Zeze
Gamboa ha impiegato dieci anni per scrivere la sceneggiatura e trovare i
finanziamenti per questo suo primo lungometraggio. Forse per questo motivo
preferisce mettere subito in scena, comprendendoli nelle prime due sequenze,
i protagonisti del film (messi in relazione tra loro anche dal commento
musicale che transita dolcemente dall’una all’altra, snocciolando una
canzone classica che parla di glorie e speranze del popolo angolano): la
prima mostra ragazzini intenti a far canestro con una palla che rimbalza
verso l’alto, lasciando il compito alla macchina da presa di proseguire
idealmente la sua traiettoria fino a indagare la città di Luanda a volo
d’uccello, per poi tornare gradualmente ad altezza bambino e coincidere
con lo sguardo dell’adolescente, concentrato a guardare il porto, in
fervida attesa di qualcuno che potrebbe sempre tornare da un momento
all’altro; la seconda riprende un militare che avanza, facendosi largo con
le stampelle, lungo il cortile di un ospedale, impegnato a reclamare la
protesi che gli spetta di diritto, in quanto non è solo “un povero
soldato” (come in genere viene considerato dagli altri), bensì un
sergente, persino decorato con una medaglia al valor militare.
L’intero sviluppo diegetico rispetta fedelmente questo approccio duale,
alternando le scene destinate ora all’eroe adulto, ora al ragazzino, tanto
che viene spontaneo metterli in relazione fin dall’inizio, presupponendo
che il primo sia in realtà il padre reduce, partito per la guerra di
liberazione nazionale quindici anni prima, che il figlio attende con
trepidazione, al punto da chiedere aiuto persino alla luna, perlustrata con
un cannocchiale di fortuna, che al termine del film finirà per scivolare
verso il basso, trasformandosi in quella palla desiderosa all’inizio di
centrare il canestro.
Una semplice idea metaforica, efficace dal punto di vista visivo, condensa
il messaggio del film di Gamboa: la sfera satellitare, rivestita come al
solito di valenze oniriche, prende man mano la consistenza di una forma
reale, consentendo a un mutilato di svolgere, anche se per interposta
persona, il ruolo del padre che è venuto a mancare, dall’altro canto
permette all’orfano di riabilitarsi nel contesto frequentato, perché
scopre un genitore vicariante, al quale poter far riferimento, mettendo da
parte i simulacri immaginari.
La continuazione del film ricama una tessitura narrativa adatta a
legittimare l’incontro e il progressivo avvicinamento tra i due
protagonisti, così lontani, eppure così vicini nel modo di reagire agli
eventi, che si finisce per crederli davvero consanguinei, anche quando si
comincia ad intuire che in realtà non lo sono.
Il soldato ottiene finalmente la sua protesi e comincia a deambulare per le
strade di Luanda in cerca di lavoro: il supporto artificiale gli permette di
sentirsi maggiormente sicuro, recuperando una parvenza d’equilibrio
motorio, seppur ancora e per sempre instabile. Però nel quartiere nessuno
sa cosa farsene di un invalido di guerra, che reclama invece da parte del
suo popolo solidarietà e riconoscenza: le possibili e auspicabili
prospettive occupazionali svaniscono giorno dopo giorno, lasciando
all’uomo il tempo e lo spazio per riflettere sul senso di vent’anni di
vita scippata dalla guerra, quando avrebbe potuto dedicarsi ad altre
imprese, gratificanti dal punto di vista umano, morale e intellettuale. E
allora l’esistenza ai margini finisce per trovare una naturale deriva
nell’alcool e nella frequentazione di altrettante sfortunate creature
femminili, alle quali non resta che il mercimonio eterodiretto del proprio
corpo, che non consuma il desiderio di poter accompagnare altri compagni di
sventura, condividendone il triste e sciagurato destino. Si sa che
l’unione fa la forza… per cui quando l’ex combattente dell’esercito
angolano, Vitório, incontra la prostituta Judite, ritrova anche la
dimensione umana annichilita dalla guerra, ma, come non bastasse, ha la
fortuna di imbattersi in un’altra donna, l’insegnante Joana, innamorata
fin dall’adolescenza del vero padre del ragazzino, che, se da un lato gli
consente di abbracciare per un attimo il sogno di un amore impossibile,
dall’altro gli porge una mano, permettendogli di rendere pubblica la sua
condizione di reduce mutilato grazie a una trasmissione radiofonica
appoggiata da un rappresentate del governo, che gli garantisce un lavoro e
persino di recuperare la protesi (che rappresenta per lui l’indipendenza
attuale), rubata dai soliti ragazzini di strada.
