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immersioni spericolate nel ridicolo

Rassegna stampa su
Segreti di stato di Paolo Benvenuti

Goffredo Fofi, "Il Sole 24 ore", 31 agosto 2003, p. 38: Accade dunque che film importanti non vengano semplicemente capiti, riportati dai media alla loro dimensione primaria (è il caso di Segreti di Stato di PaoloBenvenuti, che non vuol essere solo una lezione di storia, ma anche di metodo, di lingua).

Ecco la cronaca di quel travisamento.

Morte di un bandito di Giuseppe Amato (1961 scritto da Giuseppe Berto con Francisco Rabal, Lea Massari e quel fascio della Muti di Albertazzi); Salvatore Giuliano di Rosi (1963, mitica fusione di reportage e tra i primi esempi di docu-fiction, come si affretta a ricordare Crespi sull'Unità); Il caso Pisciotta di Eriprando Visconti (1972, decente anche se reticente); Il Siciliano di Michael Cimino (1987, ricostruzione romanzata del bandito: sceneggiatura western scritta da Mario Puzo e Gore Vidal). Questi gli illustri precedenti per Segreti di stato di Paolo Benvenuti, che si occupa degli eventi legati alla strage di Portella delle Ginestre fino alla elezione di Mario Scelba a primo ministro il giorno dopo l'accidentale morte di Gaspare Pisciotta, che veniamo a scoprire non essere avvenuta per insofferenza al caffè, quanto a causa di un'"allergia" sviluppata nei confronti di un ricostituente americano introvabile in Italia, ma non in Vaticano.

Molti precedenti, molti anni... e nessuna verità per la prima strage di stato mai riconosciuta come tale. Eppure ogni volta che se ne parla, anche per l'innocuo Cimino, si scopre un nervo di una nazione mai stata democratica, figuriamoci popolare e non costituita da sudditi, perché se è vero che tutti sanno quante e quali ingerenze sono state perpetrate dagli apparati americani pochi hanno avuto la percezione quanto fin da allora, appena finita la guerra, fossero potenti gli apparati deviati di uno stato sempre stato fascista. E ricordare come Montini, non ancora papa - ma grazie a questi meriti sul campo si guadagnò i galloni -, abbia salvato Junio Valerio Borghese, poi famoso per il golpe dei primi anni settanta, ma soprattutto assassino della X Mas, e rinvangare quali legami intrattenessero il sostituto Montini, non ancora pontefice, lo squadrista Borghese, non ancora golpista, il segretario Andreotti, non ancora mafioso(?) e l'Oss, non ancora Cia, il popolare Don Sturzo, non ancora morto; sono operazioni che mettono in fibrillazione l'intero arco costituzionale (compreso il Pci migliorista, visto che Li Causi non si vide quel 1° maggio 1947, avvisato dalla polizia che non si ricordò di avvisare anche la folla, e che il "migliore" Togliatti, non ancora avvertito dall'attentato, ma già messo sull'avviso dagli americani, fu ben felice di rimanere per sempre opposizione socialdemocratica a tampone di qualsiasi velleità affrancatrice dal fascismo mai cacciato dal potere). Insomma un periodo pieno di "non ancora", ma nel quale si radicano tutte le imposizioni e gli intrighi degli anni a venire, mentre si chiudeva la pietra tombale sulle speranze nate dalla Resistenza.

Perciò abbiamo pensato di rendere un servizio al coraggioso Benvenuti, col quale avevamo intrattenuto una splendida chiacchierata dopo la proiezione dell'altro lavoro su un processo dove lo zampino clericale era solo più evidente, Gostanza da Libbiano ai 2 giardini di Torino, il quale ci era sembrato una persona onesta, pignola nella documentazione, attenta a realizzare testi godibili, senza cliché: e quale servizio migliore di una rassegna stampa, che compendi tutte le infami cialtronerie e le recensioni positive, nonché segnalazioni di siti come Misteri d'Italia che conteneva un articolo da "Repubblica" del febbraio scorso, in cui si parlava già di Oss e un altro con intervista a Casarrubea.

Un'ultima raccomandazione: indossate la tuta antivaccate, perché alcuni personaggi ne hanno dette di enormi e abbiamo affrontato (anche noi protetti a malapena dalla tuta) alcune testate veramente "difficili", una per tutte: il Foglio co-prodotto dalla famiglia Berlusconi e dall'amico americano.

E infatti cominceremmo da un articolo che esula apparentemente dalla materia più propriamente cinematografica (e che potrebbe sembrare che con il caso Giuliano/Pisciotta non possa avere alcun addentellato da spartire) apparso con incredibile puntualità domenica 30 agosto sull'Osservatore Romano e fa seguito alla affermazione di Benvenuti riportata dal Corriere della sera del 29 agosto: Ma anche il Corriere della Sera ha scritto recentemente sul cardinale Montini e suoi rapporti che teneva con i servizi segreti Usa in chiave anticomunista. Lo scopo era aprire un dibattito, e mi sembra ci stiamo riuscendo. Ma prima di addentrarci nella prosa allusiva gesuitica una premessa è doverosa: il film di Benvenuti si avvale di innumerevoli testi storici, compresi quelli di Casarrubea (che poi ha pensato bene di farsi un po' di pubblicità esagerando i contrasti con gli autori per rimangiarsi il ritiro della sua firma dai credits, prontamente riaggiornati da Procacci, come ci informa Maria Pia fusco su Repubblica del 29 agosto: «quando ci siamo accorti che il suo desiderio è il riconoscimento delal sua partecipazione, abbiamo reinserito gli scritti di Casarrubea nell'elenco delel fonti del film. Questo compare nei titoli di testa di tutte le copie che usciranno nelle sale», 60 copie ci informa il regista stesso dalle onde liberate di Hollywood Party, la trasmissione di radiotre), che hanno potuto essere suffragati dall'apertura degli archivi segreti americani che coprivano il periodo 1940-50,consultati da tutti gli storici seri, come Tranfaglia, che si è speso personalmente per dare una copertura scientifica al film (tanto che sul Mattino di Napoli del 30 agosto il sommario dell'articolo recita: «Il regista rilegge la strage del maggio '47 alla luce di nuovi documenti: «Ogni frase del film è dimostrabile». Tranfaglia: necessaria una revisione storica»). Nulla di particolarmente eroico da parte di Bill Clinton, poiché il top secret viene derubricato una volta passati 50 anni dagli eventi, se il presidente non ha nulla in contrario (e il primo ad avere qualcosa in contrario è stato proprio George War Bush). Di lì, come ha puntigliosamente notato Benvenuti accompagnando il suo film sulla ribalta della laguna, ha tratto spunto.

