... possibili e talvolta impossibili; chi s'è visto
s'è visto!
Intervista a Robert Kramer
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Quello con Robert Kramer è stato un vero e proprio incontro e non una successione di domande alla quale dare delle risposte, questo grande viaggiatore del mondo si è posto nei nostri confronti così come rispetto alle persone che ha ripreso nei suoi film cercando un vero e proprio contatto, accorciando subito le distanze di un lei rispettoso presentandosi semplicemente come Robert. La presenza del registratore è divenuta soltanto un mezzo, un pretesto attraverso cui il senso potesse vibrare, il senso di essere hic et nunc insieme a scambiarci delle sensazioni, delle ipotesi sui suoi film e sul cinema in generale; la nostra curiosità alimentata dalle lunghe ore di visione dei suoi film è sconfinata inevitabilmente sulle sue esperienze di vita, sul senso delle sue scelte; nelle sue risposte abbiamo trovato ulteriori stimoli per riflettere sulle cose intraprendendo la strada di un' interview in progress all' infinito che si è prolungata al di là del nostro incontro nel buio di una sala cinematografica con la seconda visione di "Rout/One" e che prosegue qui nello spazio senza frontiere di internet.
Redazione: "Quale differenza hai trovato nel fare cinema in Francia rispetto all' esperienza Americana da un punto di vista tecnico e produttivo?"
Robert Kramer:"Ascoltate, le mie condizioni sono molto speciali, si può dire che a partire dall' inizio nel 1965 fino al 1980 non avevo assolutamente nessun contatto con nessun aspetto dell' industria cinematografica, il solo rapporto era con i laboratori per lo sviluppo della pellicola, per realizzare le copie e il mixaggio, a parte questo non ho mai avuto un produttore, non ho mai avuto un' équipe gerarchizzata vale a dire un organizzatore, un cameraman, un ingegnere del suono, non venivamo definiti "cineasti" ma "filmakers", eravamo tutti uguali; i soldi per i film provenivano da ambiti diversi ma eravamo noi ad amministrarli e riuscivamo a vivere con i soldi dei film, non vi erano dei salari e i film erano realizzati in condizioni inimmaginabili, per esempio "In The Country" è costato 1500$, "The Edge" che è un film in 35 mm. è costato 4500$, "Ice" è costato 15000$, "Milestones" è costato 50000$ e credo che "Scenes From The Class Struggle In Portugal" sia costato al massimo 5000$. Parlare di queste cifre non vuole dire nulla oggigiorno dal momento che le cose sono molto cambiate sotto tutti gli aspetti, ma la cosa essenziale è che si trattava di un lavoro strettamente artigianale, facevamo tutto noi, ci scambiavamo i ruoli, anche se era un mio film potevo girare un po' con la macchina da presa, potevo fare il suono, poi tagliavamo i nostri negativi, lavoro che di solito si affida ad un laboratorio, facevamo tutto questo per conto nostro dall' inizio alla fine.
Le ragioni per cui mi sono trasferito in Francia sono piuttosto complicate, ci sono molteplici strati, ma in rapporto alla vostra domanda il motivo principale è che alla fine degli anni '70 c'era sempre meno denaro negli USA in seguito alla crisi economica dopo la guerra e poi all' inizio del rivolgimento politico che ha dato Reagan e lo sviluppo di tutto quello che si conosce oggi, ossia l' inizio delle idee del nuovo ordine mondiale. Tutte le condizioni molto libere a livello economico degli anni '60/'70 stavano scomparendo rapidamente, dunque, è stato solo in Francia che ho avuto un vero rapporto con l' industria cinematografica per la prima volta, qui sono diventato tra virgolette un "professionista del mestiere". Bisogna dire che le condizioni speciali in America facevano sì che vi fosse e che vi sia tuttora un margine enorme, una marginalità non proprio nella strada, ma una marginalità che è talmente profonda che fa sì che vi sia un certo numero di persone che vive effettivamente al di fuori di strutture ben identificabili, per esempio vi erano molti filmakers che lavoravano come me, tutta l' Underground procedeva in questo modo, il primo film di Cassavetes "Shadows" è stato fatto nelle mie stesse condizioni, così come il primo film di Kubrick ed i film di Mekas, tutti loro possono dire la mia stessa cosa riguardo all' idea di essere "professionisti del mestiere", non lo erano. In Francia così come in Europa non vi è un margine, non vi è mai stato, la grande forza del cinema francese sta nel fatto che ha preso tutti questi marginali e ha fatto di questo un' industria cinematografica, non so se avete visto il mio film "Sous le Vent" in cui vi è una conversazione con Serge Daney che dice che la grande caratteristica del cinema francese è proprio quella di essere un cinema di conquistatori...
