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Character - Bastardo eccellente
Anno: 1997
Regista: Mike van Diem;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Olanda;
Data inserimento nel database: 29-10-1998


Karakter di Van Diem

Character - Bastardo eccellente

Regia:Mike van Diem
Soggetto e Sceneggiatura:
Mike van Diem, Ruud van Megen, Laurens van Geels
tratto da "Karakter"di Ferdinand Bordewijk
Fotografia:Rogier Stoffers
Montaggio:Jessica de Koning
Musica:Het Paleis van Boem
Interpreti: Jan Decleir, Fedja van Huêt, Victor Löw,
Tamar van den Dop, Betty Schuurman

Formato: 35 mm.
Provenienza: Olanda
Durata: 2 ore e 4 minuti
Anno: 1997


Nelle prospicenze piovose del porto di Rotterdam Van Diem attraversa a tappe forzate la penombra fatta di tutti i toni del marrone rembrandtiano, per fermarsi nelle segrete della polizia: l'antro cavernoso si adatta alla lunga inquisizione, che gradualmente si configura come seduta psicanalitica, racconto di formazione, descrizione catartica di un duello edipico protratto fino al definitivo svezzamento: la ricorrente ossessione di assaporare indipendenza, con le sfumature ocra nel tripudio giallastro dell'altra Rotterdam, solare e ricca. Nell'intercalare dell'io narrante, che aggiunge all'atmosfera un ulteriore presenza incombente e soffocante, "Affrancamento" è difatti la parola chiave più ricorrente, che aggiunge il concetto di sudditanza e schiavitù alla rievocazione di una visione del mondo condizionata dai rapporti privi di affettuosità; paradossalmente Joba, la fiera e laconica madre, dà segno di sensibilità acutissima sotto la scorza di inespressiva freddezza dandogli del somaro sei mesi prima di morire, accorgendosi con un solo sguardo dell'amore corrisposto per Lorna e facendoci dubitare che, come fino a quel momento si poteva inferire, il film narrasse degli sprazzi di luce offerti dall'emersione dalla oppressiva influenza materna. Ma allora di cosa parla il film?

L'immersione nel flusso di coscienza è aiutato dalla disposizione degli inquisitori in controluce e dalla cupa soluzione luministica del carcere con macchie di luce, che inondano certi spazi alle spalle dei loro tre tavoli ma vengono inghiottite dall'antro, un'alternanza ripetuta nello scorrere del racconto con l'inserzione in momenti cruciali di lame di luce che drammatizzano il racconto (la morte del partecipante all'occupazione della fabbrica fatta sgomberare da Dreverhaven avviene tra sinistre luci espressioniste, che tanto bene si adattano al 1923, anno in cui è collocato l'intreccio dal romanzo del 1938 di Ferdinand Bordewijk) e isolano destinali segnali sull'esistenza, le cui tappe essenziali infatti ci vengono temporaneamente precluse da dissolvenze in nero, che verranno svelate solo in seguito: al primo mascherino che glissa sul salto del protagonista verso l'anziana figura paterna succede quella della porta del carcere chiusa alle spalle di Jakob bambino e cadenza il duello luce/ombra, che evoca la tradizione luministica dei fiamminghi, ma ancora di più attribuisce non solo influenze umorali alla presenza della luce sgargiante, ma anche indicazioni sulla strada da intraprendere (il sole che abbaglia sulla targa in ottone dell'ufficio legale): certo che è sicuramente più allettante lo studio legale inondato dalla luce rispetto al vicolo chiuso sul magazzino propostogli da Jan, l'amico comunista. Ma non è credibile che il film si limiti a proporre il conflitto sociale attraverso contrasti espressionisti.

Il braccio di ferro postale è solo il primo di quella che risulta essere l'unica forma possibile di rapporto tra le persone (e di narrazione filmica): il duello senza mediazione. Infatti la corrispondenza termina con un irrevocabile: "Non accetterò mai", la ex serva, usata sessualmente in un rapporto che non presuppone amore, pronuncia queste parole a rafforzare la lettera con una dignità pari alla persecuzione di Dreverhaven nei confronti delle insolvenze dei poveri. Nella figura materna, inutilmente emulata senza la stessa determinazione ("Non abbiamo bisogno di lui": la frase replicata dal ragazzino al primo scontro con il padre, non possiede la carica definitiva del tono di Joba), solo noi possiamo cogliere le minime debolezze della donna, testimoniate ad esempio dalla presenza del grammofono, evidenziato nella occasione del trasloco, probabilmente ad evocare quel colpevole abbandono ai sensi iniziale, che nella ripresa filmica è sostituita proprio dalla puntina tra i solchi del 78 giri, chiusa con la prima dissolvenza della vita di Jakob: un momento che segna la personalità della donna, legittimando la presenza di quel grammofono con un grado di emotività negato dalla maschera di rigidità. Altro oggetto meccanico che affascina padre e figlio è la macchina da scrivere, un attrezzo col quale imporre la propria volontà e la propria concezione spietata di legalità. Eppure sarebbe riduttivo esaltare la precisione della ricostruzione attraverso il recupero del design come elemento drammaturgico.

