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Torino Film Festival - 2003
Iniziamo dai tristi Corti di un festival torinese

Come il fratello figlio unico di Rino Gaetano, noi non abbiamo mai criticato un film senza prima vederlo. Perciò non voglio criticare la nuova edizione del Torino Film Festival senza prima averne assaggiato una fetta abbondante. È anche vero che l'aperitivo di questa mattina è stato quantomeno indigesto. Mi riferisco nello specifico alla visione dei cortometraggi in concorso, presentati dalle 10:00 del mattino alle 14:00 del pomeriggio.
Dire che sono stati una delusione completa sarebbe forse una forzatura, ma il fatto è che non si è poi così lontani dalla verità. Ricordo con estrema nostalgia quella costruzione più o meno complessa che, partendo da un'idea geniale, surreale o fulminante si sviluppava nell'arco di 15/20 minuti raccontando una storia, emozionando, facendo ridere o rabbrividire o, addirittura, pensare o arrabbiare. Questa ÒcosaÓ stupefacente andava, secondo il mio dizionario personale, sotto la dicitura di cortometraggio. E pensare poi che alcuni di questi piccoli capolavori erano lo spunto per un ampliamento in termini di durata e, se l'idea era realmente forte, potevano mutarsi in film.

Ebbene, oggi in sala 6, il 70% dei corti visionati erano già troppo lunghi. Poveri diidee, troppo pretenziosi o concettuali, quasi sempre noiosi.

Non ci è possibile indicare i credits dei film perché il lungimirante staff del festival ha deciso che chi voleva il catalogo se lo doveva pagare anche se forniva un servizio di reportage che è tutto a favore della pubblicizzazione della manifestazione: insomma quest'anno stanno facendo di tutto per mettere in condizione di lavorare maldisposti verso l'organizzazione, se vogliamo esagerare con gli eufemismi e definire tale quell'accozzaglia di spocchiosi dilettanti allo sbaraglio che entrano in sala con gracchianti radioline per giocare ai marines sotto copertura del responsabile di sala: non si contano i ritardi nell'avvio delle proiezioni per "cause tecniche" (ad esempio il documentario sul tifoso granata di Gaglianone) e chi aveva inviato la foto via e-mail per ottenere l'accredito si è ritrovato cancellato da un server malandrino che ha perso molte foto-tessera.

Ich und das Universum. Io e l'universo, di Hajo Schomerus (Germania): interessante corto tedesco in cui le parole di unahostess, di un operaio specializzato, di un negoziante di mobili, di un anziano ricco ci illustrano quale sia il loro universo: il lavoro. Dal come devono essere posizionate le cinture di sicurezza per evitare lividi, agli oggetti fissati per evitare che cadano, agli errori delle fotocopie alla tomba di famiglia. Lavora, produci, consuma, muori.

Je n'ai jamais tue persone Non ho mai ucciso nessuno, di Edouard Deluc (Francia): forse il miglior cortometraggio visto, in cui un uomo entra in casa di una donna che deve portare la figlia alla recita di fine anno. I tre chiaramente si conoscono e la donna cerca di allontanare quello che è presumibilmente l'ex-marito, il quale però le segue alla scuola. Niente drammi: solo, non avendo mai ucciso nessuno, vorrebbe riavvicinarsi alle persone che ama e nel finale siintravede uno spiraglio di possibilità.

Sekmadienis. Evangelica pagal liftininka Alberta/Domenica. Il vangelo secondo l'ascensorista Albertas, di Arunas matelis (Lituania): il grado zero assoluto. Camera fissa, dialoghi all'osso, statico fino all'inverosimile. Imbarazzante e decisamente pretenzioso paragonarlo a Aspettando Godot. Tossicchiamenti e schiarimenti di gola in sala.

Mar de diamante Mare di diamante, di Alfonso Nogueroles (Spagna): può una pur bellissima canzone come Diamond sea dei Sonic Youth salvare il corto spagnolo. No! Raul decide di lasciare la ragazza; la invita con un amico sulla barca, la tratta male e si tuffa lasciandoli soli. Quando risale i due sono presumibilmente una nuova coppia.

Winterspleen, di François Farellacci e Laura Lamanda (Francia): crisi dei trent'anni, bella festa, bella gente, bella musica, droga e alcol. Lo spleen pervade la vita di Giulia. Sai che novita?! Comunque girato bene.

