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T.A. - Tuta Antivaccate
immersioni spericolate nel ridicolo

Francesco e Vezzoli e La voce umana...

Qualche volta le vaccate incancreniscono, sedimentano e si ripresentano a distanza di tempo, più venefiche di quello che furono a un primo approccio. Come dicevano gli antichi: in cauda venenum. Circa un mese fa, avevo lucidato la tuta anti-vaccate, il nuovissimo modello sarebbe, dopo qualche aggiustamento, riuscito persino a reggere l’urto delle canzoni napoletane di Berlusconi, “voce del padrone” edizioni, Vespa cagnolino scodinzolante, ma in precedenza aveva subito un collaudo altrettanto impegnativo: Francesco Vezzoli al castello di Rivoli. In realtà Shirin Neshat era l’obiettivo della mia sortita: intensissima produzione di video su grandi formati e moltiplicati su pareti che si rimandano e si richiamano, catturando da potenze telluriche la forza delle immagini, dei rimandi di sguardi, di masse disposte secondo evidenti traiettorie magico-religiose, gli afflati di libertà affidati al mare, ma anche al fuoco purificatore e agli altri elementi. Era la giusta fattura per quel tipo di suggestioni. Pieno delle immagini potentemente evocative della regista iraniana (che consentono una serie di bonus rinforzanti per la protezione della tuta), mi lascio attrarre dal piano inferiore. Lì tra il resto c’è End of the human voice di Vezzoli.

Vezzoli utilizza lo stesso sistema – il multischermo ormai precorre la scelta del racconto, perché già da qualche anno nei musei del mondo si sperimentano racconti che trascorrono da uno schermo all’altro – per fare un’operazione blasfema: mostrare l’interlocutore di La Voix humaine di Cocteau, collocarlo in una stanza e con un’angolazione che consente di vedere la donna abbandonata e l’amante ormai lontano. Già di fronte a questo la tuta si ribellava, ma conteneva i livelli di allarme, perché si poteva comprendere l’operazione, ma di fronte all’improntitudine narcisista dell’autore che si balocca con la cornetta, mentre la povera maschera antica di Bianca Jagger si strugge nell’altra stanza, recitando il testo di Cocteau, reso immortale cinematograficamente da Rossellini/Magnani, la tuta cominciava a dare in escandescenze, soprattutto perché le misurazioni davano pericolose infiltrazioni di noia, che non potevano essere perdonate, visti gli illustri precedenti. La tuta mi costrinse a lanciarmi contro le tende che isolavano l’antro da cui la Voce umana usciva vilipesa: non più urlo che rivendica l’amore, sapendo che è irrecuperabile, ma balbettio senza senso, esposizione oscena, a cui si sottrae il diritto alla dignità, che nell’interpretazione della Magnani veniva fuori con prepotenza, perché rimanevano zone d’ombra, precluse, anche se la donna si esponeva completamente, rimaneva una componente segreta. Che era il fascino di quella donna. Come potevo spiegare alla tuta lo scherno di Vezzoli, lo scardinamento del testo ottenuto inserendo la finestra che si apre sull’altro capo del filo: lei – per quanto elaborata – funziona per parametri e la situazione era al di là di ogni limite di sopportazione, soprattutto per un elaboratore come quello che sovrintende alla tuta, che immagazzina i dati classificandoli e comparandoli: quindi a lui è bastato un nanosecondo per ripescare il file del lavoro di Rossellini e due per decretare l’oscenità dell’operazione di Vezzoli.

Quella volta fui salvato dai razzi che mi scaraventarono fuori, all’aperto ad ammirare dall’alto il panorama bellissimo della sera che si stendeva sull’area metropolitana torinese [Nota del WebMaster]: riconciliato, mi sfilai la tuta e tornai a casa.

Avevo scordato il triste episodio grazie allo scampato pericolo – epilogo che fa dimenticare alla svelta –, quando arriva una lettera anonima di uno studente impaurito delle conseguenze che potrebbero derivare dalla fuga di notizie, se trapelasse il suo nome: il museo in collaborazione con il politecnico ha organizzato una serie di lezioni, tenute da “luminari”; il criterio di selezione degli esperti come sempre è oscuro, ma soprattutto risulta letale il tentativo di ricondurre a un senso gli sproloqui che si permettono di ammannire ai poveri ragazzi, che quando va bene sono sommersi da parole in libertà di una vacuità misurata dalle sofisticate apparecchiature della tuta in emissioni dannose per chiunque (il valore inquinante è paragonabile alle emissioni di Radio Vaticana), figurarsi per giovani in formazione senza la difesa di un apparato analitico già ben delineato. L’allarme della nostra giovane talpa mi ha indotto a indossare preventivamente la tuta antivaccate prima di immergermi nella lettura delle panzane pronunciate con accento padano e sintassi saltellante da Francesca Pasini; il gesto mi ha salvato la vita. Mi limito perciò a riportare lo stralcio relativo all’installazione di Vezzoli. Qualora, nonostante la modica quantità, doveste avere conati di vomito, accorgervi della perdita del controllo sul sistema vascolare, interrompete subito; se invece avete la sensazione di non riuscire a individuare nessun senso, allora non preoccupatevi: è proprio così, non siete voi gli anormali e neanche avete assunto sostanze allucinogene.

Francesca Pasini, sedicente critica d’arte, docente, apoditticamente ci informa con linguaggio forbito, di cui vi prego di apprezzare la struttura e lo sperimentalismo ardito delle espressioni e di quelli che apparentemente possono sembrare anacoluti e invece si tratta di una nuova forma di creatività (lo sto dicendo per rabbonire la tuta, che rischia di finire a brandelli sotto questa pressione):

“E qui invece – non so se voi lo avete visto a Rivoli – il video di Francesco Vezzoli, dove c’è un altro modo ancora di ripresentare questo rapporto col materno. Questo è un video, in cui c’è una storia abbastanza costruita di un legame sentimentale tra Francesco Vezzoli stesso, che è rappresentato in un altro schermo: cioè una doppia proiezione, Bianca Jagger che rappresenta la donna che insegue l’amore perduto e tutte le ambiguità e i sensi di solitudine che ci sono; in questo amore perduto io leggo, in questo inseguimento, una metafora del materno, proprio perché Vezzoli, usando il…, diciamo, come grimaldello la lente del divismo, le grandi dive, ma nel momento in cui le rappresenta nella loro realtà temporale, e la fascinazione di questo, e la sua dichiarazione rispetto a questo, è un modo di tentare di stabilire dei rapporti visivi con il materno rispetto a una simbologia molto più vicina a noi, che è la storia del cinema.”

Notazioni: non ha mai citato Cocteau, Rossellini, Magnani!!! L’approfondimento per quel che concerne l’installazione di Vezzoli si limita a questo scritto, riportato di nascosto da un torturato.


Nota del WebMaster
E' ora chiaro a tutti il rischio che corre chi si espone alle vaccate, anche dotato di tuta: è infatti semanticamente inaccettabile l'affiancamento in istesso periodo di "panorama bellissimo" e "area metropolitana torinese". La tuta è fatta così: a volte, per proteggere, è costretta a rifrazioni e distorsioni...

Nota sulla nota
Di solito, il torinese gode della vista dall'alto della sua città perché è quasi sempre impossibile riconoscervi la propria abitazione: si può così fugacemente immaginare di abitare da un'altra parte e sollevare lo spirito.