CHI NEGA IL DIRITTO A ESISTERE, LA FIERA O LA PROVOCAZIONE DI IMPORRE UNA RICORRENZA FESTOSA A CHI NE SUBISCE LE CONSEGUENZE DA SESSANT'ANNI?
Nessuno ha preso in considerazione a pieno il motore primo dell'orrore sionista: lo stato israeliano è confessionale a tutti gli effetti, persegue addirittura un traguardo biblico. Eretz Israel: il nazionalismo teocratico più fanatico possibile spacciato per "unica democrazia del medio oriente". Tutti vedono la longa manus di Tzahal, alcuni si accorgono dell'ambiguità linguistica asservita alla fedeltà all'idea dei potenti ortodossi, pochi si soffermano a considerare di quali demenziali e arcaici precetti fondino quella superstizione religiosa: se l'invasato scrittore del Libro fosse venuto in Italia probabilmente l'avrebbe definita Terra promessa e ci ritroveremmo gli aerei con la stella di Davide a bombardare "chirurgicamente" le enclave in cui gli italiani sarebbero stati rinchiusi, per consentire l'attuazione del folle disegno sionista.
Non lo ha sottolineato neanche il tanto temuto seminario Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina (Torino, 5 e 6 maggio 2008) - unica voce di dissenso nell'omologato panorama europeo, e soprattutto italiano, dove la residente comunità ebraica svolge ormai benissimo il suo ruolo di testa di ponte del governo israeliano senza alcuna autonomia, negata a partire dalla guerra del giugno 1967, quando le comunità nel mondo sono state ridotte a altoparlante del governo di Tel Aviv, capitale dello stato che ha imposto la scelta della Fiera del Libro di Torino e di Parigi (e siamo costretti a sottolineare che non è Gerusalemme la capitale riconosciuta dal consesso internazionale); nemmeno in quel consesso di "pericolosi estremisti" si è arrivati a mettere esplicitamente sotto accusa la serie di assurdi e arcaici precetti che impongono gesti e rituali separatisti per razza, sesso, religione che tengono insieme lo stato d'Israele e il suo governo di apartheid, l'unico regime del Medio Oriente così pervicacemente razzista ... poi ci sarebbe anche da discutere su come il presidente Napolitano - il presidente di tutti gli italiani che discende in elicottero su Lingottoland senza poter (voler?) avere contatti con qualsivoglia suddito non blindato o sventolante ideali bandierine ignifughe - abbia letto gli stessi testi che cita per fargli scoprire che il sionismo non coincide con l'appartenenza all'ebraismo: Losurdo al seminario torinese ha citato lo stesso Herzl, che si lagnava del fatto che il consiglio dei rabbini considerava il sionismo un fenomeno antisemita. Quel furioso nazionalismo che ha massacrato fin dal 1948 (seppure con le ambiguità del cinema di Gitai, Kedma lo denunciava chiaramente), che ha raso al suolo case, estirpato ulivi, stuprato donne, cacciato e incarcerato, fanaticamente perseguendo l'ideale di uno stato dove non tutti sono uguali, anzi ciascuno ha un livello di diritti diverso dall'altro, quel maledetto nazionalismo che rinfocola sempre la guerra, perché solo con quella può ottenere il suo spaventoso territorio biblico è peggio di ogni altro nazionalismo - già di per sé ignobile attentato alla convivenza - perché è ispirato dall'alto di una visione integralista religiosa, fondata sulla bibbia.