L'escusatio non petita dell'organo vaticano mira a contestualizzare per salvaguardare la figura del sostituto Montini, che viene fuori come pericoloso intrallazzatore: come al solito il piglio è quello che adotta il documento esasperando gli episodi - senza citarli - di intervento del futuro papa in chiave filoamericana ma mirando a offrire un'immagine di impegno antifascista, che già solo per il fatto che vada in qualche modo richiamato non è così cristallino, ma l'intento difensivo da qualsiasi notizia possa trapelare da quei documenti è palese in tutto l'articolo che indica l'intento esplicitamente in quel passo: "si vogliono evitare le opposte tentazioni dell'apologetica e della processualistica"; non è tanto l'apologetica, ma la processualistica (e il film di Benvenuti si fonda sugli atti e la ricostruzione processuale, conclusi con la morte di Pisciotta) che va evitata. Altra allusione interesante è al Nunzio che si trovava a Berlino a "farsi contaminare" e che può permettere spunti di riflessione con il modo che ha usato la Santa Sede con i suoi organi per censurare il film di Costa Gavras lo scorso anno, a paragone di queste allusioni che tanto bene si adattano a stigmatizzare quello di Benvenuti

Il venticinquesimo anniversario della scomparsa di Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI, è stato ricordato tra l'altro con la pubblicazione di alcuni documenti di origine americana, relativi ai rapporti a suo tempo intercorsi tra monsignor Sostituto e le autorità alleate negli anni bellici. Il giornalista ha reso un servizio sia alla memoria di quell'uomo di Chiesa sia alla miglior conoscenza di fatti e situazioni non certo di secondo piano per la storia d'Italia e dell'Occidente europeo nell'ora della sconfitta del Terzo Reich e della lenta liberazione della penisola. C'è incontrovertibile l'antifascismo del Sostituto, l'inclinazione liberale ragionevolmente progressista, la percezione dell'imminente pericolo sovietico su un'Europa devastata dalla guerra e poi dalla fame e dal caos.

Un Montini dalla parte «giusta» insomma, con le carte in regola per l'età democratica che ora si apre. Ma il lettore disattento potrebbe essere fuorviato da un certo taglio sensazionale del servizio e trarne l'impressione, a suo modo accattivante e facilistica, di un Montini al servizio americano, quasi di un «nostro uomo in Vaticano», iscrivendolo d'ufficio nei ruoli dell'intelligence alleata. Certo, un quotidiano anche il più accreditato non può aspirare ad essere un laboratorio di ermeneutica, e soggiace ai rischi tipici della storia contemporanea.

L'apertura degli archivi è giustamente reclamata dagli studiosi ed è un fatto di civiltà con la crescita della disponibilità delle fonti e la stessa generosità dell'accesso. Essa va tuttavia sorretta da alcuni requisiti elementari. Un certo distacco temporale dagli accadimenti, con il decantarsi delle passioni e degli interessi, è necessario se si vogliono evitare le opposte tentazioni dell'apologetica e della processualistica. Occorre poi un adeguato sviluppo degli studi, per assicurare alla ricostruzione degli eventi un minimo di contesto necessario al giusto dimensionamento dei fatti.

La critica esterna del documento conserva poi tutta la sua validità. Un reperto dei servizi informativi va preso, proprio per la tipicità dell'origine libera, con ogni cautela. L'intelligence per sua natura drammatizza le cose: in un rapporto diplomatico «classico» l'argomento è filtrato da una tradizione compassata e usualmente propensa a smussare spigoli e tensioni. I servizi, al contrario, fanno di ogni contatto un'allusiva captatio. Il prefetto ingrandisce nella sua corrispondenza col ministro i problemi di ordine pubblico per tutelarsi in ogni evenienza. Il poliziotto vede congiure e sommovimenti ovunque. Il diplomatico vanta crediti ed influenze. E l'agente segreto, com'è ovvio, tesse le sue reti, amplifica le sue potenzialità. Il documento come tale non è «vero» o «falso», ma esige di essere soppesato con cura, e spiegato nelle sue genesi e finalità.

C'è infine la critica «interna» del prodotto cartaceo che l'archivio conserva. Il diplomatico della Chiesa deve poter disporre di una intensità di relazioni che gli permetta al contempo di condannare le V-1su Londra ma di deplorare i bombardamenti a tappeto su Dresda o Amburgo. Non si tratta di ambiguità del bene. Siccome la Santa Sede non dichiara guerre e non rompe le relazioni diplomatiche con chicchessia, deve essere in grado di «parlare» con interlocutori che l'incessante voglia della storia le pone innanzi. Ecco perché un esame comparatistico dei giudizi su Montini, formulati dalla diplomazia delle grandi potenze, rivela un apprezzamento comune. Il che non significa che sia fascista e fa quel che può nelle contingenze effettive in cui si trova. Vede i rappresentanti delle nazioni, i giornalisti, gli uomini d'affari e sì, anche personaggi che probabilmente non vorrebbe frequentare ma queste sono le circostanze. Con tutti deve avere scambi di notizie e di opinioni, con un inevitabile tasso di contaminazione. Il postero, tranquillo nelle sue certezze, approva o condanna, illumina o denigra a suo arbitrio, ma altro resta la dura concretezza dello svolgimento storico. Al ricercatore piacerebbe magari un Nunzio Orsenigo tonante di condanne ed anatemi, ma non terrebbe conto che ne sarebbe scaturito solo il suo allontanamento da Berlino e la fine della sua missione. Le relazioni confidenziali coi servizi Usa, con un'Italia in pezzi e senza stabile timone, sono un servizio reso alla nostra nascente democrazia, per quanto disagevole oggi possa apparire. E d'altra parte, la santità in politica non è meno rischiosa e meno ardua dell'ordinaria pratica della carità: Montini ne è e ne sarà sempre del tutto consapevole.

"Ambiguità e processualistica" è non a caso il titolo dell'articolo che occupa l'intero taglio basso della prima pagina.

