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La parola amore esiste
Anno: 1998
Regista: Mimmo Calopresti;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 08-05-1998


Untitled

1. Mania delle strisce come Nicholson in Qualcosa è cambiato, ma con una partecipata sofferenza: meno gigionesca l'interpretazione e la ragazza disturbata invece realmente, "frenata" dice lei.

Il film ha un fondamento nella ossessione del personaggio di Valeria Bruni Tedeschi, base che viene alternata, per un paradigma di cosiddetta realtà, con le beghe amorose dell'amica, dotata di madre separata e con una vita sessuale pubblica e turbinosa. Alcuni cartelli cadenzano inoltre il delirio tranquillo, ma non per questo pacifico, didascalie (che non hanno nulla di didattico) a commento delle sequenze e coincidenti con i testi delle poesie trascritte ad uso di Bentivoglio, che accompagnano questo lento declino nella follia; "caduta libera" la definisce il medico della clinica, che mellifluamente vuole che il paziente si affidi senza remore (e noi percepiamo nei confronti di questo atteggiamento falsamente comprensivo la diffidenza, quanto giusta!).

Gli haiku, così leggeri eppure costretti da regole ferree, aleatori e proprio perciò matematici si adattano alla trasognata ragazza e permettono di transitare dal piano delle regole ossessive che permettono l'interfaccia con il mondo a quello dell'avventura affidata ai bigliettini.

Si può leggere il film come costante contrasto tra differenti regole, più o meno libere e ferree, tra haiku e righe da non calpestare alla ricerca di un sentimento che regoli la vita diversamente, del bandolo perso nei meandri di una mente lucida, eppure offuscata dai suoi filtri percettivi?

2. La sua esistenza ha bisogno di regole (il bianco va passato a destra, il rosso è amore) che danno un aspetto al mondo, le permettono di vederlo (interpretarlo) e dunque non sa se vuole davvero liberarsi di quelle norme convenzionali ("non vengo da lei per cambiare" dice all'analista); più avanti dirà di avere paura di non esistere più senza linee (e la vediamo giocare alla settimana in un rigurgito di infanzia più volte utilizzato dal cinema). Perché Mimmo pone in discussione il bisogno di non rimanere intrappolati in quegli invisibili fili che già in Il Grande Cocomero della Archibugi (senza la stessa intensità né la morbosità della presenza della malattia) denunciavano la presenza di un disagio?

2=scissione, solitudine (come 11); 3=amore; 26=Dio. L'universo pitagorico viene sciorinato a uno psicanalista distratto, interpretato non a caso dal regista stesso: per problemi di budget o, più probabilmente, perché, in un film così attento ad intrecciare tutto, si segnala che l'uso fatto dagli autori dei propri personaggi normalmente è simile a quello di quello psicanalista, che giudica, confonde esistenze: la usa. Il sistema pitagorico agiva di concerto con l'ossessione per la destinalità, in questo caso è alluso per regolare il lento scivolamento nell'abbozzo di apertura della ragazza del film di Calopresti, che aiuta a spingere un'auto senza benzina? E quanto ha importanza il fatalismo nel film e invece quanta ne ha la cabala, che ognuno di noi gioca a fare di fronte ai numeri e alle ricorsività della vita quotidiana? Forse lo spettatore (o solo la mia dissociazione è paragonabile?) riesce a sentire la comunanza di alcuni meccanismi con la protagonista più che con altri film.

3. La protagonista del film di Calopresti rimane colpita dall'esposizione di identità di Marco Recanati (Bentivoglio) al citofono, svanito musicista, ma almeno certo della propria esistenza? Infatti il montaggio connette la fine del primo incontro con la asserzione dall'analista: "non ho il diritto di usare certe parole come 'sicuramente' e per non usarle cerco di non farmi venire in mente il concetto tabù". Tutto ciò dopo aver detto: "mi piacerebbe innamorarmi" (il lavoro non è sentito come un'esigenza, a dimostrare che quando non si hanno problemi economici, non si sente la disoccupazione come una mancanza) spostando quindi il senso dell'esistenza in direzione della ricerca di un sentimento. Perché? É più pacificante? per ottenere serenità? o per un'esigenza di perlustrare l'universo della confusione personale più profonda e meno palpabile della scelta di estroversa introversione di Moretti? É più politico recuperare il rapporto con gli eventi mondiali facendoli mediare dalla nascita del proprio figlio, o dimostra maggiore impegno la ricerca della propria unità (il 2 e l'11 sono negativi perché significano divisione e la chiave rotta va riunita al pezzo mancante) attraverso un'unica certezza, il bisogno di innamorarsi come motore di una possibilità di esistenza? L'impegno sociale si coglieva persino di più in Le persone normali non hanno niente di speciale, dove l'attrice svolgeva lo stesso ruolo, ma spostando l'interesse (e l'amore) su altri da sé come sfogo per contenere il proprio affanno.

Questo aspetto sembra in Calopresti sfumare nel dubbio del medico (quindi data l'attribuzione forse non condiviso dall'autore) che esista un amore che guarisce e uno che fa grandi disastri. La sua asserzione scatena la rabbia ansiosa della giovane che sbotta in un "come vi permettete di giudicarmi". Appunto: amore non prevede giudizio, distinzioni tra giusti e sbagliati modi di amare e tanto meno ha maggiore valore il soffocante bisogno di amare del film francese rispetto a quello di essere amati di La parola amore esiste.

4. Compreso tra la didascalia "Pensare a chi non pensa a voi" e il testo del bigliettino successivo "Triste e sfaccendata mi sorprendo a contemplare il cielo" viene condensata la paura di essere trasparente al mondo, che esploderà in casa della madre in modo tanto palese da condurla alla scelta di trascorrere un periodo in clinica: infatti in questo capitolo del film è racchiuso l'episodio del mendicante che nella questua la salta. "Non mi permette di aiutarlo" è il commento indispettito.