Il risultato più evidente è quel road-movie di Philippe Aractingi, girato in Libano usando le location offerte da Tzahal: le macerie vere di bombardamenti inventati su un pretesto come quello di due militari mandati in territorio altrui proprio perché venissero catturati, poi si è sostituito il gergo militare dell'espressione "catturati" con quello giuridico che li chiama "rapiti" (ma trattandosi di militari soggetti alle loro regole di guerra, dovrebbero mettere in conto che se sconfinano, vengono fatti prigionieri... e ancora gli va bene che non siano accusati di spionaggio!) e il gioco linguistico è fatto. Ecco, Sotto le bombe insegue mille storie vere, sempre le stesse di ogni guerra che colpisce i civili e lo fa mettendole sullo sfondo della vicenda principale: lo strazio di una madre alla ricerca del figlio seienne. Il plot è pretestuoso, perché l'intento è mostrare quanto più è possibile dei sentimenti e delle situazioni che capitano sicuramente in quelle contingenze di fatti luttuosi e questo è un po' il limite del film: volerli documentare tutti, allungando il brodo, dando spazio alla fiction quando si propone come bassorilievo sulle macerie, come se fossero figurine familiari a cui attribuire la realtà delle moltitudini sullo sfondo bombardato e attraverso di loro affrontare ogni tragedia legata alla guerra, usando uno sguardo-obbiettivo come in genere è quello di chi si trova immerso in un road movie, tranne alcuni episodi. Per esempio la camera a mano adatta a cadenzare la ricerca del cadavere della sorella nella fossa comune, di cui si percepisce il mefitico odore, la vertigine che accompagna... e accanto il momento della rimeditazione e della commozione, dove anche il taxista ha il suo primo cedimento nella sua maschera rapace; proprio lì di nuovo si affaccia la religione, un'altra rispetto a quella che ha dato origine: gli sciiti hezbollah a cui la sorella defunta non avrebbe mai aderito, ma che ora è aggiunta al numero dei loro martiri, per forza, essendo gli unici ad aiutare la popolazione civile massacrata indiscriminatamente da un altro crimine sionista: la "responsabilità collettiva".
E proprio lì si nota come gli eventi narrati relativi ai due siano un'epitome di quanto avviene sotto le bombe, che il regista sente l'urgenza di nominare, ma soprattutto a cui è costretto a rimandare tramite loro anche a costo di essere meno efficace, per poter documentare l'infinita gamma di sfaccettature della realtà.
E a questo punto emerge un punto fondamentale toccato durante la due giorni organizzata da Tradardi: la fallacia dei miti di identità eterna e immobile, la cui critica affonda già secondo Losurdo nella solita fine analisi di Hanna Arendt. Fu lei la prima a far notare come il mito dell'antisemitismo universale su cui i governi di Tel Aviv hanno fondato il loro espansionismo è giustappunto un "mito", come quello uguale e contrario del complotto ebraico (la buffonata dei "Protocolli di Sion")...
Eyal Sivan, come Ilan Pappe costretto dalla più grande democrazia del medio oriente a espatriare con le minacce alla sua incolumità, ha documentato con esempi tratti da tutto il mondo (Faces of the Fallen in Usa ad esempio) in che modo il militarismo come sistema educativo produca solo degli invasati, e lo fa ben più efficacemente che in Kippur del campione de "il manifesto", Amos Gitai - utile testimonial per la posizione di Parlato nel giorno in cui nel seminario torinese Tariq Ramadan ricorda come Jimmy Carter fu il primo a usare la parola "apartheid" per sintetizzare la situazione palestinese, che già da sola basterebbe per chiudere lì l'arrogante e ingombrante imposizione del governo sionista di occupare militarmente la Fiera del Libro torinese, cancellando l'invito già inoltrato all'Egitto.
Sivan spesso - quasi sempre - mostra storture che va ad analizzare all'estero (quando parla di genocidio riprende il Ruanda in Itsembatsemba con lo stesso strazio con cui avrebbe ripreso Sabra e Chatila), per studiare le stesse nefandezze perpetrate in Israele, tranne per la tematica che più gli sta a cuore: la propaganda incessante e invasiva dalla culla alla tomba (Izkor) e il suo corollario: l'uso della Shoa che ha creato una "falsa identità" - come nell'espressione di Aharon Shabtai - ad uso e consumo delle istanze più retrive, ortodosse, sioniste di Israele (Uno specialista).
