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La leggenda del pianista sull'oceano
Anno: 1998
Regista: Giuseppe Tornatore;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 09-11-1998


La leggenda del pianista sull'oceano

La leggenda del pianista sull'oceano

      Regia:Giuseppe Tornatore
      Sceneggiatura: Giuseppe Tornatore da Novecento di Alessandro Baricco
      Fotografia: Lajos Koltai
      Musica: Ennio Morricone
      Interpreti: Tim Roth, Pruitt Taylor Vince, Mélanie Thierry, Bill Nunn, Peter Vaughan, Clarence Williams III, Alberto Vasquez, Gabriele Lavia
      Produzione:Medusa e New Line
      Distribuzione: Medusa
      Formato: 35 mm.
      Provenienza: Italia
      Anno: 1998
      Durata: 160'


Evocato dalla bocca di una tromba a tutto schermo il piroscafo non emerge dal basso come il Titanic di Cameron nel racconto della vecchia superstite, ma entra con un attacco sul movimento da destra occupando lo schermo in un movimento avvolgente, anticipando la scelta registica di adottare panoramiche e carrellate senza soluzione di continuità come volendosi mantenere ad un livello di stucchevole coreografia hollywoodiana: lungo l'intera pellicola assisteremo a masse in movimento, riprese con movimenti di macchina maestosi e situazioni ripetute, come l'insopportabile sketch del destinato ad essere il primo ad annunciare l'America con sguardo che conteneva fin da bambino questo privilegio.

L'affabulazione scontata di Baricco lentamente conduce il Virginian all'ultimo porto raggiunto con i tempi biblici del Racconto, che didascalicamente viene propinato a molti interlocutori, quasi a volerlo fare assurgere al rango di mito totalizzante. Tornatore lascia cadere l'ambiguità del dubbio sull'esistenza di Novecento al di fuori del vaniloquio del trombettista e lo rende troppo reale, quasi negandogli la possibilità di essere il fantasma dei sogni della high society pre-bellica intrecciati alle chimere degli emigranti. Non è un caso che le fila del racconto si perdano con l'avvento del nuovo ordine mondiale: Baricco non si raccapezzerebbe più nei suoni del bebop e Tornatore con Bird dovrebbe cercare di seguire le sue increspature e non potrebbe sostenere a lungo i suoi sinuosi dolly, sempre pronti a pencolare tra due punti, producendo un lieve mal di mare nello spettatore (non sappiamo andare sull'acqua?) e ricalcando la spola della nave tra le due sponde dell'Atlantico con il suo musico a incarnarne il dondolante spirito, né si duplicherebbe ancora l'incanto ottenuto con i molteplici e successivi attacchi e stacchi sul movimento, adottati come una danza per narcotizzare conflitti, tensioni e spettatori avvolti in un'atmosfera certamente swing, ma i cui riferimenti vanno esclusivamente agli ammorbiditi suoni bianchi: infatti Novecento si chiama Danny Boodman richiamando il direttore dell'orchestra bianca per eccellenza, che aveva slavato lo stile jungle di Duke Ellington e la selvaggeria di Cab Calloway; qui il massimo di negritudine si avverte come eco degli spiritual quando il macchinista nero canta la ninna nanna al piccolo Novecento. Il resto è charleston, delizia delle spensierate signorine di buona famiglia, felici di mostrare finalmente le gambe dopo le crinoline vittoriane; ragtime, volutamente evocando il testo di Doctorow, che traeva il titolo dalla musica per documentare l'approccio intellettuale ai primi afflati di liberazione dei costumi; stomp, quando gli autori vogliono proprio trasgredire. Ecco manca un qualsiasi movimento di macchina che esuli dai canoni della carineria e della buona società bianca, anche nelle riprese del terzo ponte, non potendo rappresentare lo scanzonato mondo di Titanic, si tenta di aderire italianamente (quando si tratta di nostri emigranti) alla tristezza della miseria dell'emigrante, ma si finisce con l'offrire le stesse musiche, ma più meste, perché anche sfrondate di qualsiasi ribellione, che darebbe fastidio all'impianto del film evocativo di un mondo incantato, in quanto visto attraverso gli occhi del pianista. Melting pot d'accatto, buonismo e nostalgia, giocando con l'espressione assente di Tim Roth, ricalcata sul personaggio di Stan Laurel, che su quella nave fece la traversata insieme a Chaplin (presente nei ricordi del cinefilo sia nella figura della bella friulana disegnata sull'oblò come una Paulette Goddard vista da una vetrina, proletticamente evocata dal cameo di Lavia, sia nel mascherino finale che rincorre la figura del narratore trombettista, chiudendo la dissolvenza su di lui); Stanlio inseguito nel ricordo dal suo grasso compare questa volta, seguendo il percorso inverso rispetto a Osvaldo Soriano: per questo il personaggio diventa troppo reale, pur rimanendo isolato in un universo irraggiungibile, etereo e privo di reale sofferenza.

