Dolls. Takeshi Kitano. 2002. GIAPPONE.
Attori: Miko Kanno, Hidetoshi
Nishijiima, Tatsuya Mihashi, Chieko Matsubara, Kyoko Fukada, Tsutomu Tageshige
Durata: 113'
Tre storie. Per un matrimonio di
convenienza, un ragazzo è costretto a sposare la figlia del suo capo,
abbandonando la promessa di matrimonio fatta alla sua precedente ragazza. Il
giorno delle nozze, venuto a conoscenza del tentato suicidio di questa, torna
da lei, ormai priva della ragione, e la lega a sé con una corda. La coppia
incomincia a vagabondare. Un anziano boss della yakuza decide un giorno di
tornare nel luogo dove molti anni prima aveva lasciato la sua donna, e scopre
che questa è ancora lì ad aspettarla. Un fan di una giovanissima cantante pop,
una volta venuto a conoscenza dell’incidente quasi mortale che ha coinvolto il
suo idolo, decide di privarsi della vista una volta che questa ha scelto di non
farsi più rivedere in pubblico.
Rifacendosi ai classici della sua
terra (il teatro Bunraku e le storie del drammaturgo Monzaemon Chikamatsu),
senza la quale piena cultura è difficile raggiungere la miglior chiave di
lettura del film, l’ultimo lavoro del difficile regista nipponico è un viaggio
onirico attraverso le maglie dell’amore. Tre storie, all’apparenza diverse fra
loro, s’incastrano come le forme di un quadro di Picasso (paragone dello
stesso Kitano in un’intervista di Pier Maria Bocchi apparsa su Film TV)
dai colori sgargianti e fortemente simbolici (la fioritura dei ciliegi e degli
aceri sono immagini e dipinti che in Giappone accompagnano il senso della
mortalità e della fragilità). Il lavoro, infatti, che ha Kitano anche nel
montaggio, se sulle prime può sembrare didascalico e scontato (tutto in realtà
è detto nei dialoghi delle marionette in apertura del film), man mano si decostruisce
e ricompone in un discorso ben più ampio e complesso. L’amore, la follia
dell’amore, la diversità del linguaggio dell’amore e la fatalità soprattutto
(alla quale questa volta è consegnato un ruolo predominante) sono elementi
incostanti ma comuni, contro i quali (o con i quali) l’uomo è costretto a
convivere. È questo dunque il lavoro più musicale e drammatico del regista
giapponese, i cui protagonisti sono dipinti dai bellissimi abiti di Yohji
Yamamoto, collaboratore anche in Brother (2000) ma con diverso stile,
che veste i due vagabondi come le marionette della tragedia classica
giapponese, percependo la necessità contemporanea di portare in scena un lavoro
moderno, descritto in un paesaggio che è il mondo, fatto di maschere e paesaggi
che sono invece senza tempo. Non solo critica alla vana gloria materiale, che
l’esaltazione dell’assurdità dell’amore disperde in tanti frammenti, ma anche
senso di solitudine, che unisce per tutta la vita queste tre coppie di diversi
amori. Abusando con lo zoom (non credo che sia solo un’impressione), le
immagini e la storia nelle immagini sono riscattate da una fotografia calda, a
tratti anche spiazzante. La presenza della morte è sensibile in ogni frammento
della pellicola, in ogni fotogramma, presente nella lente che inquadra tutto
quello che lo spettatore vede, fino all’ultima immagine, che vuole invece la
speranza come una corda rossa che unisce i vagabondi legati sospesi sul
tempo, una coppia di marionette che guarda all’abisso, e fissa lo spettatore.
Una storia che torna alle origini della tradizione narrativa (l’ultimo cambio
d’abiti dei vagabondi legati è un chiaro messaggio) ma che si chiude in
se stessa, e che così solo può custodire il suo essere una storia. Non un’opera
teatrale al cinema, ma il teatro come il cinema.
Citazione di Kitano nella
camminata del boss della yakuza, probabilmente il regista se avesse recitato,
come ha fatto in tutti i suoi precedenti lavori, avrebbe scelto quel
personaggio.
Bucci Mario
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