Il film più perfetto di Sivan da questo punto di vista è Izkor, les esclaves de la mémoire, che ha come acmè il commento di Yeshayahu Leibowitz: il militarismo in quel film non è presente se non come incombente presenza a cui tutto si riconduce, il vero protagonista è il pensiero unico pervasivo di tutta la società che si crea non solo con il controllo dell'informazione come nel resto del mondo occidentale, ma soprattutto con il sistema educativo, fondato sulla retorica della Shoa (attenzione: non sulla Shoa, ma sulla sua retorica). Come racconta Aaron Shabtai, poeta ebreo israeliano. costretto a recitare le sue poesie sugli scalini di Palazzo Nuovo, perché il governo israeliano non ha giudicato interessante invitarlo alla Fiera di Torino (come è avvenuto a molti altri scrittori di passaporto israeliano - ebrei o arabi, indiscriminatamente: era richiesta una adesione alla politica del governo israeliano... un po' come negli anni trenta l'iscrizione di tutti gli insegnanti al Partito nazionale fascista) - infatti era direttamente il governo straniero a indicare quali intellettuali potessero e dovessero venire invitati -, ma nemmeno il rettore di Lettere ha concesso l'aula che munificamente invece a Scienze politiche si è trovata per ospitarlo. Shabtai dice che "la Shoa ha creato una falsa identità: uno strumento ideologico che legittima il terrorismo di Stato", che lui aborre sia come terrorismo, sia come Stato, essendo un cittadino del mondo che rifiuta ogni nazionalismo, eliminando alla radice ogni discussione su quantità di stati e popoli che dovrebbero controllare un territorio abitato da persone. "Permettendo di commettere qualsiasi crimine - prosegue Shabtai - banalizza così la Shoa stessa: crea una specie di Ghostland senza moralità e solidarietà". Praticamente la stessa sensazione che si prova ad assistere alla sequenza di Izkor in cui si alzano gli ululati delle sirene che "ricordano a Israele" l'olocausto, una potente retorica inscenata sul vuoto di analisi che nasconde.
E in questa direzione, di stigmatizzazione dell'idea di pulizia etnica che pervade la società israeliana, presente in ogni film di Eyal Sivan, va l'intervento videoregistrato di Ilan Pappe al seminario: il docente esiliato dalla maggior democrazia del medio oriente per reati d'opininone inizia il suo intervento con un anedotto. Ben Gurion in visita in Galilea aveva visto un kibbutz, un insediamento militare, una comunità di coloni... tutto bene, ma la vista di ancora tutti quei villaggi palestinesi gli rovinò la giornata ("Come fanno a essercene ancora così tanti?"), il problema è che quell'idea razzista pervade ancora la società israeliana perché a tutti viene inculcato attraverso ogni luogo pubblico o meno, qualsiasi istituzione scolastica o comunque educativa prevede la "memorizzazione" di parole d'ordine che forzatamente esaltano il nazionalismo fino a legittimare la "pulizia etnica" di cui parla Pappe
Ma poi Wasim Dahmash vira il discorso su aspetti che si rivelano negli interventi successivi - ma anche di nuovo nei film di Sivan - quelli pregnanti: non solo il docente di letteratura araba produce documenti, inventari risalenti ai giorni precedenti la Nakba, ma pronuncia una parola interessante: toponomastica... e subito torna alla mente quel colono che in Route 181 nomina luoghi come sono stati ribattezzati in israeliano, mentre gli arabi li conoscono e li indicano con il loro nome precedente. L'ebraicizzazione di toponimi per gli italiani non può che ricordare - per chi non ha rimosso per vergogna o per rimozione revisionista - l'italianizzazione degli slavi di marca fascista.
Dahmash ha ricordato come fu Ben Gurion nel 1949 a finanziare un progetto volto a dare nomi ebraici a località, monti, fonti, strade: un "memoricidio" parallelo a quel mantra ricorrente in Izkor: "Ricorda, Israele", ossessivo. La prima cosa che fece Tzahal entrando a Beirut fu la distruzione del catasto per confondere la memoria, i documenti, le pezze che dimostrano il diritto.
Ma questa è semplicemente l'introduzione alla questione principale: la riforma linguistica in chiave orwelliana, come Frankel definisce la neolingua che deforma le percezioni occidentali, a cominciare dalle "concessioni" sempre "generose", fatte dagli israeliani sulle terre che hanno rubato (ma che non si capiscono mai quanto siano "generose") e sembra di assistere alla trasferta di Sivan in terra polacca, quando la sindrome borderline ebrea la riscontrò nei gemelli Kaczynski e molte di queste manifestazioni erano deliri linguistici.
Tuttavia Frankel contesta il termine "apartheid", perché dirotterebbe la polemica su una realtà diversa rispetto allo specifico sionista, che si dovrebbe definire "Metodi israeliani di occupazione e repressione", esportati poi in Iraq e Afganistan e mirati a creare Zone definitivamente temporanee in cui rinchiudere nella perdita di ogni dignità, peggiorativa rispetto ai bantustan boeri, dove si consentiva di lavorare nelle miniere, mentre qui gli arabi sono unità in sovrappiù impossibilitati a lavorare.