Il lungo inserto di cui è vittima la memoria tradita di Jelly Roll Morton (furono i suoi Red Hot Peppers a imprimere su cera i saggi di jazz studiati da tutti) ottiene un barlume di senso dalla soluzione finale adottata (benché la performance alla Shine sia stiracchiata), perché fa un buon uso della sigaretta, trasfigurata in cinéma, elemento introdotto fin dall'inizio della sequenza con la cicca accesa dall'inventore del jazz ed è accettabile perché offre una chiave di lettura cinefila per l'intero film (confermata dal fatto che Tornatore fin dall'esordio fa cinema autoreferenziale): in questo frangente è il western, comprensivo di ombra del cattivo stagliata al di là della vetrata, silenzio rotto solo dal liquido versato in primo piano nel bicchiere sul bancone, barman, duello; prima erano state omaggiate le torte in faccia. E allora si rilegge il film come omaggio a-critico al transatlantico cinema e ai suoi eroi di prima della guerra; lo spessore del narratore vorrebbe essere quello altrettanto cinefilo del De Niro di Once upon a time, avvolto da un'aura inenarrabile, che proviene dal passato e si proietta sui fatti decostruiti nella struttura di Leone su molteplici epoche, mentre qui sembra difficile condurre senza traumi la semplice alternanza del presente diegetico con il lento recupero del passato, affinché finalmente si rimettano in pari nell'epilogo e la cornice possa conseguire la sua catarsi.

Lo scorrimento liscio dei movimenti, che fluiscono come un ballo di Fred Astaire (il termine "volteggiare" è un chiaro riferimento a lui), fa diffidare chiunque ami il jazz come espressione afro-americana: quando tutto è armonioso, significa che sono stati nascosti i motivi che fanno cadere questa serenità; si sono copiati gli stili per emendarli del loro carattere eversivo e metterli al servizio dello svago. Per scoprirli è sufficiente spurgare il testo dei lustrini giustapposti da Tornatore e far emergere l'artificiosità della maggioranza delle imprese di Baricco: l'assenza di anima (un delitto nel mondo dei suoni e in particolare per la musica nera), la narrazione con l'unico fine di autocompiacersi dell'applicazione di scolastici meccanismi narrativi del narciso torinese mai sorprendenti, perché frutto di fredde analisi dei tempi di risposta del pubblico. Non è neanche un'operazione difficile, dato che le asserzioni dello scrittore non si amalgamano al contesto, vista la natura oracolare: ad esempio la visione di New Orleans di Novecento, che riesce a ricostruire lo spirito dei luoghi in cui non è mai stato, mantiene quell'ambiguità della figura tra personaggio e metafora, che è il classico brodo di coltura da cui il giovane Holden pedemontano ricava le facili suggestioni che lo caratterizzano e dalle quali distilla quelle piccole pillole di pessimo gusto quali (il tono ispirato non si confà a Tim roth che infatti ha avuto alcuni momenti di irritazione durante le riprese): "Perché rincorrete il posto dove non siete?", "L'America è quello che ti lasci alle spalle", "Leggeva la gente. I segni che la gente si porta addosso", "Suonava come una sottoveste che scivolasse dal corpo di una donna", "Di là non è la stessa cosa: si può sentire la voce del mare", "Che succede ad un chiodo per decidere che non ne può più?", "Prima o poi le storie finiscono e non c'è altro da aggiungere".

