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Gannat al Shayateen - Il paradiso degli angeli caduti
Anno: 2000
Regista: Oussama Fawzi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Egitto;
Data inserimento nel database: 07-10-2000


Gannat al Shayateen

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Gannat al Shayateen

Regia: Oussama Fawzi
Sceneggiatura: Mustapha Zekri, liberamente tratto da Jorge Amado
Fotografia: Tarek el Telmessani
Musica: Fathi Salama

Interpreti: Mahmoud Hamida, Lebleda, Amr Waked, Sari Al Nagar, Saleh Fahmi,Caroline Khalil, Menha Zeytoun et Safwa, Menha Al Batrawi, Maged Kedwani.
Distributore: K-films, 15 rue de Saintonge, 75003 Paris, tel 33 01 42747014 fax 33 01 42747024, email [email protected]

Egitto,
2000

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Non è un caso che i loculi aperti del cimitero di Il Cairo siano i giacigli per molti barboni.

Sorprendente è il rapporto con la morte in questo film, che dimostra come gli egiziani abbiano una relazione privilegiata con la presenza della morte nella vita. In questo caso il concetto viene ribadito più volte citando la frase più cara al defunto, principale attore protagonista: "Niente è più vivo della morte". È opportuno avvicinarsi al testo per confronti esclusivi: La sensibilità sudamericana, da cui è molto liberamente tratto il film, traduzione quasi irriconoscibile di Dona Flor e i suoi due mariti di Jorge Amado, avrebbe accentuato i toni surreali e onirici, che invece nel lavoro di Fawzi si amalgamano con la realtà, confermando che lo spazio africano è occupato contemporaneamente da spiriti e umani, come si diceva a proposito di Adwa. In questo caso questa peculiarità è accentuata dalla presenza costante di Tabel sullo schermo, ripreso sotto ogni punto di vista, in ogni sua manifestazione, spontanea (i proverbiali calcetti del morto, come la estrazione della lingua al momento opportuno per accentuare la comicità della situazione) o per intervento altrui, come nel caso della splendida ripresa del lavacro a cui viene sottoposto, uscendone nuovamente trasformato: una lentissima panoramica verso il basso a partire dal volto congelato nell'espressione enigmatica di riso beffardo; il movimento percorre tutta la lunghezza del cadavere, movimentandone la superficie attraverso le gocce d'acqua che s'insinuano dovunque scorrendo sulle foto di un passato, che ritrae con preciso realismo quella realtà, la quale unica, proprio per la sua veridicità, appare come appannata rispetto alle molte svariate modalità di approccio alla morte.

Ancora maggiori sarebbero le disparità se si confrontasse il testo africano con qualche altro film di gusto occidentale sull'argomento del cadavere portato a spasso dagli amici: ne risulterebbero macabre pellicole, venate magari da humour britannico o fatalismo mediterraneo, gli americani lo sfrutterebbero per scollacciate demenzialità o, ben che andasse, per satira di ambienti infestati metaforicamente da zombie. Invece Fawzi crea un palcoscenico dove trovano cittadinanza le più svariate forme di elaborazione del lutto, attraverso le quali emerge la personalità del morto, che in questo deambulare notturno trova la sua degna cerimonia funebre: l'omaggio del suo mondo.

Anzi dei suoi mondi e dei variegati affetti appartenenti al tempo in cui era uno stimato funzionario, come - e soprattutto - agli ultimi anni da clochard popolati da puttane e dropout. L'intero film si dipana nella notte della città deserta e anonima: Il Cairo per nulla esotico fa da sfondo all'elaborazione del lutto, che in virtù del fatto di presentare sempre in scena il cadavere ha gioco facile a mostrare le innumerevoli sfaccettature del rapporto con la morte, che non si limita come in occidente a esorcizzare la morte per i vivi, ma coinvolge il protagonista della veglia in ogni manifestazione: partecipa ad una rissa, scatenata e ripresa in modo naturale, perché la macchina da presa partecipa essa stessa della concitazione, le bottiglie si rompono attorno a lei; si accenna ad una lotta tra lui e l'amico che ha scoperto l'assenza di valore dei suoi denti d'oro; è centrale nei giochi da caserma che coinvolgono le puttane; ma è anche oggetto di amore da parte delle ragazze. Quest'ultimo è l'aspetto più curato perché evolve dalle parole iniziali che considerano estraneo il corpo, non riconoscendovi nemmeno più Tabel, fino al recupero dell'intera persona attraverso quel corpo, dopo averlo sottoposto alla medesima evoluzione della sua vita: riportato dalla figlia nell'alveo familiare, viene ricondotto sulla strada dagli amici, svestito e rivestito più volte, replicando il suo percorso da borghese a barbone. Questo corso e ricorso del suo destino consente l'estremo saluto alla "sua" puttana, che in modo struggente lo lascia andare passando subito dopo a fare all'amore con uno dei tre amici, sostituto benedetto dal cadavere che giace sul sedile accanto alla nuova coppia.


L'atteggiamento femminile nei suoi confronti è quello meglio tratteggiato e più complesso: dalle puttane alla figlia, per la quale la morte significa recuperare la memoria integrale di un padre rifiutato dal momento che aveva abbandonato la famiglia, che riesce a comprendere il bisogno di estrema libertà di quell'uomo e teneramente riconciliata con lui, concedergli una libertà postuma, affrancandolo dalla sua immagine fissata nelle foto che campeggiano dovunque, proponendo in un grottesco riassunto la sua vita precedente, rifiutata dal suo riso di scherno stampato (nemmeno troppo rigidamente) sulla faccia del cadavere. Il grottesco non si limita al contrasto tra la famiglia ipocritamente contrita e l'espressione del morto, beffarda - presente eppure già distante per atarassia - e partecipe; emerge negli scherzi: la rana che sostituisce il morto nella bara, i liquori lasciati colare nella bocca aperta dalle sue particolari accompagnatrici, ognuna scelta per offrirgli una forma di rimpianto.
Alcuni momenti di intuizione particolarmente felice sono quelli più originali ed esilaranti: il lungo episodio che prelude al trafugamento della salma, dove i tre amici rinvengono la possibilità di sconfiggere la morte rapportandosi con il corpo morto senza avere la mediazione di un qualunque rito e quindi ne creano uno adatto al personaggio. Ma anche gli sporadici incontri, che permettono a ciascun amico di esprimere privatamente quale sia il suo più intimo atteggiamento verso la morte: dall'episodio della targa a quello dei denti d'oro. Infatti tutti quanti siamo proiettati verso la morte e con una bella ripresa in un lungo tunnel dal quale il furgone scassatissimo non uscirà, il nostro sguardo rimane intrappolato con loro, proiettato al contrario, con un bell'effetto sperimentato dall'Underground americano di capovolgimento della cinepresa al momento del superamento del furgone che lo colloca come una navicella spaziale sul soffitto del tunnel. Dissolvenza al buio, fine nel buco che inghiotte tutti quei personaggi che il morto (o a questo punto la morte?) ha continuato a osservare con sarcasmo per tutto il film, rivolto anche verso di noi, coinvolti nella corsa all'interno del tunnel.