"Chi nega il diritto a esistere?" è il titolo che compare su "Il Riformista" del 9 maggio 2008 a coprire l'intervento di Napolitano alla Fiera. Già contiene in evidenza in quel titolo le modaliltà usate dal sistema messo a nudo da Shabtai quando denuncia la "corruzione linguistica e della verità" a cominciare dal facile cambio sistematico della scelta verbale (per esempio gli ebrei sono sempre "assassinati", mentre i palestinesi semplicemente risultano "morti", come ai checkpoint in agonia dentro ambulanze bloccate per ore). Il grande poeta che ha scritto 19 raccolte di poesie, di cui solo una pubblicata in Italia da Multimedia, è lapidario: "La cultura è costretta a essere chiara: o prende posizione con i palestinesi - e in quel caso può solo essere "anti" tutto - oppure si omologa e supporta il governo - come Oz, Grossmann, Yehoshua. Questa cultura istituzionale contribuisce alla normalizzazione del consenso della brava gente liberale: culturalizzano il politico (e questo ricorda l'estetizzazione della politica che Benjamin attribuiva ai fascismi nella coppia oppositiva con la politicizzazione dell'estetica, che invece è stata tenuta fuori dalla Fiera).
Questo avviene perché la società è malata e la cultura è ridotta a sua terapia, attraverso il riciclaggio; per esempio quello della Shoa, che istituzionalizza il nazionalismo collocando in un passato sterilizzato tutti gli orrori, senza lasciare spazio a quelli odierni: il riciclaggio rende le cose banali e crea indifferenza (quella sarcasticamente messa in scena anche nel campo opposto - a dimostrazione che si tratta di un'unica società - nei film di Suleiman)
Shabtai ha concluso il suo intervento con un altro esempio del ribaltamento linguistico insito anche nella domanda retorica del titolo di Napolitano: il leader del movimento filotibetano in Israele adesso è un ufficiale che nel 1967 ordinò di uccidere a sangue freddo due civili palestinesi per far capire che Tzahal faceva su serio.
Non è lui a essere cambiato, ma l'artifizio retorico che permette di tenere in piedi la corruzione linguistica chiamata Israele.
Non è vero che si fa un favore a Israele a boicottare - come sprezzantemente dice Vittorio Dan Levi -, perché Yehoshua ha dovuto inventarsi una innocenza, ha sentito il bisogno di rivendicare il suo presunto impegno per la causa palestinese (dovrebbe spiegare prima la sua adesione entusiasta al vergognoso muro che annette terreni, divide servizi dagli utenti, separa campi dai contadini, cancella amicizie e parentele, impedisce la vita, come dimostra Bilin my love).
Senza la vituperata mobilitazione, lo scrittore sedicente progressista non si sarebbe sentito in dovere di puntualizzare che sarebbe fiero di venire a Torino il prossimo anno a festeggiare il nuovo stato palestinese che si augura sorga nel bantustan che il suo regime sta inventando per gli arabi.
DOCUMENTARI DA PALESTINA/ISRAELE - GRATIS SU WWW.TICHOFILM.COM
Dall'8 al 15 maggio, in concomitanza con la Fiera Internazionale del Libro di Torino, www.tichofilm.com mette a disposizione in visione gratuita i documentari da Palestina/Israele del proprio catalogo. Offrire uno sguardo della realtà mediorientale diverso, radicato nel territorio e lontano dalle celebrazioni nazionalistiche vuole essere un tentativo di restituire concretezza e complessità alle rappresentazioni culturali, artistiche, storiche e politiche di un territorio abitato da più popoli, con storie sovrapposte ma antititetiche.
Questi i titoli proposti in visione gratuita:
ARNA'S CHILDREN (Israele/Olanda, 2003) di Juliano Meir Khamis e Daniel Daniel (miglior documentario al Tribeca Film Festival, 2004)
L'esperienza del Freedom Theatre, teatro per bambini creato nel campo profughi di Jenin nel 1989 da Arna Meir Khamis, madre del regista e coraggiosa attivista pacifista israeliana. Il film, girato dopo la morte di Arna e dopo lo scoppio della seconda Intifada, ricostruisce i drammatici destini di quei bambini che, ormai adulti, sono stati risucchiati dalla violenza. Il film tocca tanto le vite personali delle persone coinvolte quanto la realtà politico-sociale di una comunità devastata dall'occupazione militare, ma racconta anche della possibilità di un sogno diverso: quello di bambini profughi che sognano di diventare attori.