La maestria discreta di Calopresti si nota nel fatto che Bentivoglio/Recanati distrattamente legge il biglietto sulla contemplazione del cielo, la cui conclusione recita "e tuttavia lui non ne discenderà", subliminalmente (e senza rimarcature esagerate) si immedesima (giustamente, ma lui non lo sa ancora) e proseguendo la disputa telefonica completa: "Mi sento in cielo e magari ne discenderò", offrendo una garbata prolessi di quello che avverrà.

Può sorgere il dubbio che Mimmo, figlio non unigenito di operaio torinese militante di L.C. nella Torino degli anni 70, abbia a tratti avuto la tentazione di calcare la mano per ironizzare sui voli pindarici di questa ricca nullafacente (e per questo in crisi) e poi si sia trattenuto per pilotare il film sul piano dello scandaglio più atroce della sua psiche, mettendola a nudo senza indulgenze e in questo modo da un lato impietosamente le nevrosi producono un personaggio scostante, ma dall'altro quale dolcezza e tangibile impulso ad offrirle amicizia!

Come si può non partecipare del turbamento di Valeria Bruni Tedeschi a vedere il numero 11 sulla sua porta, lo sgomento e poi la carica per ribellarsi a quell'affronto alle sue regole?

5. Jung si adatta meglio di altre scuole alla ricerca intrapresa dalla giovane interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, perché consente di mettere insieme tutto: "morti, sogni,... tutto". Per il film è preludio alla ribellione, che forse è l'aspetto maggiormente interessante per Calopresti. Infatti la giovane sbotta in un "Non sono qui per essere giudicata", sparato in faccia all'analista durante la seduta precedente a quella in cui lui palesemente la confonde con un'altra cliente.

Intanto sul fronte dell'amore per il musicista il nuovo bigliettino, sempre ricavato da un haiku e apparentemente innocuo e vacuo confessa: "Dopo il nostro incontro mi accorgo che non pensavo a niente".

Mimmo ha scelto gli haiku, perché sono a prima vista distanti, fuori dalla realtà, alla ricerca di un equilibrio naturale, eppure costituiti di una sensibilità universale, che è sufficiente spogliarsi delle convenzioni e si possono intendere, oppure per rimarcare la distanza tra la sensibilità della ragazza e quella della maggioranza delle persone "normali"? E il loro recapito a quel tipo di interlocutore, altrettanto dissociato, benché capace di riconoscere e controllare le proprie pulsioni, viene considerato attendibile ("mi hanno aiutato molto" dirà delle poesie nell'epilogo in auto), perché è lo stereotipo del musicista stralunato e quindi più vicino alla sensibilità di un personaggio alla ricerca di un'identità per il proprio io diviso tenuto insieme dalle regole maniacali? Che il film sia un altro modo, meno banale, di associare genio e sregolatezza?

"Onestamente lei non è capace di amare e maschera nevrosi dietro la parola amore" è il verdetto dello psicanalista, forse l'unica vera, sottile, amara polemica del regista stigmatizza senza livore l'apodittico atteggiamento superiore dei "normali" ed in particolare degli addetti alla psiche altrui, i quali si fermano alla superficie ("regressiva perché vorrebbe concentrare su se la stessa attenzione ossessiva che lei ha per i numeri"), ma non immaginano il gorgo di panico nascosto dietro a ciascuno e ai più deboli soprattutto. Quelli che si sentono perseguitati dall'indifferenza.

É un ricco film, zeppo di tanti, diversi e sottili argomenti trattenuti insieme dalla parola amore, che "si può dire forse solo due volte nella vita" ed è presenza paradigmatica, che si avverte solo in negativo rispetto all'esperienza di abbandono vissuta dalla ragazza; forse il tema che più ha motivato il regista si può individuare nella paura di vivere nella più totale indifferenza degli altri e avvertire nel comportamento di chi ci circonda che invece è proprio così. E l'unico antidoto è scoprire un soggetto su cui riversare amore o dal quale predisporsi a riceverne: una fervida credente nel dio amore ("Credo nell'amore" dice all'amica che sceglie la ovattata sicurezza della clinica); da cui il titolo, azzeccatissimo.

"Quando mi guardi l'uomo che avevo incrociato si era perso nella nebbia". Un buon preludio al capitolo più vicino a La montagna incantata di Geissendorfer, tratto da Mann: descrive la convivenza delle due donne alla clinica e al legame che si avvicina al concetto di amore, ma non è la passione che la ragazza va ricercando presso Marco per sentirsi viva, piuttosto è un accompagnarsi tra persone che si riconoscono, si annusano simili e questo permette loro di non andare alla deriva (Sara al commiato dirà: "ma adesso ci sei tu che mi verrai a trovare"). Quello che rende commovente la sequenza finale è l'estremo tentativo di abbarbicarsi al proprio sistema fatto di regole, costruito sul proprio solipsismo ("non mi serve niente, non ho bisogno di niente" con una ridondanza del concetto che ribadisce la disperazione e la paura di indovinare l'imminente cambiamento nella sua vita), negandosi anche la gioia di riconoscere l'amato disponibile a concedere un sentimento insperato e lui che scolpisce la descrizione della figura di lei con pochi aggettivi: chiusa, scostante, dolce, fragile, sancendo il suo interesse e la possibilità almeno per un po' di ingannare quello che la ragazza definisce "l'unico problema", la solitudine. Che è un altro modo di chiamare l'indifferenza, un falsopiano ("ancora un piccolo pezzo e ci siamo").

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