NearDark
database di recensioni
Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!
Tano da morire Anno: 1997 Regista: Roberta Torre; Autore Recensione: Andrea Caramanna Provenienza: Italia; Data inserimento nel database: 02-12-1997
La trama
Tano Guarrasi, boss mafioso della Vucciria, viene
ucciso nella sua macelleria. Le quattro sorelle lo piangono
insieme a tanti amici. Cessata la gelosia opprimente di
Tano, una delle sorelle, Franca, può sposarsi, ma il
fantasma del fratello assassinato incombe sui vivi e
matrimonio e funerale rischiano di confondersi
"Musical... da morire"
Da molti anni la Torre dimostra coerenza stilistica e
scelte coraggiose. Ricordiamo i più recenti
cortometraggi La vita a volo D'Angelo, dedicato a
Nino d'Angelo, e Verginella. E adesso il
lungometraggio, vero banco di prova di ogni autore, non
fosse altro che la misura media - i fatidici novanta minuti
di riferimento - costituiscono giocoforza l'accettazione
più o meno consapevole di uno standard (sulla
strutturazione del tempo filmico Tano da morire
rivela qualche limite come analizzeremo più avanti).
Ma parliamo prima di tutto del "girotondo mediatico" che
ha accolto l'opera. Non si vuole qui discutere sui
meccanismi perversi, spesso oscuri, dell'informazione
giornalistica degli ultimi anni. Più che altro i
suddetti ci forniscono il primo elemento di riflessione: il
trattamento cinematografico dell'iconografia mafiosa.
È facile rilevare l'approssimazione di molte
affermazioni: sfatiamo subito l'opinione che al cinema la
mafia non sia stata sbeffeggiata. Perché ci si
ricordi solo delle varie Piovre o del filone stile
Dimenticare Palermo e non de L'onore dei
Prizzi di Huston, di tutto Scorsese sull'argomento (da
Quei bravi ragazzi a Casinò), di
De Palma (Scarface... non c'era sempre un'atmosfera
sovraeccitata e burlesca accanto all'orrore del sangue?) e
perché no dei bravissimi Franchi e Ingrassia
(L'onorata società), e gli esempi potrebbero
continuare a lungo, è un fitto mistero. La Torre si
è trovata a fronteggiare due schieramenti: quello
sempre un po' sciacallo dei politici che facevano a spintoni
per strumentalizzare Tano e quello dei parenti di vittime
della mafia che, più allarmati dai media che dalla
visione del film (rara quest'ultima), partivano in quarta
con dichiarazioni di ogni tipo (di cui la preferita: "non si
può scherzare sulla mafia").
Ma andiamo al film. La forma-musical permette al meglio
di lavorare sulla scenografia, di spingere sugli eccessi
evitando - come dice la stessa regista - di assumere
posizioni morali. Appare straordinario il melting pot
cromatico supportato dalla fotografia smaltata di Daniele
Ciprì, enfatizzato da rigorose inquadrature frontali
(di gran lunga privilegiate). Ma ci sono anche le soggettive
del cadavere, gli espressivi e intriganti stop frame, i
ralenti. È un musical favola, favola che si nutre di
miti popolari, di miti che vengono distrutti, ma
dall'interno, nella deflagrazione grottesca delle masse
corporee, nelle buffe mossette, nei balletti sgangherati,
nei costumi kitsch degli anni settanta, nelle ricostruzioni
di interni che suonano false. Una messa in scena con
ascendenze teatrali, dove le luci nel palco fanno apparire e
sparire i personaggi come fantasmi, esseri che abitano un
mondo di cellophane, claustrofobico, avvolto
dall'oscurità (al mercato della Vucciria la luce del
sole filtra a fatica), dove la Morte e la Vita si incrociano
in continuazione, ma in maniera scenica, teatrale o
condannate all'eterna rappresentazione. Le musiche del film,
ma più che altro i suoni della scena, sono
perfettamente fusi con l'iconografia rappresentata. Nino
D'Angelo che ha composto gran parte della colonna sonora
è riuscito con naturalezza a passare dal pop (nel
senso originario del termine "popular") al rock e la disco
anni settanta fino al rap senza creare scompensi al ritmo
del film, anzi sottolineando al meglio i particolari
più piccoli di ogni scena (che irresistibile quel
polpo che danza o i cappelli pescespada dalla
parrucchiera!).
Rimane quel peccato veniale di cui si accennava
all'inizio. Fare un film di, o che va comunque verso i,
novanta minuti significa adeguarsi anche a determinati
assemblaggi. La Torre per fortuna, lo ha fatto, abbandonando
il metodo classico (siamo nella postmodernità,
superato il problema della trama lineare dunque).
Ciononostante il film mostra in qualche episodio ripetuto
(vedi i flashback) il respiro corto. Forse il materiale
girato non era maturo per un lungometraggio, forse si, ma
è solo questione di
opinioni...
|