Ancora più calligrafico, ma almeno utile all'economia del film è la sequenza del piano che molla gli ormeggi nel salone vuoto e come in un musical diventa mezzo per armonizzare i due protagonisti: attraverso quel ballo si conoscono a fondo. Semplicemente autoindulgente invece il dialogo tra quadro e chiodo che cade per introdurre la decisione di scendere dalla nave (Beckett che smette di aspettare Godot? E poi riprende il tran tran: avranno voluto davvero spingersi all'esegesi di un testo così complesso, pensando di poterlo divulgare, rendendolo elementare? Supponenti a tal punto? Manie di grandezza? Mah!) ed avere così pronto il gran finale con altre pillole di saggezza?

Altrettanto scolastico è l'uso dei fondamentali del cinema da parte di Tornatore: il massimo lo tocca con i particolari di occhio/bocca in rapida successione, inframmezzati dal volto della friulana, spiegabili solo in quel sistema di omaggi al cinema pre-bellico fini a se stessi.

Le immagini scivolano via pleonastiche avvolte in un oceano di ovvietà rassicuranti, preparando il finale che faticosamente (ma questo è un pregio del film che ottiene in questo caso quello che persegue: il ritmo si cadenza sui tempi della narrazione; lo ribadissero soltanto qualche volta di meno ci sentiremo più considerati come spettatori e non avremmo la tentazione di far cadere l'assunto, per cui è sufficiente una storia da narrare, ma soprattutto qualcuno a cui narrarla) assomma alla edificante storiella sul paradiso, tratta dallo spot della Lavazza, la retorica sugli ottantotto tasti commisurati all'infinità di tastiere del nuovo mondo, che impedirebbero di scegliere una melodia, una strada, una donna, soprattutto il modo in cui morire. E qui vengono fuori gli anni trascorsi da Baricco a lezione da Vattimo: la destinalità che fa capolino nei momenti diminor tensione e quindi colpisce maggiormente (trascorso il climax che ricaccia Novecento sulla scaletta si dice: "Da qualche parte nella sua testa quelle note erano scritte da sempre") e l'essere per la morte heideggeriano si banalizzano nella consapevolezza di non avere più futuro e quindi rinchiudersi nel proprio microcosmo produce l'unica rivendicazione di una morte dignitosa, la stessa che più poeticamente pose fine alla esistenza della Ilona di Alvaro Mutis, malridotta da Cabrera. La sensazione di posticcia operazione letteraria è confermata dalla costruzione della sequenza: Tornatore riprende l'abbraccio tra i due musicisti dal basso, poi mellifluo spara il messaggio: "Solo tu sai che sono qui, sei minoranza: adeguati". Si svela l'intento: bisogna adeguarsi, rientrare nei ranghi, smettere di sognare e di inseguire fantasie poetiche; ora bisogna prendere coscienza che non si può più rispondere anarchicamente "in culo il regolamento". Tutto è falsificato e per suffragare l'ipotesi si accentua la percentuale di recitazione evidente: l'inquadratura dal basso si sposta in semiplongèe ed il centro della sala macchine si trasforma in un palcoscenico su cui Novecento recita il proprio de profundis, ovvero la definitiva conclusione dell'epoca del jazz.

Rimane la matrice del disco presso un rigattiere, che baratta una storia per una tromba: chissà cosa avrebbe detto Miles Davis?