senza arrivare ad abissi di idiozia, sicuramente produce quello smarrimento che è benissimo rappresentato da Karen ed ancora meglio è risolto nella splendida sequenza finale, che sancisce il rifiuto bilaterale della famiglia ed il superamento del senso di colpa (non della tristezza insita in esso, ma della cupa infelicità debellata dalla "cura") in virtù della conseguita idiozia, inscenata nei propri ambienti. Il messaggio finale del film coincide proprio con il definitivo allontanamento consapevole dell'idiota dai propri luoghi una volta riconosciuta la sua diversità: cioè il motivo che fa recedere tutti gli altri dall'abbandonarsi al proprio essere più intimo.

    Al contrario di come forse taluni amano leggere il film, non credo che Von Trier voglia dimostrare il labile confine tra mondo dei disabili e universo della normalità, che non potrebbe essere rappresentato da quei personaggi, ciascuno volutamente stereotipato per portare in scena tutti i meccanismi, esponendoli come tali senza curarsi di risultare credibili, nonostante le manie da cui sono affetti tutti e che servono per farci sentire tutti normali e al contempo bacati e predisposti all'orrore: è più evidente il tentativo di esaltare la capacità di conoscere la propria parte idiota attraverso la sofferenza attonita, che però consente di avere quella lucidità per riconoscere: "Io non ci trovo niente di divertente, lo prendete in giro", rilevando così il gap di fronte al quale si trovano anche i registi dogmatici nelle loro pratiche provocatorie, a cui reagiscono dicendo: "Sono tutti gli altri che ci prendono in giro". Sembra di poter identificare tre diversi approcci alla materia: un'idiozia a termine sorta a comando per una volontà intellettuale falsa, una condizione di sofferenza a vita, incomprensibile da parte dei "normali" e un mezzo utilizzato per elaborare lutti e superare infelicità indicibili, che si può abbracciare non per scelta, ma per coinvolgimento casuale, ma che produce una consapevolezza di sé e degli altri tale da poter stilizzare i ritratti di tutti gli appartenenti al gruppo.

    Il dubbio è che l'intero progetto dogmatico soffra di scarso impatto trasgressivo e si riduca a mera rievocazione dei fasti avanguardisti di inizio secolo, senza riuscire a scardinare il proprio stesso impianto, come invece traspare nelle intenzioni: la provocazione, che potrebbe essere graffiante se fosse imprevedibile, si riduce a fastidio dal quale emergono alcune ottime intenzioni, e l'insistenza su temi validi per i surrealisti di settant'anni fa (il disturbo mentale e l'oppressione delle convenzioni sociali e soprattutto familiari) e sull'altalena tra l'imposizione di regole ferree e la distrazione dalle stesse appare come un ridimensionamento delle proprie legittime ambizioni.