Non è la prima volta che film provenienti da paesi lusofoni, ossia quelli
che hanno subito la colonizzazione portoghese, mettono il dito sulla piaga
dei niños de rua, avvezzi a essere educati dalla strada, anziché
dalla scuola (non solo esempi provengono dal Brasile con famosi film
distribuiti dal circuito “normale”, ma anche meno conosciuti prodotti
mozambicani), forse questo consente di avanzare un’ipotesi su quali ancora
maggiori danni possano derivare dal fatto che la potenza coloniale coincida
con un feroce regime fascista come quello di Salazar e l’indipendenza sia
stata raggiunta quasi un ventennio dopo le nazioni francofone.
Manu è infatti un ragazzo di strada: frequenta la scuola, seppur senza grandi
motivazioni né interesse a rinverdire la fama di studente modello incarnata
dal padre, che gli viene spesso rinfacciata dalla nonna, l’unica adulta
che si prende cura di lui, dopo che anche la madre ha pensato di andarsene
di casa, sicuramente stanca di aspettare l’arrivo dell’eroe domestico
(non tutte le donne infatti hanno la fortuna o la sventura di chiamarsi
Penelope!).
Il giovane coltiva a modo suo il mito del padre soldato, perché, quando gli
viene concessa la possibilità di barattare il magro bottino dei suoi
furtarelli (la gomma di una bicicletta o un’autoradio), non ha dubbi sugli
oggetti da scegliere: un coltello affilato e persino la protesi, sottratta
(e poi rivenduta da un’altra banda di ragazzini del racket adolescenziale)
al povero Vitório ubriaco, che, una volta sobrio, scampato per l’ennesima
volta all’incubo dell’incidente subito allo scoppio della mina, trova
ancora la forza di tentare di riprendersi almeno la medaglia al valor
militare.
In realtà Manu ambisce a possedere una mitragliatrice notata presso il
ricettatore: un’arma feticcio, surrogato del padre, di cui patisce
l’assenza, e al contempo ideale collegamento materiale con lui. Non
potendosela permettere, finisce per portarsi via proprio la protesi: un arto
artificiale che lo riporta costantemente al pensiero del genitore, memore
della sua mutilazione di cui è consapevole.
L’incontro tra Vitório e Manu, pur essendo destinale fin dall’avvio, si
ammanta di una cornice fiabesca: avviene per caso, proprio di notte al
chiaro di luna, come per magia, e sarà risolutivo per entrambi. L’adulto
interviene a salvare il ragazzino da una violenta aggressione da parte della
banda dei ragazzotti rivali, che avevano osato infangare il buon nome della
madre; il giovane si aggrappa a lui, scambiandolo all’inizio per il padre
desiderato e riconoscendo in seguito il valore di un’amicizia franca e
disinteressata.
La macchina da presa attraversa instancabile Luanda, ora dall’alto verso
il basso, ora viceversa, affidandosi agli sguardi dei due protagonisti, che
si fanno vieppiù fermi e determinati; spesso si nota l’urgenza (forse a
causa del ritardo accumulato nei dieci anni di gestazione) di affrontare
questioni di più largo respiro rispetto alla storia particolare: la
condanna della guerra (solo lei è una “hija de puta”), il desiderio di
una riconciliazione tra civili e militari, il reintegro nella società dei
centoventimila congedati disoccupati, le mutilazioni e il pericolo
onnipresente di inciampare sulle numerose mine ancora inesplose, ma di
conseguenza anche il problema degli orfani (strazianti i siparietti affidati
al programma televisivo Punto di ritrovo, deputato ad ospitare gli
appelli di un tragico “Chi l’ha visto?”).
È curiosa invece una coincidenza: scoprire sullo schermo insegnanti
angolani in sciopero proprio il 18 marzo 2005, giornata nazionale di
mobilitazione sindacale unitaria del pubblico impiego, scuola italiana
compresa. Riconoscere una solidarietà angolana con le rivendicazioni
nostrane attuali significa anche ammettere mali comuni nel sistema
scolastico, ma anche analoghi rimedi auspicabili, sintetizzabili nella
salvaguardia del diritto allo studio e nella difesa di un’educazione
pubblica, laica e gratuita.