In Francia mi sono trovato in una situazione in cui dovevo imparare tutto, per esempio il fatto di imparare a lavorare con i sindacati, poi non mi ero mai confrontato con un vero produttore che detenesse veramente il denaro e che dicesse si può fare questo o quello; non avevo mai avuto di fronte un sindacato o delle persone del sindacato che dicessero si lavora otto ore, noi potevamo lavorare nove ore, dieci ore, non lavoravamo dodici ore tutti i giorni ma lavoravamo senza pensare ad altro, era l' idea di una vita che passasse attraverso il lavoro, se per esempio oggi occorrono sedici ore va bene, se domani siamo stanchi non si lavora; improvvisamente mi sono trovato in un sistema che voi conoscete bene in cui vi è un' équipe, ogni persona ha il suo ruolo, ho fatto un salto in qualcosa di ben riconoscibile: un lavoro organizzato. A parte questo le peculiarità dell' industria cinematografica non sono molto diverse da qui o da qualche altra parte, ma quello che era diverso era la struttura del lavoro culturale in Francia e in Europa in generale in rapporto agli USA. Negli USA non vi è alcuno statuto del lavoro culturale, quindi noi eravamo così tanto isolati perché non pensavamo al nostro lavoro come ad un prodotto, di fatto eravamo molto deboli a livello della distribuzione, io non mi sono mai occupato della distribuzione dei miei film, il problema era di fare un film e poi, può darsi, di farne un altro ma non ci siamo mai occupati della distribuzione, in più noi non ci definivamo tra virgolette "artisti", ci dicevamo "filmakers" ma mai artisti, ad ogni modo essere artisti non vuole dire niente in una società di consumo talmente sviluppata come quella che abbiamo in America, e, quando improvvisamente sono arrivato in Francia ho scoperto che il mio lavoro era rispettato e che i miei film erano conosciuti, che si parlava dei miei film in un modo inimmaginabile rispetto a quello che si diceva in America dove non erano considerati degli oggetti culturali, e sentivo anche che si era vicino a quello che pensavo: non solo un certo tipo di libertà, dal momento che avevo molta libertà in America, nessuno mi diceva quello che dovevo fare, ma nello stesso tempo nessuno era disponibile a darmi del denaro per lavorare, in Francia dopo il mio primo film tutti dicevano: "vi rispettiamo, vi diamo una certa fiducia, sappiamo che volete fare una cosa diversa, allora noi dobbiamo cercare di controllare tutto questo affinché non superi un certo limite, ma questo è il vostro lavoro e bisogna che voi lavoriate in questo modo". Tutto questo era completamente nuovo: avere un certo tipo di riconoscimento da parte degli organi di potere, dei critici e soprattutto il fatto che si dicesse: "si...mettiamo un po' di denaro, non si parla di grandi budgets, vi diamo un pacchetto affinché possiate lavorare perchè questo è importante, non sono tanto importanti gli incassi, si, si spera che gli incassi ci siano, ma la creazione di questa cosa ha un vero rapporto con la vita della società".Questo era veramente stupefacente, erra un qualcosa che qui in Italia è scomparso ma che esisteva in modo molto forte negli anni '60/'70 in cui il cinema non era un qualcosa di diverso dal fare un quadro, scrivere delle poesie, dei romanzi, era una delle manifestazioni dello spirito, e quello spirito aveva un rapporto difficilmente definibile, ma tuttavia un rapporto con la salute del corpo, il corpo, la società, si tratta di un' idea astratta che è tuttavia molto forte e che mi ha protetto ad un certo livello da venti anni. Questa idea insieme allo Statuto dei Diritti d' Autore in Europa ha un' importanza enorme in rapporto agli USA: i Diritti d' Autore mi proteggono per esempio di principio, principio molto delicato, da un produttore che voglia tagliare il mio film, mi proteggono dalla possibilità che il mio lavoro mi venga completamente sottratto e dal fatto che io non possa avervi alcun accesso perché non mi appartiene, ho una protezione morale.
La questione dei Diritti d' Autore è molto complicata, la sua ispirazione risale alla rivoluzione francese, è un aspetto della legge borghese molto forte, attualmente la questione dei Diritti d' Autore è in gioco con gli americani in rapporto alle negoziazioni del GATT ed imbarazza molto gli studi americani il fatto che le persone che fanno dei film abbiano un diritto, un potere morale su questo prodotto che a loro costa del denaro e l' eccezione culturale è in discussione da due anni e si è concentrata molto sugli ostacoli di lasciare passare tutto il cinema americano automaticamente, ma anche intorno alla questione del Diritto d' Autore.