L'Osservatore Romano però con questo pezzo almeno riconosce che sono stati derubricati alcuni top secret dai documenti dei servizi segreti, in questo caso americani, ma persino nell'articolo di Luca Telese su Il Giornale del 30 agosto si può leggere che sono stati dissecretati anche gli atti del processo Pisciotta e quelli della commissione Antimafia, dimenticando quelli del Pci, mentre scopriamo dalla Aspesi - tormentata da "il Foglio" in modo gratuito - che quelli vaticani godono ancora del tranquillo manto della segretezza, ma si sa che i papi si scusano con qualche secolo di ritardo; documenti che possono essere interessanti per la luce nuova che gettano su intrighi, personaggi ed eventi che abbisognano di interpretazione (e questo è quanto si propone Benvenuti), una cosa che Valerio Riva, consigliere della Biennale, su "Il Giornale" stesso del giorno dopo non riesce proprio a fare e con i soliti toni adottati dalla destra getta una sfida grottesca a Benvenuti, che ha il pregio di pescare nel torbido, di fare gesti teatrali e gettare schizzi di fango che non potranno avere seguito, ma intanto all'imbecille che compra Il Giornale danno modo di farsi la sua porca opinione qualunquista.

Già nel titolo Riva chiede a Benvenuti di fare quello che Marini su Telekom Serbia non fa da mesi, sponsorizzato in questo proprio dal quotidiano del fratello del burattinaio di Arcore: "Il regista Benvenuti mostri subito gli inediti. Pago io le 20 mila fotocopie". il testo poi è un gioiello, una prova di sforzo per la tuta antivaccate, passata indenne anche di fronte a Kapò (il remake berlusconiano del vecchio Pontecorvo):

È ora di fare un po' di conti e di arrivare al dunque . Il regista Paolo Benvenuti va in giro sbragiando di aver realizzato il suo sciagurato film Segreti di stato fondandosi su 20mila pagine di documenti inediti. Ventimila è un numero che onestamente fa effetto. Anche se in verità, io ho il sospetto che per arrivare a quella cifra Benvenuti ci abbia dovuto infilare dentro pure le sue bollette del gas, della luce e dell'acqua degli ultimi dieci anni. Coomunque, lui dice anche che le pubblicherà tutte e ventimila in esclusiva in un prossimo volume della Fandango.

Questo spirito irritante e minatorio prosegue a questo punto coinvolgendo la casa editrice che non viene ricordata per averci dato tutte le traduzioni di Cheever, ma per il libro di Meyssan, trattato come semplice bufala, che automaticamente si estende all'intero catalogo Fandango e in particolare al libro del film da cui Benvenuti ha l'abitudine di far accompagnare la pellicola; come se fosse sufficiente il nome della Fallaci per distruggere il buon nome piduista della Rizzoli. Ma Riva è un paladino del pubblico, che a suo dire non ha capacità critiche (e questo lo accomuna a un altro notabile, il ministro del Niente Giovanardi: "Rivendico a mia volta il diritto di disprezzare questo modo subdolo di ingannare il pubblico più sprovveduto" - Il Gazzettino) e dunque potrebbe farsi abbindolare dal film, che contiene solo sciocchezze come la 65enne Cristina La Rocca di San Giuseppe Iato che da quel 1 ° maggio contiene una scheggia di granata (lanciagranate non in dotazione di Salvatore Giuliano, ma arma tipica della X Mas) tra il cuore e i polmoni. Sicuramente se uno è tanto imbecille da informarsi attraverso il Giornale, qualche incapacità critica deve pur averla e quindi Riva propone: una casa editrice come Fandango per pubblicare ventimila pagine di documenti avrà bisogno di qualche mese di tempo - e qui invece la cosa è urgente, se no la balla prende corpo, la gente finisce per crederci e il produttore Procacci ci fa sopra un mucchio di soldi - io che sono stato quello che ha scoperchiato il vaso di Pandora, lancio qui, pubblicamente, una sfida al regista Paolo Benvenuti.

La sfida è questa. In 48 ore da questo momento, Benvenuti fa fotocopiare (la cosa è tecnicamente più che possibile) presso un qualsiasi fotocopiatore di sua fiducia, queste presunte ventimila pagie di documenti inediti. il costo glielo pago io, di tasca mia. Sì, figuriamoci: di tasca sua forse non paga nemmeno il parcheggiatore abusivo che aveva preso per buono l'invito di Berlusconi di incrementare il sommerso quando Termini Imerese si imbufalì alla notizia di dover chiudere. Comunque Riva insiste più volte con la tiritera bauscia che pagherebbe lui. Mercoledì 3 settembre di mattina ci troviamo, lui con il pacco delle ventimila fotocopie e io con il denaro, all'Archivio Centrale dello Stato di Roma, all'Eur, piazza degli Archivi, negli uffici del vicedirettore prof. Aldo G. Ricci, e tutti insieme depositiamo in archivio, sotto l'occhio neutrale delle telecamere, i famosi ventimila documenti inediti in modo che dal giorno dopo tutti gli studenti e storici, italiani e stranieri, possano lilberamente consultarli e vedere se è vero quel che sostiene Benvenuti. Il consigliere, zelante lacché governativo, si trova all'archivio centrale fino alle 17,30 del 3 settembre e... non sappiamo come sia finita la bufala del "pago io", ora aspettiamo l'epilogo della farsa di "lei non sa chi sono io", poiché ha preannunciato che se alle 17,30 Benvenuti non si sarà presentato con il pacco dele fotocopie, io mi sentirò in diritto di andare alla più vicina tenenza dei carabinieri e denunciarlo per tentata circonvenzione di incapace. Stava pensando ancora ai lettori del Giornale?. Forse parla riferendo a se stesso, sicuramente non farà nulla se non agitarsi molto, come già preventivamente aveva sollevato un polverone spaventoso il 3 agosto, come aveva ripreso Il riformista, che raccoglie le dichiarazioni di fuoco del consigliere, quando rivela - sempre su "Il Giornale" che il film di Benvenuti sarebbe già stato designato per il leone d'oro, Michele Anselmi aveva in quell'occasione stigmatizzato le parole di Riva: Valerio Riva vede complotti dappertutto. Specie alla Biennale, dove pure è consigliere d'amministrazione (in quota centrodestra, formalmente in rappresentanza della Regione, in realtà per designazione ministeriale). Il ruolo che svolge, delicato e importante, suggerisce discrezione: sicché, una volta fatte le nomine e controllate le spese, un consigliere dovrebbe esimersi dal polemizzare pubblicamente con i suoi colleghi, il suo presidente o, peggio ancora, i direttori di sezione. Invece, rispolvera la teoria dell'intrigo sinistrorso. In altre parole, come nel 2002 con l'anticattolico (?) Magdalene di Peter Mullan, il vincitore della prossima Mostra sarebbe già bell'e pronto. La giuria dovrebbe solo ratificare una decisione presa a Ca' Giustinian. Così scrive sul Giornale. Quello che ci consente di avere un certo grado di sicurezza che si limiterà a sbraitare a vuoto come i suoi camerati di partito è che già un mese fa il "Riformista" rilevava: minaccia dimissioni che non dà, promette sfracelli, entra nel merito estetico di un'opera, facendo pesare il proprio gusto. L'anno scorso, per marcare il suo disappunto verso il di Mullan, disertò la premiazione finale dopo aver cercato di coinvolgere il ministro Urbani nella protesta. E nel frattempo, creando un certo imbarazzo ai colleghi consiglieri (il presidente Bernabè, Salvemini, Costa, Restucci), rilasciò dichiarazioni inviperite.

