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Badîs
Anno: 1989
Regista: Mohamed Abderrahman Tazi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Marocco;
Data inserimento nel database: 01-02-2001


Badîs

 

BADîS

regia
Mohamed Abderrahman Tazi

sceneggiatura
Nourredin Sail, Farida Ben Yazid
interpreti
Maribel Verdu, Jilali Ferhati, Zakia Tahiri, Naima Lamcharki, Bachir Skirej, Aziz Saad Allah, Miguel Molina

provenienza: Marocco 1989
durata: 90'


 

 


Meditazione sui brutali recinti entro i quali il machismo e il fascismo, fondati sulla cecità della tradizione al servizio del potere maschile, rinchiudono tutto ciò che può dare gioia: due donne in un enclave spagnolo in Marocco sono recluse, controllate, spente da un maestro incapace di amare sua moglie senza possederla esclusivamente; egli è rigido nei suoi rapporti con i più deboli, sia la moglie - giudicata ribelle e accusata di comportamenti troppo libertini, quando erano a Casablanca - che i suoi allievi sono irregimentati, inquadrati e puniti militarmente, a fronte di discorsi panarabi, inseriti per dimostrare come l'autoritarismo possa allignare anche e soprattutto nell'ipocrisia della cultura. Il suo degno contraltare è un incolto pescatore franchista, esaltato solo dai suoi racconti della sua adesione alle milizie del generalissimo; la loro intolleranza rinfocolata dall'atteggiamento ottuso dell'intero villaggio, che nell'oscurantismo trova motivo di rivalsa tristemente ammantata di moti anticolonialisti. Infatti addirittura il regista amaramente mostra la mobilitazione della folla manipolata attraverso un dettagliato meccanismo di uso dell'ideologia a scopi personali. A questo proposito è emblematica la sequenza in cui la cittadinanza è aizzata e sobillata contro il soldato spagnolo, spasimante segreto della bella figlia del pescatore, con la menzogna della minzione nella polla d'acqua a cui attingono tutti: la gente è anonima truppa ripresa in campo lungo, si avvicina minacciosa al fortilizio mentre in senso contrario si muove il soldato ripercorrendo lo stesso tragitto, mirabilmente preparato dal racconto delle occupazioni quotidiane (di nuovo in montaggio parallelo tra quelle della ragazza e quelle del soldato) e dalla descrizione cadenzata del percorso con il mulo fino alla sorgente. Ciò che appariva un lento, ozioso tran-tran in una sonnacchiosa provincia va a contrapporsi allo scontro di volontà che non si esprime con la violenza o accelerando con movimenti più agitati, anzi le inquadrature si fanno più statiche; la contrapposizione è tra le masse fisiche: da un lato il pescatore e il maestro con la folla alle spalle, dall'altra il soldato e il mulo. Il movimento di quest'ultimo è unico, lineare e definitivo. Lì comincia a prendere forma la tragedia: il soldato fa dietro front e viene rimpatriato.


Si tratta di una coraggiosa descrizione di quali calcoli nascondono le sollevazioni pilotate da leader privi di scrupoli, meccanismi scomodi che nel film si confrontano con la plausibile voglia di libertà e di espressione castrata: fin dall'inizio del film la giovane, intenta nelle pulizie, accenna un ballo con la scopa, sequenza allusiva ai momenti successivi di ballo, sempre significativi; probabilmente Benadji tenne conto di questa scena ripetuta dal ragazzo emigrato in L'albero dei destini sospesi. L'espressione estatica della ragazza è prolettica del finale e viene richiamata una seconda volta nel ballo clandestino con la sua maestra improvvisata e complice, che condividerà il drammaticissimo e cruento finale: il ballo assurge dall'iniziale svago al piacere segreto fino alla ribellione degna della lapidazione finale.

Una frase è rivelatrice di un sistema cogente fondato sull’oppressione in virtù del comune senso della convenienza etica: "La città non ti nasconde più. Non farai come a Casablanca", dice il maestro facendo il paio con la rassegnata ragazza: "Tutta la città mi sorveglia". E infatti la posta è bloccata dal più losco degli autoctoni, il sordido ambiente provinciale tiene d’occhio gli unici due elementi che possono apportare rinnovamento e turbolenza: la colta insegnante di città e la ragazza perturbante per la sua bellezza; il loro destino è accomunato dal montaggio parallelo del loro maquillage, che non potrà mai essere apprezzato da nessuno. La serenità viene interrotta dall’arrivo dei due uomini: il marito vieta adirittura l’uscita a Toura e Moira si nasconde sotto le coltri al rientro del padre, lasciando spazio allo spento villaggio e al laconico commento musicale ossessivo. Desolante.



Ma oltremodo disperata è la condizione femminile: le due donne complici per i maneggi e le mire del maestro sono sottoposte al volere sciovinista perché ipocritamente il maestro si inventa una scusa per blandire il proprio desiderio sessuale della giovane Moira, invitata a imparare a leggere l’arabo dalla moglie "per capire le basi dell’Islam", in realtà per poterla rimirare. Si tratta di un altro segnale della polemica degli autori contro l’uso a fini personali della religione – quella islamica come le altre – e dell’utilizzo incongruo della categoria di anticolonialismo ("È la colonizzazione che continua", una ferita aperte e sensibile, spalancata in malomodo per dimostrare che si possono sventolare le bandiere più nobili per i fini più infimi).

Il secondo episodio di ballo può avere le valenze attribuibili alla sequenza di Baise-moi, nella quale le due serial killer danzano mollemente da sole in camera: un momento di seduzione (non necessariamente saffico), di corpi femminili liberi di dare sfogo al proprio bisogno di sentirsi libere da ingerenze maschili e dai controlli della società. E non è casuale, né sorprendente che sia una donna a raccogliere e lanciare la prima pietra della punizione per la fuga nella circolare e angosciante ultima sequenza: lei, rabbiosa custode di una tradizione che le ha impedito di vivere degnamente la sua femminilità, non può consentire che venga concesso a loro.
L’allusione a Nixon, oltre a consentire una collocazione dell’intreccio nei primi anni ’70, offre un elemento in più per connotare l’universo del potere, maschile e ligio ai canoni della destra più reazionaria: il pescatore franchista, il maestro fondamentalista, il presidente maccartista).