Quindi vi è un insieme di cose che ha cambiato molto il modo in cui io vedevo la mia situazione: in luogo di essere completamente al di fuori e indipendente in America mi muovevo all' interno di un movimento popolare, in qualche modo tutto quello che abbiamo fatto in America anche nel periodo in cui eravamo più critici rispetto al movimento intorno era inseparabile dal fatto che vi erano letteralmente milioni di persone che facevano opposizione in modi completamente diversi, che non erano unificati, che non pensavano la stessa cosa, ma tutti dicevano "NO alla guerra", "Si alle donne", "Si ai neri", si trattava di una sorta di destabilizzazione permanente della situazione attuale ed eravamo protetti da questo, protetti, alleati, tutte le persone dei miei film provenivano da questo contesto. Quello che è successo in Europa e soprattutto in Francia è che ho costruito altri tipi di legami, non vi erano movimenti di massa, le stesse questioni politiche sono diventate molto flou, ma vi erano dei legami con delle istituzioni come certi giornali di cinema, con degli esibitori, con certi generi di sale, con degli organismi come l' Association de toutes les salles d' essai et recherche. All' inizio ero contento che esistessero senza sapere cosa fossero ma, a poco a poco, ho iniziato a capire che dopo la guerra nel '45 una delle creazioni del movimento popolare e soprattutto del partito comunista e dei vecchi resistenti era stata la costruzione delle reti dei cineclub e il ricorso al cinema come strumento di educazione; di fatto le reti di queste sale indipendenti che attualmente esistono in Francia sono l' eredità di tutto questo. Per esempio nei primi due anni in cui ho vissuto in Francia ho guadagnato buona parte del denaro per vivere viaggiando in questi circuiti: sono stato invitato in Francia proprio in occasione di un festival di quel genere, il festival di Digne diretto da due insegnanti, una coppia che aveva in quel periodo sui cinquanta-sessanta anni, che erano vecchi resistenti e che avevano voluto creare un festival del cinema secondo le loro idee di cinema che era Garrel, Duras, io, Moullet,Monteiro, era una cosa molto speciale. Sono loro che mi hanno invitato e che hanno fatto arrivare tutti i miei film in una retrospettiva nel 1979, e, dopo mi hanno organizzato quel piccolo viaggio in cui portavo quattro o cinque film sulle mie braccia e arrivavo alla stazione , qualcuno mi passava a prendere dall' ottico e quella sera mostravo i miei film nella sala cinematografica del luogo e poi dormivo dall' ottico e, il giorno dopo ero inviato dal macellaio in un paese vicino che era appassionato di cinema. Dunque tutto questo mi suggeriva la sensazione di essere radicato in un qualche cosa anche se non era il mio paese.
Poi ho trovato dei gruppi di tecnici, in America ho pressoché conosciuto solo le persone con cui ho lavorato come dei buoni tecnici, le stesse persone per quasi tutti i film, abbiamo imparato il cinema insieme, ci fidavamo l' uno dell' altro, se mi avessero chiesto di trovare un ingegnere del suono ad alto livello non avrei saputo veramente come fare, l' avrei potuto trovare ma si trattava di persone che lavoravano per molto più denaro, che lavoravano per esempio per la televisione, e non sapevo se avrei potuto chiedergli di venire a fare delle riprese per niente o per molto poco, ma subito in Francia ho trovato tutto un livello di giovani tecnici che conoscevano bene il cinema, ho trovato una struttura, una vera struttura culturale ed è stato come passare dalla notte al giorno.
Mi è piaciuto moltissimo il lavoro selvaggio in totale marginalità in America, ma ad un certo momento è diventato più o meno impossibile e quando ho trovato questa altra cosa è stato l' inizio di un' altra idea di lavorare.
Redazione:"La televisione rientra all' interno di questa nuova idea di lavorare?"
Robert Kramer:"All' inizio la televisione è stata molto importante per me, ad esempio l' INA, L' Institut National d' Audiovisuel, è stata creata come antenna autonoma speciale di sperimentazione e programmazione e, prima che io venissi in Francia, alla fine degli anni '70 ha fatto un lavoro straordinario con Godard, Eustache, Rivette, Rozier, vi sono una ventina di film veramente interessanti conservati negli archivi. E quando sono arrivato è tramite l' INA che ho lavorato negli anni '81/'82/'83, in un momento in cui avevo enormemente bisogno di questo. Poi ARTE nell' ultimo periodo è diventata molto importante per me, ma degli esperimenti erano importanti per il documentario in Francia, Thierry Garrel è il vero responsabile per la rinascita del documentario in Francia e oltre alla Francia in Europa, e io credo che la cosa più interessante nel cinema degli ultimi dieci anni sia lo sviluppo del documentario, e questo è possibile grazie ad ARTE e all' atelier di Thierry. Però posso dire di non avere conosciuto in quel periodo gente della televisione, conoscevo due esibitori, non conoscevo distributori, avevo un altro modo di vivere.
