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La cinquième saison
Anno: 2012
Regista: Peter Brosens; Jessica Woodworth;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Belgio; Francia; Olanda;
Data inserimento nel database: 13-09-2012


Guardando il bellissimo film La cinquième saison dei registi Peter Brosens e Jessica Woodworth mi è ritornato alla mente il libro di Wolfgang Goethe: Le affinità elettive. Un elegante e raffinato conte suggerisce una maniera – bizzarra - per trascorrere le serate in una ricca casa borghese tedesca: “Trovo qui tante belle persone, alle quali non manca certo la possibilità d’imitare movenze e atteggiamenti pittorici. Non hanno ancora provato a rappresentare al vero quadri noti? È una riproduzione che costa fatica per i preparativi che richiede, ma riesce poi attraentissima.” Si prende un dipinto, più o meno famoso, si convocano architetti e costumisti, si utilizzano i membri e amici della famiglia e si mette tutti in posa per la ricostruzione esatta del quadro scelto: un tableau vivant. Lo stesso procedimento deve avere alimentato la fantasia dei registi belga, anche se nel cinema ci sono altri esempi. Siamo in una piccola comunità di campagna del Belgio. La vita procede nella quotidiana lentezza, i contadini osservano il passaggio delle stagioni con tradizionali balli e processioni. Nonostante le distanze con le città, anche in questo villaggio non tutto è semplice. Ci sono persone arrivate da lontano, estranei nei modi, ma ugualmente possessori di una sensibile umanità. Gli amori nascono, le gioie pure. La tradizione può essere pace ma anche foriera di difesa inconsulta. Non c’è un tentativo di storia classica, ma solo un’esaltazione visiva del paese e dei suoi abitanti. Essi appaiono in tante posizioni, in una molteplicità di posture, proprio come se fossero una rappresentazione umana di un dipinto. Le scene hanno una frammentazione, si consumano e terminano con un istantaneo blocco. Tutti aspettano il momento conclusivo dell’artista. Al segnale si riprende ma con lentezza, fino a raggiungere un altro stop. E così via. Tutti i momenti, sommati, rappresentano la trama, a volte assurda, ma anche verosimile come deve essere un’opera d’arte. Il film è esaltazione visiva, goduria degli occhi, con dei tableau vivant continui, belli, geniali. Per raggiungere questi momenti ci sono inquadrature corali, come l’affascinante ballo di gruppo o la processione per l’accensione del falò o il terribile corteo per l’accensione di un altro rogo: quella della barberia e dell’odio. Raggiunto il luogo o lo scopo, i personaggi si pongono nella loro posizione precostituita, determinata in precedenza per lasciarsi godere dal pubblico. Gli avvenimenti sono esaltanti, ma riproducono anche il desiderio di fuga dal villaggio. La scarsità di parole, le visioni artistiche dei registi, le immagini impossibili, i sogni irraggiungibili, l’ironia funesta consentono una miriade di chiavi di lettura della storia. Perché, pur non possedendo la linea consueta di una trama, le storie esistono e irrompono nei nostri sentimenti. Ognuno di noi leggerà gli accadimenti con il proprio barometro emotivo. Primi piano si alternano a campi totali, dipende quale aspetto si vuole impressionare. Inoltre colori, fotografia, scenografie volutamente minimaliste e scarne consentono di riprodurre la visibilità filmica. Le immagini, i fermi degli attori sono un commento pittorico i quali determinano la bellezza e la stranezza del film. Il villaggio è un mondo suo, non c’è altra vita. Alcuni sono arrivati, ma perché? C’è solo un segno, una manifestazione dell’esistenza di altre entità umane; non si vedono, ma si sentono: sono aerei militari che attraversano il paese rumorosi e agghiaccianti.