BILIN MY LOVE (Israele/Palestina, 2006) di Shai Carmeli Pollak (miglior film al Jerusalem Film Festival, 2005)
Narra la storia di un piccolo villaggio palestinese che cerca di resistere all'esercito di occupazione usando la nonviolenza e che è diventato il simbolo della lotta congiunta di palestinesi, israeliani e attivisti internazionali contro il Muro. Alla violenza militare essi contrappongono azioni dirette creative e manifestazioni simboliche che vengono duramente represse.
Shai Carmeli Pollak ritrae dall'interno la crescita di un movimento che attira ormai da tempo l'attenzione dei media nazionali e internazionali.
BRIDGE OVER THE WADI (Israele, 2006) di Barak & Tomer Heymann
Cinquanta bambini palestinesi e cinquanta bambini ebrei frequentano la stessa scuola, una scuola con lezioni in entrambe le lingue. Ognuno di questi cento bambini è unico. Due anni dopo l'inizio della seconda Intifada un gruppo di genitori palestinesi ed ebrei hanno deciso di fondare una scuola bi-nazionale e bi-lingue nel villaggio palestinese di Ara in Israele. Il documentario segue il primo anno di scuola e il fragile tentativo di creare un ambiente di convivenza sullo sfondo della pesantissima realtà esterna. E lo fa osservando le vicende personali dei protagonisti, i bambini e i loro genitori.
THE INNER TOUR (Israele/Palestina, 2001) di Ra'anan Alexandrovich (miglior documentario al Vancouver International Film Festival, 2001 e Berlinale Forum, 2001)
Viaggio concretissimo e simbolico di un gruppo di palestinesi in Israele, alla vigilia dello scoppio della seconda Intifada. Turisti nel loro stesso paese, in viaggio anche attraverso memorie, speranze, miti, paure. L'autobus come microcosmo di destini individuali e paradossi legali. Sul tappeto, o per meglio dire on the road, tutti i nodi irrisolti di quel processo di pace che pochi giorni dopo si sarebbe drammaticamente interrotto. La questione dei profughi, i prigionieri, l'accesso all'acqua ma soprattutto la doppia, antitetica narrazione della stessa storia. La storia dei vinti e quella dei vincitori. Un piccolo capolavoro di sensibilità umana e acume politico, con un tocco di preveggenza per quello che di lì a poco sarebbe accaduto.
PICKLES (Israele, 2005) di Dalit Kimor (miglior documentario al Mississipi Crossroads Film Festival, 2007)
La storia di otto vedove palestinesi, da sempre casalinghe, che decidono di aprire una piccola fabbrica di sottoaceti. L'inedito business offre uno spaccato di realtà sulla vita di queste donne coraggiose che rompono le regole per garantire a se stesse e ai propri figli un migliore avvenire. Disobbedendo al destino sociale che vorrebbe le vedove recluse in casa oppure risposate, le otto donne di Tamra, un villaggio della Galilea, diventano imprenditrici e iniziano a guadagnarsi il rispetto dei propri concittadini. Lavorano ogni giorno senza paga per investire nel nuovo progetto e affrontano difficoltà economiche sempre crescenti.
THE SETTLERS (Israele, 2001) di Ruth Walk
Protagonista del documentario è la banalità della follia, quella del più fanatico gruppo di coloni ebrei a Hebron. Il film racconta la vita quotidiana di alcune famiglie nel quartiere di Tal Rumeida. Nell'assurdo tentativo di preservare la "normalità", i coloni ignorano la situazione politica in cui vivono e soprattutto si rifiutano di riconoscere l'esistenza degli oltre 120.000 abitanti palestinesi. Il significato politico della loro presenza su territorio palestinese contrasta con il loro numero reale e la loro permanenza a Hebron è resa possibile solo con uno smisurato dispiegamento di militari. La regista Ruth Walk riesce a superarne l'abituale ostilità e a creare un rapporto di fiducia con le persone intervistate, quasi tutte donne. Il film diventa così una rara occasione per poter guardare da vicino l'aspetto più estremo e integralista di quella complessa realtà chiamata "i coloni ebrei".