Già è grave che entri nel merito di una pellicola un consigliere che di cinema ne capisce meno di Stefano "maxibon" Accorsi (splendida la clip in taxi catturata da Ghezzi), ma poi che lo faccia in relazione a un film che non ha visto..., come da dichiarazione riportata su "Repubblica" del 28 agosto (articolo a firma Alessandra Retico): Far pensare che la strategia della tensione - ha insistito Riva - inizi con la strage di Portella della Ginestra è un falso. È un tentativo di falsificare la storia che non è andata così. Il film non l'ho ancora visto ma è l'idea di base che è sbagliata, ovvero quella di manipolare la realtà". Sicura la difesa del regista pisano: "Si tratta di un lavoro che avrebbero dovuto fare gli storici ma invece lo hanno fatto dei cineasti. Il mio unico obiettivo è che questa strage sia riconosciuta come strage politica affinché le famiglie delle vittime possano ottenere il risarcimento che gli spetta. Riva - ha concluso Benvenuti- evidentemente, oltre a non avere idea di come sia andata la storia, ha interessi politici a che la verità non venga fuori. Come nel caso del millantatore Marini, anche per Riva sono sufficienti i dettagli per pesare l'insipienza e l'imbecillità: basta leggere il post scriptum, fallocrate e sbruffone.

Giusto per non perdere l'abitudine al pattume proseguiamo con "Il Giornale": chi Luca Telese poteva intervistare se non l'emblema del pompierismo craxiano in campo sindacale ai tempi belli della svendita del movimento operaio? chi se non il componente dell'antimafia che meglio poteva orientarsi in quel ginepraio? Il presidente di quella inconcludente commissione, Ottaviano Del Turco, che per non dare adito a sospetti subito si autodenuncia, da pentito: Glielo dice uno che da ragazzino rubava la farina alla madre per farci la colla e attaccare i manifesti contro Scelba e i suoi 32 delitti siciliani. Sono nato in un mondo che avrebbe voluto trovare un unico legame tra polizia, Stato, mafia e ministri dc. Ma purtroppo, o per fortuna, non c'è. E poi è una serie di "non so", "non c'era nulla" (ripetuti in fotocopia anche al Corriere)... in stile con il tema. In compenso le reazioni di cui si dà conto si rimbalzano tra un "sornione" Andreotti - che non essendo un fanfarone di infimo piano come Riva, andrà a vedere il film - e di Giovanardi - il noto perito balistico che insiste a ribadire la tesi della bomba su Ustica esplosa dall'interno dell'aereo e che produce effetti come se entrasse dall'esterno - che spara un incongruente: «È un'infamia. Come se si dicesse che gli ebrei mettevano i nazisti sui vagoni», evidentemente un paragone scientificamente storico di uno che fa uso di acidi.

Gli altri interventi polemici sono dello storico Casarrubea, di cui abbiamo parlato, e sempre il gossip di cui è autrice la Fusco su Repubblica racconta di possibili interventi critici sul film da parte di Francesco Rosi. "Non so comoe nascano certe voci, - rintuzza Procacci, - ma non penso che Segreti di stato sia un film anti-Rosi, non ha niente a che vedere con il suo bellissimo Salvatore Giuliano". Ma ancora più veemente è la reazione del sindaco di Piana degli Albanesi che, in un completo e meritevole di encomio servizio apparso su La Gazzetta del Mezzogiorno del 30 agosto (probabilmente il giornale che sull'aspetto politico del film ha informato meglio; ovviamente non una riga rientra nel capitolo cinema), si scaglia contro la pellicola: La Strage di Portella della Ginestra appartiene solo al dolore delle famiglie che persero quei contadini. E alle comunità che subirono la prepotenza dei mafiosi e il tradimento dei partiti, molto più probabilmente quelli di sinistra che oggi ammantano, con maestria retorica impareggiabile, della loro versione antigovernativa e antidemocristiana qualsiasi briciolo di oggettività storica. Lo sostiene Gaetano Caramanno, sindaco di centrodestra di Piana degli Albanesi, nel cui territorio si trova il luogo della strage.

Secondo Caramanno: Non è oltremodo tollerabile che non si faccia luce sulla circostanza che i dirigenti locali e nazionali del Pci e del Psi sapevano che il primo maggio del '47 sarebbe successo qualcosa di grave a Portella. Era voce generale in paese e fuori paese che qualcosa di efferato stava per accadere. Così per quel primo maggio non fu presente il Segretario regionale del Pci, Girolamo Li Causi, tirato in ballo dalle rivelazioni dello storico scomparso Michele Pantaleone. Era sconosciuta la modalità: forse un attacco o una bomba. Ma non si fece nulla per evitarlo.