Redazione:"Che rapporti hai avuto con il New American Cinema Group di Jonas Mekas a livello personale e artistico?"
Robert Kramer:"...A New York la cineteca organizzata da Jonas Mekas mostrava sera dopo sera dei film, non si sapeva mai quello che si sarebbe visto, anche se credo che vi fosse un programma, tutte le persone che facevano dei film li portavano per discuterne insieme a tutti ed era piacevole perché era una vera arena di libertà e di discussione e si aveva l' impressione di vedere ogni settimana qualcosa di veramente interessante. Io ero sempre più verso posizioni politiche, apertamente politiche, certo tutto questo era politico, ma cambiare il mondo, legarsi al movimento dei diritti civili e poi molto presto essere contro la guerra in Vietnam, perché si cambi tutto questo, perché Waco non debba succedere era una posizione più radicale. A questo punto incomincia una separazione con il cinema Underground che era risolutamente avanguardista, artistico e culturale e relativamente poco in disaccordo con tutto questo, con tutto quello che succedeva nel mondo: la guerra, la situazione dei neri, tutto questo, di tanto in tanto qualche cineasta si rivelava particolarmente sensibile a questi problemi ma la maggior parte no. Io credo che la forza del personaggio di Jonas Mekas, che è un genio dell' organizzazione oltre al fatto di essere veramente formidabile come cineasta, una sorta di Lenin dell' avanguardia, stia nel fatto di avere impedito che la rottura fosse veramente definitiva, ci ha aiutati molto, mi ha aiutato molto per il mio primo lungometraggio, è lui che ha portato "In The Country" a Pesaro personalmente, è la sola persona che ha visto questo film in America e ha detto che era importante, e, poi, quando abbiamo iniziato a formare Newsreel, di sua propria iniziativa ci ha fornito i mezzi della cineteca, della Film Makers' Cooperative che era uno strumento di distribuzione e produzione, ci ha dato i mezzi, ci ha dato tutto il suo materiale da utilizzare: la sua fotocopiatrice, la sua macchina da scrivere, tutto questo quando eravamo rigorosamente anti-Underground a livello di parole, molto contro quegli artisti che si davano arie di avere fatto qualcosa di veramente serio una volta che erano conosciuti, ma per lui non ci sono stati problemi forse a causa della sua formazione europea, dunque un uomo saggio, moto saggio.
Avevo un buon rapporto con lui, ho molto rispetto per lui, a quell' epoca molto meno come cineasta ma molto come uomo e soprattutto come organizzatore dal momento che ero molto preoccupato dai problemi di organizzazione in quel periodo e lui ci ha inviato delle persone chiavi per il nostro avvenire, ci ha suggerito qualcuno che aveva lavorato con lui a <<Film Culture>> e alla <<Film-Makers' Cooperative>> che ha organizzato per noi un vero sistema di distribuzione: David Stone, senza di lui penso che avremmo avuto molte difficoltà nel gestire questo, conosceva bene i problemi di base per fare dei film, poi abbiamo partecipato al primo programma di <<America Today>> organizzato da Jonas, c' erano il primo film di Shirley Clarke "the Connection" e "Troublemakers" realizzato da dei miei amici.
Da quando sono partito dagli USA non ho mantenuto un vero contatto con lui, è un po' il tempo che ha prodotto questo. Non molto tempo fa un mio amico è andato a trovarlo e ha voluto che Jonas mi mandasse un piccolo messaggio in cassetta, ed il messaggio è: "Ah Robert sei sempre uno di noi oppure no?". Penso che questa sia una vera questione perché in seguito a tutte le strade che ho incontrato in Europa credo che la mia ottica sia molto lontana per esempio dall' ottica del film-antologia molto isolato che continua in questo isolamento a New York, non saprei bene rispondere a Jonas se sono ancora uno di loro oppure no.
Redazione:"Che cosa è stata per te la Nouvelle Vague? Quali registi hai conosciuto?"