Sunntig/Domenica, di Barbara Kulcsar (Svizzera): due coppie e i loro discorsi sull'amore. I giovani e l'impeto sessuale, gli sposati e la crisi. Soluzione comune: andiamo a Santo Domingo... e spero che Pappalardo vi rovini tutto!

A 78-as szent Johannàla/Giovanna d'Arco sull'autobus notturno, di Kornél Mondruczó (Ungheria): un inizio promettente e interessantissimo che si dilunga troppo e perde tutta la sua carica. Un iniziale incidente devastante in cui nulla ci viene tolto delle ferite e del sangue è o spunto per un'opera lirica moderna in cui i protagonisti si liberano gradatamente del trucco. Ma Giovanna che Òfluttua sul mondo di gomma e vuole essere ossigenoÓ è insopportabile dopo 15 minuti, e il corto ne dura il doppio.

[Fulvio ha preferito glissare sullo sforzo lirico, che è pregevole nell'assecondare il taglio fotografico espressionista con interpretazioni alla Alban Berg: il problema è che l'adesione totale alle forme espressive di Weimar riesce a far misurare i tanti decenni che ci separano da quelle sperimentazioni. Senza contare che il testo fatto recitare/cantare non è che disveli chissà quali universi, anzi: è di una povertà che fa venire nostalgia del buon Döblin. Le allusioni alla droga sembrano un depliant di San Patrignano sponsorizzato dal Miur della Moratti e un anticipo della legge Fini (che ha deciso di dire qualcosa di destra, scavalcando per una volta Fassino). Decisamente fastidioso e pleonastico quel tentativo di straniamento brechtiano, trito e ritrito di cui il regista si autocompiace ("Ora io e il mio regista ci separeremo"]


Ho visto mia madre ballare tra le nuvole, di Ila Bêka (Italia): ci si chiede cosa ci faccia in concorso un'opera che avrebbe sicuramente goduto di maggiore attenzione al Castello di Rivoli o alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con relativa targhetta: Videoarte, rimasticazione senza idee dei lavori di Gianikian-Ricci Lucchi, che hanno collazionato la sigla introduttiva del festival, la creazione migliore per ora dell'ambaradan messo in piedi.

Babes in toyland, di Ry Russo-Young e Clara Latham (Usa): surreale e folle. Due ragazze litigano per una bottiglia e la tragedia si consumaÊdavanti agli occhi di automobilisti da fumetto o mostra degli orrori di Pecker. Sangue a profusione e la musica che ci ricorda che C'era una volta in America (e c'è ancora). Menzione d'onore agli abitini tra il super pop e il kawaiii.
 [Da segnalare il montaggio di spezzoni di pochissimi secondi inframmezzati da fermi di fotogramma - forse la ricorrenza più evidente nelle prime battute di questo festival, insieme alla danza della mdp attorno al concetto di morte e allo spropositato uso di bus -, il tutto al servizio della incoscienza degli uni, che lasciano gonfiare una situazione di pericolo collettivo fino a che proprio l'evidenza della enormità coinvolge tutti in un redde rationem per la stupidità della società americana, la deprivazione di ogni intelligenza e il sintetico che affolla ogni momento. Probabilmente il meno peggio tra i corti di quest'anno].

la naja è fascista ovunqueO nomen e o n.i.m. Il nome e il numero, di Inês Oliveira (Portogallo): banale retorico e inutile. Storie della maledetta naja che nulla aggiunge e annoia pure, come se ci fosse comminata una ferma di mesi per insubordinazione. [Certo che in un periodo come questo di retorica nazional-bellicista vedere le vessazioni e il nonnismo alla Scieri ritratto nelle istantanee iniziali fa il suo effetto deterrente sulla spinta al "buono-libro e moschetto" di questo governo, con fulvio ne abbiamo discusso in sala e ci troviamo d'accordo che quella sequenza di polaroid rimane l'unico momento che tiene desta l'attenzione dello spettatore, benché la pellicola dovrebbe essere incisiva, visto che ci sono non poche allusioni al razzismo e colonialismo delle truppe portoghesi che occupavano non richieste una porzione di territorio mondiale non loro, ma nel fil sono solo allusioni; ora in Italia nemmeno quelle, pena il deferimento alla corte marziale. Quando verrà applicata la laegge marziale per impedirci di esternare il nostro dissenso?]
la naja è fascista ovunque

Fulvio Faggiani

L'euforia post-laurea non ha potuto scalfire le prove scadenti di questi corti che non hanno più la verve di qualche anno fa, quando l'idea geniale, al fulmicotone, quella che faceva esplodere in una risata liberatoria la sala e dire: "Minchia questo! gonfiandolo un po', diventa un lungometraggio coi controcazzi".
Finché rimarranno memorie storiche come quella del dott. Faggiani c'è qualche speranza di rinverdire gli antichi fasti...