Poi la Tornabuoni, che ha il dono per lo meno di sintetizzare la trama pregevolmente senza aggiungere inutili aggettivi polemici, usa parole in conclusione di sinossi ma un film bello è un film, e il regista dice: "È un film sul pensiero e l'interpretazione, non sulla realtà; non volevo far credere di mostrare la 'verità'" che permettono forse di rivolgersi a Silvestri o Crespi - E lasciamo perdere ogni paragone con il Salvatore Giuliano di Rosi. Quello era un film miracoloso, che si appropriava di linguaggi (il reportage, la cronaca televisiva, il cinegiornale) ancora giovani, freschi, potenti, ricavandone un concentrato di cinema puro. Era in bianco e nero, e in Segreti di Stato la fotografia di Giovanni Battista Marras di tanto in tanto «urla» la propria voglia di essere in bianco e nero. Quella era un'epoca di grande cinema. Diversa dalla nostra. - e ottenere finalmente una recensione di un film, ma questo per noi lo ha già fatto Federica da Venezia: qui ci interessava mostrare in che modo si agitano le truppe della "informazia" berlusconizzata quando un media di massa come il cinema si occupa di storia in modo forse anche coinvolgente, sicuramente scomodo e "komunista".

Infine l'ultima provocazione: "Io non credo alla parola verità, credo all'interpretazione, sono un curioso. Mi incuriosisco di certe cose: perché la Chiesa ha paura del femminile, perché noi italiani siamo cattolici nei cromosomi, perché il potere politico ha avuto bisogno della criminalità organizzata per governare. Io mi rivolgo all'intelligenze delle persone: credo che siamo più intelligenti di quanto credono i nostri governanti, programmisti della tv e organizzatori culturali". 
Paolo Ottolina, "il Corriere della sera", 29 agosto.

Se volete respirare un po' di aria meno mefitica, ecco il pezzo di Silvestri promesso e apparso il 30 agosto a pagina 14 di "Il Manifesto": Non è fiction tv, non è un documentario, non è un film consumabile come gli altri. Segreti di stato, prima opera italiana in gara, è piuttosto un "requiem per cinque voci recitanti". Ma non perché tira in ballo Andreotti e il futuro papa Montini in uno dei più cruenti misteri d'Italia, la strage di Portella della Ginestra (dio stesso si arruolò nelle brigate Gladio, baluardo della democrazia: non ce lo ha già detto l'onorevole a vita Cossiga?). Non per la poderosa documentazione storica che il team creativo (il regista Paolo Benvenuti, e i cosceneggiatori Paola Broni e Mario J. Cereghino) così bene maneggia (compresi i volumi di Giuseppe Casarrubea, nonostante le polemiche), e sembrerebbe fatta per schiacciare, in 85' di noia giudiziaria audiovisiva, il più allenato dei filmgoers. Ma invece restano tutti inchiodati allo schermo, come si fa davanti a un testo che sa travestirsi da immagini visiva, psichica e sonora sorprendenti. Il gioco del montaggio, tra alea e ripetizione, i disegni alla Perry Mason di Loredana Ugolini, il suono in presa diretta che libera gli attori, come fece Salvatore Giuliano coi quattro cacciatori, dalla dittatura della sceneggiatura a chiave e mette il loro sistema nervoso e fonico a imporre le pause, la cadenza, la musicalità al testo. Le luci di Marras, che sono come il «sole» negli interni e «cannoni» artificiali negli esterni. Luccicanza insostenibile che resta il dato emozionale forte di quell'eccidio neofascista (ci fossero o meno, che importa, brandelli riciclati della X Mas, che mercenari del dollaro invece che della Sacra Patria, avrebbero almeno indicato a Almirante e Fini tragitti teorici meno ipocriti). E che solo la sensibilità di un cineasta sa rendere dato estetico complesso e polisenso. L'aggirarsi di Paolo Benvenuti sul sasso Barbato, sul cozzo Dxuhait, sui monti Kumeta e Pizzuta, carpire dalla roccia segreti di quel celebre 1 maggio e come lo scrutare dell'avvocato Antonio Catania tra la classe dirigente di quella parte della Dc che in quei mesi riempiva di ex fascisti l'esercito e il futuro Sifar, avendo per vero obiettivo l'isolamento dei propri «kennediani». Insomma il film fa paura e orrore (a quei pochi che polemizzeranno nei prossimi giorni o già sfottono senza averlo visto) perché è un film libero: quanto più verboso e parlato «silenzioso» come un quadro; quanto più didascalico e freddo, «passionale»; quanto più polemico, di religiosa intensità.» Insomma una sinfonia senza musica in sottofondo, uno strano oggetto non ancora identificabile, e per qualcuno anche brutto reticente, «pacifista» e pericoloso. Sa mixare documentazione filmata (anche materiali di repertorio) a rito teatrale, in percentuale egualitaria, 50% a testa, dunque dà una forma originale e misteriosa all'immagine. La sostanza conoscitiva (che le 5 voci soliste, cioè l'avvocato, il perito, il professore comunista, Cacaova e Pisciotta, recitano straniati) si fa carne, maglioncini eleganti, stile, cultura, rispettando la dignità fisionomica di fuorilegge, mafiosi, massoni, spie, mercenari regionali e perfino, certe componenti Dc, di livello nazionale, come la Padania non sa fare con nessun microcriminale di oggi e come in quei mesi, nel 1951, Freddi fece con Elsa Morante, critica radiofonica della Rai, cacciata via per non aver voluto fare apologia di una sua produzione «ma mi scusi tanto io non ne sapevo nulla». Al suo posto arrivò Rondi.

Secondo Samuel Fuller, Salvatore Giuliano (che lui conobbe nel '45) era un bandito più colto e raffinato di quanto non pensiamo. Probabilmente era lui la carta che i servizi segreti rooseveltiani avrebbero giocato per la fase numero due (contenimento dei comunisti? Secessione?) dopo la liberazione. Dal film il suo ruolo viene in effetti ridimensionato e mostruosizzato nello stesso tempo, proprio come i servizi segreti trumaniani avrebbero poi fatto via via con molti dei loro capri espiatori. Questo modo antimanicheo di fare storia dà fastidio. Come non voler essere «totalitaristi del visuale». Non divorare, alla marines, il territorio, la memoria. E poi scapparsene via col bottino. E Segreti di stato corre per questo il rischio del ridicolo nella sequenza che è già cult della ricostruzione - tramite figurine politiche Panini - del teorema che porta a Washington, al Vaticano, a parti della Dc la gestione dell'agguato in ogni sua componente. Un colpo di vento manda all'aria lo scudo Dc formato dalle carte. Stiamo lavorando. Non abbiamo ancora tutte le prove. Ma la pista sembra buona. Danilo Dolci a cui il film è dedicato sarebbe contento. Su Li Causi, forse, vorremmo un supplemento di indagine...