Robert Kramer:"Credo che vi sia stato un cinema più importante per me negli USA che la Nouvelle Vague, il cinema italiano è stato più importante, le influenze sono state diverse, mi sentivo più vicino ad Antonioni de "L' Avventura", a Rossellini, ero ossessionato da Dreyer in quel periodo. E' strano non mi trovo in Francia perché adoro la cultura francese, la cultura francese nel tentativo di bilanciare il rapporto fra la testa e il cuore protende sempre più verso l' alto, io preferisco cose più forti da un punto di vista emotivo, anche se il pensiero cerca di mantenersi rigoroso, non sono cartesiano, ma credo che la cosa veramente scintillante sia la provocazione di Godard, "Au Bout de Souffle" non mi ha sconvolto, è solo ultimamente, in questi ultimi anni, che mi rendo conto che "Pierrot le fou" è straordinario. Sono i film come "Alphaville" e "Deux ou trois choses que je sais d' elle" che rappresentano veramente un' apertura verso una narrativa possibile e Godard è qualcuno che è talmente immerso in questi problemi che non sono esclusivamente problemi politici riguardanti il modo in cui dire le cose, ma anche concernenti il trattamento di materiali estremamente diversi, materiali tra virgolette "documentari e materiali altamente artificiali
Chi ho conosciuto? Un po' tutti....Per esempio un film di Rivette "Paris nous appartient", non ricordo quando l' ho visto, ma lo adoro, non conosco "L' Amour Fou" anche se molti mi parlano continuamente delle influenze di questo film nel mio cinema...per esempio Rivette è stato molto accogliente quando sono arrivato a Parigi, ma trovavo impossibile parlare con lui, era una sorta di fantasma, e, io sono molto americano a quel livello, non ho nessun istinto di discepolo, nessuna disciplina di discepolo, quindi se non vi è un qualche cosa che passa fra me e la persona che mi sta di fronte non vi può essere alcun contatto...Non ho incontrato Rohmer, credo che sia difficile vederlo, ma dovevo lavorare con Godard come assistente verso la fine degli anni '70, mi aveva inviato delle annotazioni sul film che ho perso, e mi si è posto un problema: se avessi detto quello che pensavo probabilmente non avrebbe mai risposto, ma se non lo avessi detto quale tipo di rapporto avremmo potuto avere? Dunque gli ho scritto: " ma cos'è questo? Perché Diane Keaton, io la detesto, tutto questo, è basato sui fantasmi di Hollywood...", non era affatto la mia storia, gli ho scritto queste parole e non ho più sentito parlare di lui...La sola persona che ho incontrato alla fine degli anni '70 in America è Chris Marker che è rimasto un buon contatto in tutti questi anni, ci sono stati dei momenti in cui siamo stati molto vicini, dei momenti in cui ci siamo sentiti meno, ma trovo che i film siano come fare un ping pong degli stessi problemi, delle stesse preoccupazioni, ho un' enorme ammirazione per il suo cinema e per molte scelte che ha fatto, per esempio il suo rapporto con le nuova tecnologia, credo che sia la sola persona che io conosca che ha avvicinato questo in un modo che sta per dare dei risultati. Non ha mai detto:"Come questa nuova tecnologia cambierà il mio lavoro?", ha detto:"Imparerò come fare, come programmare, come si lavora con questo e vedrò come a poco a poco vada ad infiltrarsi nel mio linguaggio e divenga qualcosa di mio, non qualcosa di cui io mi appropri ma qualcosa che diventi infine organico". Quello che è fantastico con Chris è che fa un grande viaggio, parte dalle parole, lui è scrittore, editore, passa attraverso il cinema, l' immagine, fino all' informatica, il digitale.
Attualmente sono molto interessato ai giovani, giovani che non hanno realizzato molto, al massimo uno o due film.
Redazione:"Che cosa voleva dire essere un radicale negli USA negli anni '60? Quali problemi hai avuto con le autorità ?"
Robert Kramer:"Era molto facile, se tu dicevi: "Voglio vivere, adesso smettiamola con tutte le storie su cosa io devo fare e su quello che gli altri dicono che io devo fare per il mio avvenire e io voglio vivere, si era radicali, si era nel vero senso della parola radicali; si era là per cambiare la propria vita e sempre fuori dalla porta vi erano centinaia di giovani che avevano lo stesso progetto. Questo significa un movimento di massa, non è forzatamente un movimento di massa inquadrato, come si pensa in Europa quando si parla di un movimento, era solo un' esplosione popolare all' interno della quale vi erano diversi livelli: un livello rock and roll, un livello sesso-droga e rock and roll, c' era un livello fortemente politico, un livello hippy. Sono dei piccoli gruppi che hanno creato un movimento di massa.
Rispetto all' interfaccia del potere dipendeva: più la politica ha smussato il prendere provvedimenti contro la guerra e le frange più militanti del movimento nero "Le Pantere" più si era in rischi, sempre meno i bianchi più privilegiati, ma rischi, e la mia parte del movimento era molto preoccupata per questo motivo, lo si vede nei film che sono molto paranoici in rapporto agli organi dello stato, in rapporto alla polizia, all' FBI, a tutte queste autentiche infiltrazioni, tutto questo era reale, se no, se non era reale, non era reale, se si spingeva c' era resistenza, fortunatamente, altrimenti non si sapeva perché si spingeva. Tutto è diventato sempre più violento verso la fine degli anni '60...ma il potere americano è complicato: da una parte è Waco, ed è sempre così come la repressione di certe manifestazioni in cui hanno sparato sui giovani, hanno usato i manganelli, o il modo che hanno avuto di integrare "Le Pantere" che è stato quello semplicemente di ucciderle...
