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Pecker
Anno: 1998
Regista: John Waters;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 22-11-1999


Pecker

PECKER


Regia, soggetto e sceneggiatura: John Waters
Fotografia: Robert Stevens
Montaggio: Janice Hampton
Scenografia: Vincent Peranio
Costumi: Van Smith
Musica: Stewart Copland
Interpreti: Edward furlong, Christina Ricci, Martha Plimpton, Brendan Sexton III,Lili Taylor, Mary Kay Place
Produttore: John fielder, Mark Tarlov.
Produzione: Polar Entertainment, 121 Bloor Street East Side Suite 1400, toronto, Ontario, M4W3M5 Canada
Vendita all'estero: New Line cinema corporation
Distribuzione: Medusa Film (censori, che senza motivo non lo collocano ancora in sala ad un anno dall'uscita in USA)
Provenienza: USA
Anno: 1998
Durata: 1 hr. 26 min.



"Ringrazio la mia sorellina, little Chrissy, per avermi insegnato che le ossessioni possono dare un senso alla vita", con questa frase Waters offre una chiave di volta per il suo film e ci spiega il motivo per cui ci troviamo in una sala stracolma dopo più di un'ora di coda. Le foto sono il pretesto migliore che poteva usare per esprimere la summa della frenesia e della dipendenza (non a caso nel cast, come pusher, c'è la maestra dell'addiction: Lili Taylor). Quando ci appassioniamo a una qualunque attività - sia essa arte o qualunque altra occupazione - tutto filtra soltanto attraverso quel bisogno che va soddisfatto innanzitutto. Infatti anche quando Shelly lascia Pecker, egli la insegue, ma solo dopo aver fotografato la sua fuga. Finisce bene, nel senso che si supera la dipendenza, perché egli la ama più della Kodak e riuscirà a dire di no al Whitney Museum, scatenando il supremo sberleffo nei confronti degli snob newyorkers: li costringerà ad andare fino a Baltimora per ribaltare l'effetto della prima mostra dove i provinciali erano esposti alla pubblica incomprensione della grande mela, mentre alla fine le pose radicalchic diventano lo zimbello dei canoni delle classi popolari.