Infine, il film si ispira a Rossellini e Straub, maestri oggi immasticabili, testimonianza di un certo stile antico di costruire immagini che catturino il tempo e lo spazio, senza intrappolare nell'impasto anche l'anima degli spettatori. Credo che non ci sia cosa che irriti di più un sedicente agente della Cia, come Giuliano Ferrara, e tanti altri insigni esponenti della cultura nazionale che non se possono ancora vantare, di un film che non riesce a essere semplicemente hollywoodiano. Che manchi della ricetta di fabbricazione così facile da dire e così difficile da realizzare: suspence, costruzione dell'intrigo, mitizzazione dell'eroe che ti inchioda, disperazione quando l'eroe vacilla, happy end quando l'eroe, con un guizzo riesce a farcela.

Qui c'è tutto questo. Basta osservare. 1 maggio 1947, festa dei lavoratori nella piana di Portella della Ginestra, Palermo. E tripudio per la vittoria elettorale della sinistra nelle regionali siciliane di due settimane prima. Si attende Li Causi, il numero uno del partito... Dalle colline attorno sparano, con mitra, fucili, granate. 11 morti, 57 feriti, 27 secondo i dati ufficiali. Tutti contadini e militanti comunisti, socialisti, ma anche bambini.

Chi sparò? Perché? Fu una delle prime, tante, complesse, irrisolte stragi della nostra, appena nata, repubblica. E anche una delle operazioni più riuscite dell'Oss, i servizi segreti americani che toccheranno l'apoteosi con la schiacciante vittoria elettorale democristiana del 1948 e con il contenimento in chiave autoritaria delle democrazie greca e giapponese, e da allora in poi di tutte le nuove aree strategicamente chiave, soprattutto dopo il «disastro» cinese... In Italia si risveglieranno dal torpore, ormai chiamati Cia, solo trent'anni dopo, in un'altra situazione di «allarme rosso»... Dopo Francesco Rosi (l'aspro pamphlet Salvatore Giuliano) e Michael Cimino (il seducente affresco Il siciliano), anche Paolo Benvenuti, cineasta indipendente, ossessionato dal rito-processo (Confortorio, Gostanza da Libbiano) e dalla centralità del «nodo brigantaggio» nella nostra storia (Tiburzi), si rituffa nei documenti ufficiali, nei libri di storia, nella controinformazione, nelle testimonianze dei protagonisti, perché vuole trovare in quegli «8 anni che cambiarono il mondo» (con l'assassinio di Giuliano, il processo di Viterbo del `51 e l'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta), qualche strumento in più per capire il nostro presente e il nostro futuro. A cominciare dai dettagli. Per esempio la grandezza di una pallottola calibro 9 che è inferiore a quella di calibro 6.5.

Ma se volete proprio sapere cosa scandalizza di questo film è che si parli ancora di processi, di giudici, di regole, di leggi, di interrogatori a cui l'imputato addirittura dovrebbe rispondere e non far dichiarazioni senza essere interrotto. Di un mondo davvero finito. Antico. Preistorico. Il requiem è per quella Italia.

Ma non crediate di dover togliere di dosso la tutta: il meglio sta arrivando! Torniamo al Corriere della Sera e al 30 agosto, trovando in prima pagina il lancio di due articolesse di gran peso. All'angolo sinistro (calzoncini rosa) Tullio Kezich, già premiato su queste pagine, in occasione di un'altra grande prestazione; all'angolo destro (calzoncini neri) Aurelio Lepre, storico. Diciamo subito che non c'è partita, Kezich deve purtroppo cedere la cintura di campione subendo un KO alla prima ripresa: Non ho visto Segreti di Stato, con il quale la teoria generale del complotto come strumento d'interpretazione della storia si arricchisce d'un nuovo capitolo. Ma ciò che ne hanno detto i giornali è più che sufficiente per farmi decidere di non vederlo, quando sarà nelle sale. A questo punto non si capisce perché mai uno dovrebbe, seguendo lo stesso criterio, continuare a leggere l'articolo di Lepre. Spinti dalla pressione interna della tuta, proseguiamo: C'è veramente da preoccuparsi nel constatare con quanta disinvoltura sifa passare una ricostruzione cinematografica per un'indagine storica documentata (anzi documentatissima, se è vero che si danno per consultate anche carte che non sono ancora consultabili). In realtà il film non è un documento sull'Italia del dopoguerra, ma sull'antiamericanismo di oggi. Non ce la facciamo: dopo solo poche righe, la tuta mostra lacerazioni e fa sentire vibrazioni preoccupanti. Passiamo al pugile suonato Kezich... Non si può pretendere che tutti i cineasti siano Francesco Rosi, che nel suo Salvatore Giuliano (1962) evitò rigorosamente di inserire qualsiasi fatto non comprovabile, ma Segreti di Stato rischia di perdere ogni credibilità nel mescolare realtà e fantasia.

Vedi nella sfilata finale dei volti dei presunti responsabili di Portella, diretti o indiretti, l'inserimento di un personaggio estraneo ai fatti come Giulio Andreotti, la cui fotografia è stata salutata alla proiezione di stampa da un applauso che voleva dire: «Visto Belzebù? L'abbiamo beccato un'altra volta».

Comprendiamo il disagio di Kezich al risveglio brusco provocato dall'applauso e non possiamo che approvare le parole seguenti, di un pezzo in cui si improvvisa più storico che critico cinematografico (d'altra parte affiancato e atterrato dall'articolo di uno storico su un film che non ha visto): Per non parlare dell'immagine di Pio XII, che, dopo essersi visto mettere in conto l'Olocausto, rischia anche di venir coinvolto negli stragismi della mafia. Stai a vedere che con le prossime indagini si scopre anche qualcosa sull'inquisizione e sulle crociate. Saranno anche loro (così presenti nelle nostre amate radici europee) collegate alla chiesa cattolica? Guarda caso, proprio Benvenuti ne ha già parlato in passato.

"Riuscito o meno, il film di Benvenuti...": dlin dlon, avvisiamo il sig. Kezich che tra i suoi compiti ci sarebbe anche quello di decidersi se il film è "riuscito o meno".