Redazione: "Secondo te è più facile fare un film su di una guerra visiva come quella del Vietnam oppure su di una guerra totalmente virtuale come quella dell' Iraq?"
Robert Kramer:"Non saprei, capisco il problema, ma per fare della propaganda o dei buoni film contro la guerra in Vietnam c' erano di fatto più possibilità: si poteva prendere l' aspetto reale trasmesso alla televisione e rimontarlo e vi sono dei buoni film realizzati in questo modo per esempio "Waco", quando viene recitata la canzone di Nancy Sinatra che è la banda sonora di uno dei migliori film realizzato proprio come montaggio delle immagini delle atrocità del Vietnam che ha utilizzato questa canzone nel 1965. Ma per esempio io sono stato obbligato ad andare in Vietnam perché abbiamo trovato che l' idea di mostrare solamente le atrocità era a doppio taglio, poteva essere terribile ma poteva anche accrescere sempre di più la capacità delle persone di vedere delle atrocità, e in più noi non eravamo contro la guerra perché si uccidono delle persone, si delle persone venivano uccise, ma eravamo contro la guerra perché le vere aspirazioni del popolo vietnamita di essere indipendente erano legittime. Dunque era un problema politico e non solo un problema di violenza, io accettavo il fatto che tutti gridassero " Ritirate le truppe americane", " Bring the boys home" era il grande slogan di massa, ma per noi era solo un aspetto della questione, si poteva dire questo ma perché ? Il perché secondo una grande parte del movimento stava nel fatto che i giovani americani stavano per essere uccisi, noi invece pensavamo che i vietnamiti ne dovevano uccidere di più, perché il solo modo di vincere per loro era fare si che costasse troppo, che costasse troppo nel senso degli americani, dunque accettavamo completamente questa violenza e abbiamo voluto andare un po' più lontano, cioè esprimere perché un popolo che non ha nulla, che è sottosviluppato, è in grado di resistere alla più grande macchina da guerra che sia stata mai dispiegata. E per fare questo era necessario andare laggiù, per capire questo perché, dal momento che non lo si conosceva, si trattava di una sorta di miracolo: i vietnamiti guadagnavano terreno ogni giorno, il giorno successivo al più grande bombardamento mai verificatosi neppure nella seconda guerra mondiale a cui gli americani avevano sottoposto i vietnamiti, quest' ultimi avevano conquistato Saigon. Per dare una risposta a tutto questo bisognava andare laggiù. Quando si parla della complessità del potere americano: da un lato uccide delle persone in questo modo, dall' altro noi siamo andati in Vietnam, abbiamo girato un film, abbiamo riportato tre prigionieri di guerra con noi donatici dai vietnamiti al nostro ritorno per indicare che volevano negoziare, e la sola cosa che è successa è che hanno preso il nostro materiale, lo hanno sviluppato, lo hanno visionato, hanno deciso che non aveva nessun valore e ce lo hanno restituito, ma non vi erano punizioni, processi, niente, anche se era illegale andare in Vietnam.
Credo che la cosa che tutti hanno mistificato è stata la complessità del potere americano, la sua durezza, il suo atteggiamento testardo che in Waco è una sorta di caricatura di otto anni di guerra in Vietnam nel senso che tutti i giorni vengono mostrate delle immagini, le si studiano, e non si fa così, poi d' altra parte si può parlare di tutto, per esempio in Francia non si parla della guerra in Algeria, non vi è un' immagine, non un testo, solo adesso si incomincia a parlare di Algeria, ma negli USA non si è mai smesso di parlarne, vi è una sorta di potere ipercontemporano molto intelligente, quasi la vera non-importanza dell' informazione, non è l' informazione che cambia le cose, è l' organizzazione globale del punto di vista, quindi tutti possono dire tutto, tutti dimenticano, infine vi sono troppi punti di vista, tutto è un po' così, anche nel film su Waco si sa che qualcuno può arrivare e criticare tutto quel montaggio dicendo che è pro-Koresh anche se non si tratta per niente di questo, questa sarebbe propaganda, e alla fine si arriva a dire che la realtà è troppo complicata è come quel tipo che dice: "Io sono troppo in basso nella catena alimentare e devo avere fiducia nelle persone che stanno più in alto", è un po' come quando mi domandate di "Point de depart", il film fatto sul ritorno in Vietnam, questo comincia con una mia amica che ha fatto questo viaggio in Vietnam e che deve scontare quarant' anni di prigione, è imprigionata con l' italiana Baraldini è dello stesso gruppo, allora, il suo processo è completamente truccato, deve scontare quarant' anni per avere acquistato qualche pistola sotto falsa identità, hanno trovato il modo di farla giudicare in tutti i contesti possibili per aggiungere ogni volta cinque anni, dieci anni, quindici anni, fino ad arrivare a quaranta. Quarant' anni è incredibile, non vi sono nemmeno gli assassini che scontano quarant' anni, questo è un esempio di quella durezza del potere americano per delle ragioni politiche e, d' altra parte, pochi sono perseguitati, ci sono pochissimi prigionieri di guerra, soprattutto pochi bianchi, ma anche neri che risalgono agli anni '60/'70.
