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Zir-e Poost-e Shahr
Anno: 2001
Regista: Rakhshan Bani Etemad;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 24-11-2001


Zir-e Poost-e Shahr - Rakhshan Bani Etemad

Zir-e Poost-e Shahr

di Rakhshan Bani Etemad

fotografia: Hossein Jafarian
montaggio: Mostafa Kherghepoush
scenografia: Omid Mohit
suono: Ashgar Shahverdi

Iran, 2001, durata 95'


Il marchio di fabbrica iraniano si rileva dall´epilogo, che completa il prologo – riprendendo la fattura di intervista in video della stessa lavoratrice con cui esordiva – e fa tesoro di tutto il racconto per riportare alla situazione iniziale, ma – come nel più sano neorealismo – avendo acquisito una coscienza di sé, dei propri diritti, riportando un´analisi dei sacrifici e degli abusi (in particolare sulle donne, rilevati da una donna che durante il film si sente accusare dal figlio di essere, con i suoi insegnamenti, causa della remissività della figlia), e addirittura si arriva a un grado di consapevolezza tale che l´ultima accusa e richiesta di controllo riguarda proprio il film e il suo destinatario finale, l´uso che si può fare di immagini e racconti ("E poi questi film a chi li fate vedere?", è la battuta finale); il guaio è che si indica come paradigma auspicabile il risultato finale di questa crescita nel voto e il formalismo linguistico corona quell´atteggiamento attraverso la prassi per cui il mezzo video sarebbe quello che consente di comunicare maggiore verità rispetto a quella che viene raccontata dalla fiction, che è invece materia precipua del cinema e dunque si dipana secondo canovacci narrativi e caratterizzazione dei personaggi che in questo caso dimostrano con evidenza la scuola iraniana, non peritandosi di coprire per nulla i diversi tipaz delle figure messe in scena.

E in effetti la sceneggiatura è costruita in modo che non si possa identificare il racconto come plausibile per la pletora di sventure che si accaniscono su quel nucleo famigliare: come sempre, accade di tutto a quei poveri sfigati che il sadismo degli autori ha voluto mettere in scena per fare un sunto di tutte le sventure che possono capitare nella attuale società persiana. Quella moderna ‘madre coraggio´ lavora, mantiene una famiglia, rifugio a cui talvolta torna la figlia debole, picchiata dal marito, deve comporre i problemi del figlio e va a ripescare l´altra figlia finita in galera per generosità nei confronti della amica vicina di casa, figlia della collega dell´eroina stessa, massacrata dal maschilismo del fratello, mentre il marito e il figlio maggiore le vendono la casa di nascosto. Un plot reso complesso per farci rientrare tutti gli aspetti più negletti della vita in Iran, in cui spesso emergono allusioni a volantinaggi e dispute politiche, più sovente si additano le storture di una condizione femminile non più tollerabile anche da vari strati della società civile, quelli più giovani e sani sembra giudicare il regista, purtroppo le varie caratterizzazioni sono così standardizzate, che si possono prevedere gli sviluppi dei singoli destini personali.

È sicuramente il documento di maggiore lucida denuncia della condizione femminile (Panahi scompare con la sua ambiguità di fronte a questa esplicita condanna della tradizione, che non a caso proviene da un'autrice), che viene salutato da salve di applausi del pubblico reso partecipe dalla strenua resistenza della figlia emancipata; è anche la prima volta che nel cinema iraniano si assiste a riprese di produzione industriale: telai meccanici assordanti, pesanti e perennemente in funzione con movimenti rigidi manovrati da donne in nero, che all´uscita fanno veleggiare il chador con guizzanti e repentini svolazzamenti aggraziati, rendendo danza persino quell´indumento a cui devono sacrificare il corpo (molte volte capita di sentir ripetere da un maschio: "Metti dentro i capelli", è addirittura la primissima battuta volta a redarguire l´operaia-madre del film, intervistata nel video).

I vari caratteri sono tutti rappresentati in questa fotografia collettiva (un po´ troppo schematica), che adotta un andamento "a fisarmonica" molto garbato nella sua classicità: ognuno dei molti componenti la famiglia viene introdotto attraverso siparietti autonomi (il ragazzino rivoluzionario distribuisce volantini, la figlia assennata e diligente conforta la vicina su una scala che supera gli steccati, il padre debole e invalido intento a occultare documenti dietro a cornici, Abbas pieno di buone intenzioni, capace, affidabile…) che poi si compongono in una prima prova corale nella uscita serale in pizzeria, un evento da cui si sviluppano ulteriormente in modo indipendente per poi radunarsi di nuovo attorno a quel cortile – adornato da pianticella metaforica, notata solo dalla madre – ad ogni momento di crisi scatenatasi, che finisce con il privilegiare la figura della madre, su cui gravano tutte le soluzioni da inventare.

Un po´ forzata è la speranza di migliori condizioni di vita in seguito all´agognata migrazione in Giappone, a cui si tenta di dare una spiegazione rabberciata, ma che doveva forse spalancare un capitolo di questo compendio sociologico, per fortuna solo sfiorato, visto che invece l´ampio spazio dedicato all´episodio di traffico di stupefacenti (affascinato dalla possibilità di uscire dal cortiletto per allargare lo sguardo su una livida alba innevata sui monti) risulta fuori tema ed esagerato.

Si ha l´impressione di assistere a un surplus di esorbitante materia, che soffoca le ottime intenzioni, che affiorano talvolta maggiormente nella cornice e nel coraggio femminista.