Rispetto ai film trash o agli ultimi lavori di Waters si avverte una carenza di incisività della caustica polemica nei confronti del perbenismo (permangono invece alcune esilaranti riprese del suo repertorio, come la foto dei due topi che scopano in un bidone rovesciato), perché si estendono esponenzialmente gli obiettivi degli strali, che negli altri casi erano mirati ad un argomento specifico; in Pecker non si salva nulla: la famiglia, mostruosa come al solito, l'infanzia, già deviante, la mercificazione dei comportamenti e le innumerevoli macchiette che sommate costituiscono il ventre molle (zeppo di obesi) dell'America. Non è un male in sé, perché non si nota alcuna dispersione, solo che non si fa a tempo di focalizzare l'aspetto maniacale che viene vilipeso, che si viene catapultati in un pallino erotico, a cui fa da contraltare la mania mariana (degna di Scalfaro) o l'assillo per le regole elettorali (vilipese anarchicamente) o la cleptomania, o il bisogno di esibizionismo, già presente in The five sense, presentato ieri dal canadese Podeswa; non si fa a tempo: cioè proprio l'aspetto che più viene ostracizzato dal meccanismo messo in moto, non martella su un'ossessione come in Serial Mom, ma a tutto campo ci mostra quello che è l'illusione di Matt, l'amico cleptomane: essere invisibile.
La tecnica invece è sempre la stessa, fatta di frequenti stacchi sul movimento, di tendine old fashioned, che fanno molto glamour, occhielli in uscita da una sequenza (e dalla lavanderia), persino di bellissimi mascherini tondi in cui inscrivere il volto dell'interlocutrice telefonica, la gallerista aliena all'universo familiare. Un aspetto da non trascurare è il fatto che non assistiamo mai attraverso l'obiettivo della macchina fotografica all'istante fissato, ma solo al momento di preparazione precedente lo scatto che viene mostrato dal punto di vista del soggetto, perché siamo noi gli obiettivi/obbiettivi delle foto, varia umanità con i suoi tic; il click invece mostra il fotografo il più delle volte, staccando su di lui a partire dalla posa, che è davvero tale: tutti si mettono in posa, dapprima, e tutti poi si negano, visto l'aspetto deleterio della fama che si riscuote con le mostre fotografiche. Quel momento non mostrato all'atto di fotografare non ci viene risparmiato dopo: i ritratti sono impietosi e scavano nell'intimo, tanto che sia i provinciali prima, che i newyorchesi poi si schermiscono di fronte alle copie di se stessi. Un atto di accusa terribile per tutti noi e che fa scaturire il peggio sia dai soggetti delle foto sia dagli osservatori delle stesse: quelli attirati positivamente dal "bush" di peli pubici sono quelli che più li osteggiano: sembra facile moralismo, e forse lo è, ma realizzato con toni così lievi da risultare corrosivo. Al contempo lo stesso autore dello scatto si schermisce, quasi a non voler essere responsabile dell'orrore: "Mi sorprendo di quello che viene fuori", dice in camera oscura. L'unica volta che assistiamo alla scatto attraverso la reflex è sull'hamburger in cottura sulla piastra del locale dove Pecker lavora: l'uica realtà che sappiamo cogliere subito è un fast food, summa della cultura USA. Inarrivabile la polverina tipo campanellino di Peter Pan sulla dichiarazione d'amore in cabina elettorale, da sola sufficiente a stigmatizzare una società e i suoi mezzi di consenso e comunicazione.
Ci sono alcuni momenti trascinanti: lo scatenato raid nel supermarket a catturare immagini, esaltando l'attrazione degli opposti tra merce soggettificata e persone reificate dal rapporto con i prodotti: espressa in serie di quasi fermi di fotogramma pubblicitari che al macho associano pomate intime, enormi verdure falliche alle perbeniste, fino alla catarsi presso le casse, dove tutti arrivano con prodotti a loro antitetici e si scatena il putiferio: la fotografia ha rivelato i più reconditi spazi inconfessabili del rito della spesa, dove ognuno diventa il proprio carrello. Le riprese all'interno del locale di spogliarello di maschi che praticano il "tea-bags" (ve lo lasciamo scoprire senza ulteriori spoiler) sono altrettanto divertenti delle foto scattate senza soluzione di continuità alla famiglia: immagini che sono oscene per la loro irrefrenabile produzione. Pecker non riesce a fermarsi, come la sorellina non può smettere di far passare tutto attraverso una aggressiva bulimia, o la sorella maggiore non può impedirsi di filtrare tutto attraverso l'allusione sessuale. Tutti devianti, nonmeno di Shelley, abbarbicata alla sua Baltimora, di cui bacia il terreno al ritorno da N.Y. Le tre simmetriche mostre delle foto: la prima naïf all'interno del locale, che culmina con l'apparizione della gallerista, la seconda nella metropoli al cospetto di tutti gli artisti (Vanno per vedere se stessi, di contro dirà Pecker a Shelley, riconquistandola: "Arts is everywhwere") e la terza ribaltata al Pecker's Place in Baltimora dove i soggetti sono i mostri del mondo dell'arte.
Si colgono battute al fulmicotone con tripli sensi, che lasciano la platea ad annaspare perché sta ancora riprendendosi dala precedente, come il commento dello snob alle foto di Pecker: "Sembra diane Arbus, ma con soggetti umani", un vero siluro in ogni direzione che lascia senza fiato, come il rivelatore scambio di battute con il tossico che aveva derubato la famiglia di Pecker: "Tu non paghi e fai le foto, la mia vita è di mia proprietà", o il poliziotto filosofo che pontifica: "Arte a New York è per me solo miseria". La migliore è quella di Matt, il cleptomane per l'occasione promosso buttafuori che pretende il pagamento di 4 $ dai ricchi della metropoli per accedere all mostra che li effigia e quando questi dicono di non essere a conoscenza dell'esistenza di un biglietto risponde pronto: "Pensavo vi piacesse vedermi rubare".
Il brindisi finale ci sposta ancora una volta il piano che pensavamo di avere finalmente definito: "Brindo alla fine dell'ironia", ma a quel punto era chiaro che non si trattava più di puro motteggio: non è solo più irrisione della fama, la vogli adi ridere viene meno quando little Chrissy definita sugarfree perché uscita dal tunnel della dipendenza dallo zucchero la vediamo in un'inquadratura assassina votata alla verdura, che ha sostituito i dolci nella sua addiction e quindi sniffa un pisello attraverso una banconota arrotolata: la quintessenza della sintesi di un messaggio complesso eppure trasmesso con i toni della commedia, in fondo sono diventati una famiglia famosa: "Like Jacksons", ma molto più caustici.


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