Questo è sicuramente un soggetto del tutto speciale: che cos' è il potere americano e qual' è la sua funzione. Dunque era facile essere dei rivoluzionari negli anni '60, la cosa complicata è stato mantenere il proprio punto di vista dopo, negli anni '80.
Redazione:"Tony in "Guns" ha un passato politico ma nel film non è più un attivista bensì un convinto democratico e pacifista. Secondo te è un percorso inevitabile per un rivoluzionario negli anni ottanta? E' anche il tuo percorso?"
Robert Kramer:"La domanda si innesta su quello che ho appena detto. Tony per me è un personaggio che funge da perno a tutto un cambiamento di un periodo storico: è un vecchio militante, è un giornalista, ruolo che hanno assunto molti vecchi militanti, non vi è un movimento, c'è lui, lui di fronte a queste manipolazioni o a qualche cosa del genere. Credo che sia perduto che, per esempio, non creda che la sua inchiesta abbia veramente importanza, che possa cambiare qualcosa, egli fa questo di riflesso, è una vecchia maniera di reagire ma nello stesso tempo procede in questa storia un po' come uno zombie e non so se è diventato democratico e pacifista, credo che il modo in cui è ossessionato dalle armi, il modo in cui parla delle pistole riveli che egli comprende che il potere funziona sempre attraverso la violenza. Credo che certamente non lui abbia un' idea di come essere pacifista, credo che la vera questione del pacifismo individuale, il momento in cui ci si dice:"Io non credo nella violenza, può darsi che tutto funzioni con la violenza, che ogni predominio dell' uno sull' altro funzioni così e io non posso procedere in questa direzione" emerga nella figura di Doc, in "Doc's Kindom" c'è la necessità di difendersi a cui segue il lancio della pistola nell' acqua. Non credo di potere risolvere la questione della violenza, vedo questa ossessione della violenza emergere nei miei film fin dall' inizio con "In the Country" con il tipo con la mitraglietta, in "Ice" con l' idea di assassinare il presidente, questa si attenua in "Milestones" ma ritorna con "Scenes from the Class Struggle in Portugal" ed è sempre là ed è in me perché è nel mondo, contesto regolato dalla violenza. La guerra del Golfo è più terribile della guerra in Vietnam perché non vi erano delle immagini, non vi era niente, c'era un buco in cui si buttavano tutte le notizie, è un' immagine più pesante del Vietnam per me, per quanto riguarda il Vietnam non ho mai messo in discussione che dall' altra parte vi fosse qualcosa che resisteva a tutto questo. Non credo che l' evoluzione sia inevitabilmente democratica e pacifista, non saprei come uscire da questa situazione perché non ho nessun contatto o fiducia nella macchina politica, credo che non si ponga la giusta attenzione a tutti questi problemi, credo che si abbia un vecchi linguaggio che copre certe valide idee, parole come comunismo o socialismo coprono quelle idee di cooperazione, di non competizione, di altri modi di risolvere i problemi che devono essere perseguite, ma non ho alcuna idea di come possa attuarsi questo meccanismo. E' vero che la violenza diviene sempre più ridicola di fronte a tutto questo o sempre solo più un gesto, gesto di resistenza o qualcosa del genere che capisco bene per esempio in Giappone, quando si parla dell' attentato al metro, in questa società si dice che era inevitabile, società in cui vi è una forte dominazione tradizionale e nello stesso tempo una veloce evoluzione tecnologica e industriale in rapporto alla quale le istituzioni non sanno cosa fare, vi è questa consapevolezza presso i giovani e lo si vede in quasi tutti i film giapponesi e la violenza si presenta molto più in questo modo nella nostra situazione: un ricorso a qualcosa di inevitabile, ma questo non significa che sia un bene, di fatto non so come sia fatto Tony, come finisce "Guns", nel finale di "Guns" egli prende una pistola e va dentro un' abitazione, può darsi che sia da parte mia un desiderio di non dire che l' evoluzione inevitabile sia democratica e pacifista a quell' epoca. Non ho idea di che cosa faccia in quella casa con una pistola, può darsi che per continuare quell' inchiesta debba procedere con le armi in mano.
