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Dolls - Marionette
Anno: 2002
Regista: Takeshi Kitano;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 04-12-2003


La grande guerra

Dolls. Takeshi Kitano. 2002. GIAPPONE.

Attori: Miko Kanno, Hidetoshi Nishijiima, Tatsuya Mihashi, Chieko Matsubara, Kyoko Fukada, Tsutomu Tageshige

Durata: 113'

 

 

Tre storie. Per un matrimonio di convenienza, un ragazzo è costretto a sposare la figlia del suo capo, abbandonando la promessa di matrimonio fatta alla sua precedente ragazza. Il giorno delle nozze, venuto a conoscenza del tentato suicidio di questa, torna da lei, ormai priva della ragione, e la lega a sé con una corda. La coppia incomincia a vagabondare. Un anziano boss della yakuza decide un giorno di tornare nel luogo dove molti anni prima aveva lasciato la sua donna, e scopre che questa è ancora lì ad aspettarla. Un fan di una giovanissima cantante pop, una volta venuto a conoscenza dell’incidente quasi mortale che ha coinvolto il suo idolo, decide di privarsi della vista una volta che questa ha scelto di non farsi più rivedere in pubblico.

Rifacendosi ai classici della sua terra (il teatro Bunraku e le storie del drammaturgo Monzaemon Chikamatsu), senza la quale piena cultura è difficile raggiungere la miglior chiave di lettura del film, l’ultimo lavoro del difficile regista nipponico è un viaggio onirico attraverso le maglie dell’amore. Tre storie, all’apparenza diverse fra loro, s’incastrano come le forme di un quadro di Picasso (paragone dello stesso Kitano in un’intervista di Pier Maria Bocchi apparsa su Film TV) dai colori sgargianti e fortemente simbolici (la fioritura dei ciliegi e degli aceri sono immagini e dipinti che in Giappone accompagnano il senso della mortalità e della fragilità). Il lavoro, infatti, che ha Kitano anche nel montaggio, se sulle prime può sembrare didascalico e scontato (tutto in realtà è detto nei dialoghi delle marionette in apertura del film), man mano si decostruisce e ricompone in un discorso ben più ampio e complesso. L’amore, la follia dell’amore, la diversità del linguaggio dell’amore e la fatalità soprattutto (alla quale questa volta è consegnato un ruolo predominante) sono elementi incostanti ma comuni, contro i quali (o con i quali) l’uomo è costretto a convivere. È questo dunque il lavoro più musicale e drammatico del regista giapponese, i cui protagonisti sono dipinti dai bellissimi abiti di Yohji Yamamoto, collaboratore anche in Brother (2000) ma con diverso stile, che veste i due vagabondi come le marionette della tragedia classica giapponese, percependo la necessità contemporanea di portare in scena un lavoro moderno, descritto in un paesaggio che è il mondo, fatto di maschere e paesaggi che sono invece senza tempo. Non solo critica alla vana gloria materiale, che l’esaltazione dell’assurdità dell’amore disperde in tanti frammenti, ma anche senso di solitudine, che unisce per tutta la vita queste tre coppie di diversi amori. Abusando con lo zoom (non credo che sia solo un’impressione), le immagini e la storia nelle immagini sono riscattate da una fotografia calda, a tratti anche spiazzante. La presenza della morte è sensibile in ogni frammento della pellicola, in ogni fotogramma, presente nella lente che inquadra tutto quello che lo spettatore vede, fino all’ultima immagine, che vuole invece la speranza come una corda rossa che unisce i vagabondi legati sospesi sul tempo, una coppia di marionette che guarda all’abisso, e fissa lo spettatore. Una storia che torna alle origini della tradizione narrativa (l’ultimo cambio d’abiti dei vagabondi legati è un chiaro messaggio) ma che si chiude in se stessa, e che così solo può custodire il suo essere una storia. Non un’opera teatrale al cinema, ma il teatro come il cinema.

Citazione di Kitano nella camminata del boss della yakuza, probabilmente il regista se avesse recitato, come ha fatto in tutti i suoi precedenti lavori, avrebbe scelto quel personaggio.

 

 

Bucci Mario

        [email protected]