Però i sentieri della storia e dell'invenzione della cronaca e della fantasia, della denuncia e dell'illazione devono restare ben distinti, altrimenti si rischia di buttare in pasto alla platea affamata di scandali delle mezze verità che a volte sono peggiori delle bugie. Ah, la saggezza di chi è nato prima! E non dimentichiamo che chi va con lo zoppo, impara a zoppicare. Per questo ci allontaniamo da Kezich e dal Corriere; rattoppata la tuta dopo le botte di Lepre, siamo pronti all'immersione più rischiosa.

Per introdurvi all'approccio del Foglio, dovete sapere che il pezzo di carta davanti a noi sprigiona energia negativa fin dalla foliazione, inspiegabilmente fatta di 2 fogli, uno inserito nell'altro, l'uno (esterno) numerato da 1 a 4, l'altro numerato separatamente da I a II, senza che quest'ultimo presenti controindicazioni di sorta a essere numerato insieme al resto del giornale.

Ma passiamo al sobrio e misurato approccio di un giornale qualunque di questa destra: in prima pagina, un pezzo che vorrebbe essere divertente e ironico e cerca di portare il discorso sull'iperbole. Ve ne riportiamo alcuni stralci quasi senza commenti, limitando ci ad annotare all'anonimo estensore che difficilmente in un metro di pellicola ci sta un quarto d'ora di proiezione a passo normale: Scoop di ciak - Trovato il metro di pellicola censurato a Benvenuti

L'elenco dei mandanti di Portella della Ginestra si allunga vieppiù. Tutto torna.

Scoop di Ciak. Dai sotterranei del festival di Venezia, il mistero della pizza scomparsa. Si allunga l'elenco dei mandanti di Portella della Ginestra? Non se ne abbia a male Valerio Riva, ma l'elenco fatto da Paolo Benvenuti, regista di "Segreti di Stato", non si ferma "a Pio XII, don Sturzo e Andreotti", si allunga di altri nomi. E c'è un altro bel metro di pellicola che lo dimostra. Trattasi di un bel quarto d'ora di cinema non ancora visionato perché tutto il metraggio è stato sottoposto a sequestro cautelativo dalla magistratura antimafia. Ma c'è comunque questo scoop di Ciak. Il mistero della pizza scomparsa è svelato. Ancora prima di baciare Totò Rima, Andreotti fece cazzacatummuli con Salvatore Giuliano (tutto torna). Andandogli sopra, a cavalluccio perché ancora erano picciriddi, Andreotti ordinò al bandito di aprire il fuoco sui gitanti comunistici convenuti nella scampagnata fuori Palermo con le bandiere rosse. Malacarne come al solito, Andreotti rassicurò Giuliano e Gaspare Pisciotta, per tramite dell'avvocato di quest'ultimo, Anselmo Crisafulli, probabilmente parente dell'attualmente inquisito Vladimiro Crisafulli (tutto torna), che all'operazione di fuoco avrebbero partecipato reparti specializzati della X Mas comandati da Junio Valerio Borghese previo accordo preso ad Arcinazzo, in quel di Ciociaria, con il maresciallo Rodolfo Graziani. Con quest'ultimo, infine, sarebbe venuto anche il giornalistico Mauro De Mauro, cronista del democratico giornale l'Ora già indicato come vittima della mafia, ma evidentemente non più vittima perché infiltratico [sic] tra i compagni e i tipografi perché reduce lui, della Repubblica di Salò (tutto torna) e per questo motivo interessato a impedire il successo elettorale del partito comunistico in Sicilia. (...) Secondo il racconto dettagliato del magazine, i magistrati Lo Forte e Scarpinato, assodata l'ulteriore colpevolezza di Andreotti, hanno finalmente individuato i veri e più potenti mandanti, non più occulti ormai, della madre di tutte le stragi: Cesare Previti e Silvio Berlusconi. Riva non se l'abbia proprio a male, ma l'elenco non si ferma. Quello che lui ingenerosamente ritiene un film comico è in realtà il libro aperto della storia d'Italia e non è un caso che Berlusconi, smascherato, abbia tentato una patetica manovra di accerchiamento in Consiglio dei ministri. (...) Scoperchiato con lo scoop il vizio d'origine, l'antimafia lavora alacremente e non sfugge al controllo neppure il "Cagliostro" di Ciprì e Maresco accusati di offrire copertura "al quarto livello" nella persona di Marcello Dell'Utri, la cui effigie è facilmente ravvisabile nelle fattezze del notorio mafioso criminale e negromante, il suddetto Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro. Nulla sfugge all'antimafia e anche le pizze del precedente film di Ciprì e Maresco, "Totò che visse due volte", è stato attentamente visionato dal pool perché evidentemente questo Totò che vive due volte deve essere Totò Riina. Altro scoop di Ciak. Nicole Kidman ha dato forfait a Venezia per protesta contro le strumentalizzazioni di Igor Marini: "Ho lasciato Tom Cruise, ma ho fiducia in Romano Prodi".

Ineffabili e isterici. Infatti, presi da grafomania e coazione a ripetere, la storia si ripete a pagina 4, ripetendo sostanzialmente le stesse cose in una pseudo-recensione di poche righe: SEGRETI DI STATO di Paolo Benvenuti, con Antonio Catania

Per il vecchio professore comunista (giacca da camera in velluto rosso, taglio di barba e capelli da padrone fantozziano) la strage del primo maggio a Portella della Ginestra non ha segreti Con un mazzo di figurine, ricostruisce l'intreccio dei mandanti, dei complici, dei fiancheggiatori. Arrivano le immaginette di Scelba, di Sturzo, di Andreotti (applauso complice del pubblico alla proiezione stampa), del Papa anticomunista, di Truman. Se ancora ci fosse un dubbio, le carte sul tavolo formano uno scudo crociato. Prima, Benvenuti ci ha sfinito con chiacchiere, disegni a carboncino con fumetto (in un film?), bossoli, perizie, scene fisse da processo, un Pisciotta uguale a Buzzanca giovane, contadini che interrogati rispondono con il nome, il cognome e pure il soprannome del "capomafia di Piana degli Albanesi".