Trattenersi dal perdere il controllo è un altro insegnamento, disatteso apparentemente ("Questo è quello che pensa lei"). Invece informa l'intera esistenza del povero Jakob, che concepisce la vita come una sequenza di prove ed insegnamenti, avendo la percezione di raggiungere tutto ciò che si prefigge, senza avere nulla: comprendere non significa assumere in sé; nel suo caso acquisire non vuol dire capire. Accresce la sua conoscenza attraverso lavori precari, iniziative, prove alle quali è sottoposto, però non riesce a cogliere quello che esula dalle regole ereditate quasi cromosomicamente. Tutti nella famiglia vivono in questo limbo di mesto successo di un Franz K. che s'aggira per il porto di Rotterdam: ottengono ciò che volevano, ma rimane la tristezza priva di grazia della consapevolezza di non essere in grado di godere dell'esistenza a seguito forse proprio dell'impegno a non piegarsi: una legge morale che preclude la redenzione. Persino incarnare la figura del boia dei poveri è vissuta come condanna, un compito da adempiere, che produce incubi, ma non si scorge un'alternativa alla rigidezza delle regole comprese nel medaglione da ufficiale giudiziario. Però ognuno caparbiamente persegue i suoi obbiettivi: Joba non si piega ("Non abbiamo bisogno di lui"), Dreverhaven educa a distanza il figlio, forgiandone il carattere e improntando la propria vita sul duello con Jakob che riesce a conseguire ciò che gli era destinato ("Nessuno mi può contrastare" può essere l'inno di tutti gli arrivisti mondiali), però non è in grado di comprendere quello che gli capita nella vita e quindi a goderne, come Joba non riesce a tenere a distanza l'ufficiale giudiziario, il quale non può tacitare del tutto la coscienza, né per la sua brutale concezione di autorità e regole, né per il rifiuto a sposarlo opposto da Joba ("Quando ci sposiamo?" è il suo tormentone, che ossessiona lo spettatore nella estenuante ripetizione dei volti di postini: una sequenza, che restituisce il senso di periodico e noioso disturbo attraverso una serie di inquadrature al contrario stringate e rapidissime) e soprattutto non riesce a manovrare completamente il figlio. Forse la disamina del fato di ognuno può raggiungere il cuore del film nascosto sotto la precisa riduzione cinematografica del romanzo, restituendo il giusto rilievo a quella che è la figura centrale, nonostante la struttura narrativa, insistendo sull'io narrante, apparentemente sposti l'attenzione sulle sofferenze di Jakob: la figura tragica in senso greco è quella di Dreverhaven.

L'oggetto che incombe nella memoria dello spettatore per tutto il film è il coltello piantato sul tavolo a dividere i duellanti: e siamo portati a considerare scontato un epilogo e dunque ad attribuire un senso al racconto, al quale il finale assesta un ribaltamento, sostituendo la centralità di Katadreuffe con la figura più determinata di Dreverhaven; non è dunque un racconto di formazione ("Quel ragazzo l'ho strozzato per nove decimi, ma il decimo che gli ho lasciato lo rafforzerà"), ma di affermazione della volontà sulla base di un rigore che trascende la metafisica, lasciando trasparire nei sottotoni la trasformazione di Katadreuffe in una pura immagine riflessa di Dreverhaven, a lui va la completa eredità, ma non si tratta di quella monetaria ("Può darsi che gli porti via anche quel decimo"). Il duello si risolve con la dissoluzione dei deuteragonisti in una figura unica in grado di riassumere le tensioni di un periodo storico, esaltando la tragica figura del baglivo, che non a caso incrocia più volte la vita del figlio, come un'allegoria, un retaggio, una condanna che travalica quella da cui è scagionato (al contrario di quanto ci aspettiamo per tutto il film, certi della sua colpevolezza e pronti a giustificare "per ragioni umanitarie"). Allora, ripercorrendo a ritroso il racconto, come suggerisce la struttura a flash-back, bisogna rileggere alcuni episodi del film dal punto di vista del personaggio del padre, che si rivela alla fine non essere monolitico: col suo gesto finale si sottrae al rimorso concretizzato nel vivido incubo del linciaggio sacrificale, riproposto nella realtà con un lieve slittamento dell'epilogo (l'ennesimo dopo Sliding Doors, Lola Rennt); le poche volte che si scatena la vividezza della luce non riguarda mai l'uomo condannato a convivere con il proprio personaggio nell'oscurità dei magazzini o sulle tenebrose barricate e quindi si configura come eversione utopistica del figlio, quella è la vera ribellione, benché fittizia, perché così debole e banale rispetto alla formidabile possanza della furia dirompente di Dreverhaven, quello che nel vicolo lancia la sfida del coltello ("Altrimenti cosa?"), venendo poi riassorbito repentinamente nel suo turbine di contrasti che lo muovono al servizio del terribile medaglione: "Temerarietà o tedio della vita, coraggio o indifferenza?".

Insomma si può lasciare ad una prima lettura la centralità del romanzo di un bastardo eccellente, deludente e sconfitto nel confronto con i titanici genitori ("Ora avevo tutto, ma al contempo non avevo niente"), ma la pregevole e stucchevole storia nasconde turbamenti più profondi, uno in particolare: Dreverhaven incarna il peggio degli istinti reazionari del potere, suo malgrado? La sua coerenza, non imitata dal figlio (egli sa che "un debito è un debito", ma non impedisce al suo mentore di fargliene dono), è relegata in un'altra epoca, perduta (per fortuna?) irrimediabilmente?