A lui, impegnato a inseguire il figlio di Fukusaku, sono sfuggite alcune solenni e ami troppo brevi porcate a cui sopperiamo solo per dovere di cronaca:
non solo la mucca è pazzaViande, di Bruno Deville: scontato nel dipanarsi dello scontro tra macchietta di padre macellaio e stereotipo di figlio ex studente macerato da esistenzialismo e malattia. solito problema del genitore commerciante con figlio schifto della impresa familiare: entrambi si confessano di aver abbandonato gli studi e di aver venduto la macelleria, ma questo non libera loro dei fardeli esistenziali e noi della presenza ingombrante di testi come questo, che non aggiungono nulla, ma perlomeno cercano di recuperare l'antica struttura del corto a chiave: qui è offerta dalla rivendicazione alimentare: "Non la carne, ma rivenditore di pizze, proprio no!"

Grand Litoral, di Valèrie Jouve: Brutta copia di Straub, deprecabile per l'assenza di assunti, di storie che nelle panoramiche del grande maestro sono centrali, invece qui si vagola a caso in strade e centri commerciali alla ricerca della inquadratura suggestiva, della struttura formalmente curiosa, del transito nell'inquadratura fissa di personaggi che abitano lo schermo banalizzandolo, ma non per questo nobilitando le immagini proposte. Vorrebbe giocare anche lui con racconto e tempo, ma il primo manca e il tempo diventa noioso e addirittura stucchevole quando u vecchio si affaccia nel'inquadratura fissa, sa facendo jogging, si ferma, fa un ceo di intesa e comincia a ripercorreer all'indietr e a ritroso la strada appena coperta come in un magico rewind, che qui risulta liberatorio solo perché significa che il film finisce per chiudere un ciclo.
Di Litoral rimane impresso il basso continuo del traffico fuori campo, ma ossessivamente presente, ma quell'inquadratura fissa sui viottoli attraversati da ombre di donne e giovani senza una parola; fosse spettrale, invece è solo la fotografia di una desertificazione del bello.

Mandala, di Jenny Jansdotter (Svezia): Sarà che il racconto è stato già rimestato migliaia di volte e che qui non si trova proprio nulla di nuovo: né la fotografia, né la situazione iniziale e nemmeno la sospensione di giudizio dell'autore che giustappone una cornice per far credere che si tratti di fantasia... o forse no, dubbio instillato dalla protagonista per sottrarre ulteriore interesse alla vicenda della ragazza che si trova sull'autobus sbagliato, attaccato da alcuni tipi mossi da puro gusto della violenza a far fuori tutti i passeggeri, con inserti precognitivi non spiegati se non proprio con una prassi narrativa a monte che vede impegnat la fantasia fervida della passeggera. Pleonastico

Waiting, di Aditya Assarat (Thailandia): Ha auqlche tratto interessante per i tempi di questo road-movie sulla scia del ricordo di una notte buissima d'amore che spinge un anziano a lasciare il suo paese per andare a trovare una vecchia fiamma in unvillaggio sul litorale, un trasferimento disagevole e fatto di chilometri a piedi, di pullman che partono solo il giorno successivo, sostenuto solo da quel ricordo di 50 anni prima. e ora che lui è libero, perché il figlio si è affrancato e lavora lontano e lei è rimasta vedova si potranno forse incontrare. Epico il racconto delle sue vicende fatto a uno sconoscuto che lavora i campi e lo accompagna per l'ultimo tratto. la fotografia haun effetto strano, come se la pellicola fosse immersa in una bolla d'acqua, slavata come dalla patina degli anni trascorsi, al limite dell sfocatura, che forse è voluta ancheassistendo alle figure che popolano la notte della stazione dei bus. Certo che forse non c'era materia per un film di 24 minuti.

adriano boano