E in uno pseudo-reportage nella stessa pagina: Festival

Ci scaldiamo i muscoli sperando nel ritorno delle polemiche politiche per il film "Segreto di stato", altrimenti qui si muore di diabete. Erano due zuccherini ieri sera da Marzullo (Venezia cinema e dintorni, RaiUno, ore 24) i registi ed (ex?) nemici ideologici Citto Maselli e Pasquale Squitieri. Squitieri, in collegamento telefonico da Parigi, disquisisce sui problemi del cinema italiano; Maselli gli dà ragione su tutto, tra lo stupore di Marzullo e di Giancarlo Leone (RaiCinema), memori delle sanguinose polemiche passate tra i due. Squitieri contraccambia pronunciando l'ex rivoluzionario Maselli "un pezzo della storia del cinema italiano". Maselli, arrossendo delicatamente, fa mea culpa per i casini d'antan e tutto il ciarpame sessantottino contro la Mostra, i premi, la mondanità, e l'esigenza che i film incassino qualche soldino: "Abbiamo dovuto cambiare molte idee da allora. Il cinema perde contro la tv; se premi e mondanità servono a promuoverlo, ben vengano!". Non avrebbe potuto dirlo meglio Berlusconi. (O tempore! O Moretti! Dove sei quando abbiamo bisogno di te?). Ma la lettura dei giornali e la soporifera conferenza stampa di Benvenuti, regista del film scandalo (magari!) sulla strage di Portella della Ginestra offrono solo minestre riscaldate. Donna Natalia ci prova sia per iscritto sia in persona a soffiare sul fuocherello, senza costrutto. Su Repubblica, oltre a lodi accorate al film didattico e didascalico, le esce solo un flebile "ha già fatto imbizzarrire tutti quelli che guai a toccargli gli americani, il Vaticano, la gloriosa e scomparsa Dc, e persino la Decima Mas e la mafia".
E nessuno s'incazza. Alla conferenza stampa s'alza lesta e cita la frase di Valerio Riva che il film è più ridicolo-comico che scandaloso, sperando in una risposta infuocata del regista da scrivere nel prossimo pezzo. Benvenuti la smonta con fair play, accettando le critiche come sempre lecite, e buonanotte ai suonatori. Non c'è niente da fare, i nostri muscoli si rattrappiscono: filiforme e felice, Donna Natalia ha perso la grinta. Sigh.

Con un vocabolario limitato (notare le assonanze con il pezzo in prima) e qualche tentazione fumettistica finale, si possono tranquillamente ascrivere gli anonimi alla stessa penna isterica e furiosa, una specie di istinto bestiale che spinge a ripetere la stessa cosa o, se vogliamo rimanere nel campo dei fumetti, la tipica scena di Bart Simpson che scrive sempre la stessa frase sulla lavagna, azione che da punizione diventa una sorta di auto-affermazione.

Per l'occasione, le mitiche pagine interne numerate romane ospitano anche un paginone sul cinema italiano che "si volta indietro a rinverdire i sogni della sinistra". Lanfranco Pace ci intrattiene per 6 colonne in un articolo evidentemente tenuto in caldo da tempo, a cui sono state aggiunte notarelle, anche queste ripetitive, sul film di Benvenuti. Avremmo voluto proporvi anche questo, ma la tuta ormai rischia il collasso e francamente anche allo scanner risparmieremmo il supplizio.

È interessante come susciti attrazione quel periodo storico immediatamente a ridosso della fine della guerra, quando gli Usa non avevano ancora "spiegato" a Togliatti che era meglio per lui se stava all'opposizione e i topi fascisti rimanevano nascosti nelle loro fogne in attesa di lì a poco di ritornare ai loro posti con l'onorabilità restituita all'innocenza. Infatti il prossimo romanzo di Bevilacqua (supercoralli Einaudi) va a recuperare una storia di cui non si trova più traccia nella memoria, non solo del web. La storia romanzata da Bevilacqua (persino pregevole) è quella di Ezio Barbieri, leader della rivolta di San Vittore nell'immediato dopoguerra che finì in un bagno di sangue; la prima rivolta delle carceri, che non chiedeva nemmeno l'indultino, bensì una forma di maggiore giustizia, quella per cui si era combattuto e vinto il fascismo. Ebbene, lì compaiono per la prima volta i servizi deviati, I "Consociati", che poi sarebbero diventati Sismi, Sisde, Sim,... quelli che subito dopo la repressione a Milano organizzarono in Sicilia il 1° maggio 1947 di Portella delle Ginestre.

Forse questa attenzione è dovuta al fatto che un governo esplicitamente fascista al potere impone uno sguardo storico e propone una revisione di quanto avvenuto non appena il passato regime omologo fu rovesciato. Forse è anche un'opportunità per la sinistra - se Marini riuscirà laddove Moretti e i girotondini fallirono: la decapitazione delle organizzazioni dell'ulivo, popolate più da incapaci che da corrotti - di proporre un dopoguerra diverso, dove i Scelba vengono messi nella condizione di non nuocere... e i Bondi, Schifani, Taromina a tacere.

Esperto in interrogatori, responsabile - si vociferava - di qualche morte sospetta, stava favorendo il formarsi della «Volante Rossa»: caso limite della tendenza a camuffare, sotto bandiere di giustizia sociale, azioni criminose indegne di una nazione civile. Negli anni seguenti, sarebbe stato uno dei più alti responsabili dell'Edificio Grigio che il Barbieri definiva il «Crematorio», dove gli uomini in grigio si sarebbero prodotti in piccoli capolavori di diplomazia sporca.

Affari Riservati (ma riservati a chi?): in linee rette, parallele, trasversali: mille deviazioni per creare la paralisi del vivere in pace, secondo le idee e la fede di ciascuno, come succede nel traffico dell'ora di punta, dove chi vorrebbe vivere in pace si mette a insultare e maledire. Il Serra avrebbe messo il suo sigillo nel «Sid», nel «Sismi», nel «Sisde». Gladio, lo Stragismo, la Babele P2 avrebebro conosciuto il suo apporto di Suggeritore, in certi casi i suoi metodi. Le sue impronte sarebbero state rilevate negli aAnni di Piombo, oltre che nel Cadaverismo eccellente: da Mattei, a Calvi, a Sindona.

Pierluigi Serra, la sintesi vivente di quarant'anni affollati di mostri.

(Alberto Bevilacqua, La Pasqua Rossa, Einaudi, Torino 2003)