Redazione:"La figura della creazione di un vaso di terracotta è ricorrente nei tuoi film, che significato ha per te?"
Robert Kramer:"Di fatto c'è un buon numero di ceramiche, di terrecotte, di vasi nei miei primi film, vi sono in "Ice", in "Milestones", la ragione della loro presenza per esempio in "The Edge" è molto complicata: da un lato essa è in rapporto ad un estetismo che nel film è molto forte nel modo in cui è girato nell' insieme, rappresenta la fascinazione che la bellezza della creazione di un oggetto esercita su di me e di conseguenza su tutte le persone intorno: l' osservare qualcosa che sta nascendo, d' altra parte si collega ad un interrogativo legato all' aspetto narrativo del film: "Chi è la persona che parla con i poliziotti?". Infatti il film è completamente permeato dalla presenza della polizia fin dalle prime immagini che mostrano delle foto segnaletiche con le indicazioni sul personaggio, c'è una sorta di impotenza totale, a questo livello di lettura, a cui si perviene ad una seconda visione del film, emerge in modo significativo il fatto che vi sia qualcuno in quella casa che parla con la polizia e vi sono dei personaggi che si accusano a vicenda di essere quella persona. Nel momento in cui l' oggetto sta per essere terminato si sente un rumore di ufficio e il poliziotto ritorna sul ceramista rimasto solo, per me, questo non è tanto importante per il film, ma per me è lui quella persona dal momento che tutti gli altri anche se sono intimoriti e paurosi sono ad un livello o ad un altro molto politicizzati, diciamo a livello di coscienza, mentre lui è completamente in un altro mondo. Può darsi che questa idea derivi dalla mia paura che il mero perseguimento estetico sia estremamente pericoloso e possa portare ovunque anche molto lontano dalle idee di base di quel periodo.
Credo che la forma sia un' immagine molto positiva quando sia più astratta possibile, non legata all' idea di utilità, di servire gli altri, per esempio in "Milestones" il ceramista è cieco, completamente concentrato su se stesso.
Redazione:"Ha senso parlare di docu-fiction per film come "The Edge" o "Ice"?"
Robert Kramer:"Se la vostra è una buona rivista smetterà immediatamente di parlare di documentari e di fiction, parlate dei film e che tutto questo è illusione, nell' organizzazione di un mondo piuttosto che di un altro ci sono modi diversi, mi è piaciuto il modo in cui Godard ha mischiato questo con quello, è piuttosto questo il modo di parlarne, perché non è mai un documentario anche se si conosce ciò di cui si parla, un soggetto che ha un po' più di realtà al suo interno è pur sempre un' impressione di come si vedono le cose. Per me procedere in questa direzione è stato molto naturale, sono stato fin dall' inizio sulla stessa lunghezza d' onda di coloro che facevano "cinema verità", "cinema diretto", trovo che siano altri modi di suggerire cosa si vede e come si vede, trovo che tutto il lavoro interessante negli ultimi vent' anni vada in questa direzione. L' unica cosa che conta è l' immagine e per di più per lo spettatore il problema di discernere la realtà delle cose non cambia se tu gli dici questo è un documentario e questa è fiction. L' interpretazione dello spettatore è fondamentale per noi che abbiamo cercato di dare l' intensità maggiore all' immagine per farla procedere in una certa direzione.
Redazione: Quello che emerge non è il personaggio ma l' uomo."
Robert Kramer:"Si anche se è un attore professionista, il problema con gli attori conosciuti sta nel fatto che è molto difficile fare emergere la persona attraverso il personaggio, attraverso la maschera; qui è molto bravo Godard che non solo ha compreso ma ha anche accettato che non vi è una persona vi è Alain Delon, vi è Brigitte Bardot, vi è la maschera.
Redazione:"Doc in "Rout/One" è per te un alter ego?"
Robert Kramer:"Si, ma anche un vero compagno di viaggio, qualcuno che ha vissuto tutte le cose che io ho vissuto anche se in modo diverso, per di più noi eravamo amici da lunga data, dunque un alter ego ma come lo sono gli amici, gli amici sono di fatto inseparabili, due persone ma in separabili. E' importante che in "Rout/One" vi siano due persone, due personaggi, c'è Doc e ci sono io/Robert.
Redazione:"E con voi ci siamo tutti noi perché il tuo occhio è il nostro."
A cura di Adriano Boano, Angela Camerano e Giampiero Frasca
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