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Il figlio di Bakunin
Anno: 1997
Regista: Gianfranco Cabiddu;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 05-11-1997


Sarà esistito davvero Tullio Saba, o è solo una nostra speranza, che si trasfigura in un mito? Una proiezione della nostra coscienza, rigurgito affiorante dai tempi ribaldi in cui si poteva essere antagonisti? La regia di Cabiddu riesce a mantenere l'enigma irrisolto. E a conseguire questo risultato si adoperano: la struttura, costituita dalle interviste di un'inchiesta molto realistica; l'organicità della storia, che restituisce una figura a tutto tondo con i racconti circostanziati di personaggi indiscutibilmente reali, e contemporaneamente la loro contraddittorietà, che relativizza le singole interpretazioni, restituendo l'atmosfera della Sardegna tra gli anni '20 e '50, attraversata da lotte di emancipazione e dalla repressione del fascismo prima e della dittatura delle compagnie minerarie colonizzatrici poi.

Il mito viene creato da noi stessi: accettando di stare al gioco di rammemorazione, che fa convivere il ricordo dei testimoni con l'azione che descrivono, gli spettatori ammantano di epicità le radici della narrazione medesima, reagendo ad un bisogno di eroi, che non trovano spazio nell'attualità, perché quella messa in moto da Tullio Saba è comunque una contrapposizione al potere istintiva, una ribellione scanzonata e beffarda, mal sopportata da qualsiasi apparato e da qualunque capo o funzionario dileggiato o giustiziato con la solidarietà di un intero paese: un inno all'individualismo libertario.

Per comprendere meglio il meccanismo che coinvolge lo spettatore nella ricerca delle tracce lasciate dalle idee libertarie in Sardegna si deve tornare a prendere in considerazione la forma, che si fa sostanza durante il dipanarsi del film. I personaggi odierni che parlano guardando in macchina, più che evocare Citizen Kane, hanno la stessa carica eversiva di Lola Darling: sono persone vive, seppure immaginarie, credibili, benché di fantasia, toccate tutte in vario modo dalla conoscenza che fecero del protagonista, anch'egli autentico e inesistente, ed ognuna capace di restituire un piccolo tassello della sua esistenza libera. Ma questa operazione ne innesca due altre: rivelando gli aspetti più diversi della personalità di Tullio Saba, tutti svelano la loro natura più intima e di conseguenza attorno alla figura misteriosa del sovversivo si dischiude un intero mondo, tratteggiato nei più minimi dettagli, senza dover sottostare alla dittatura di una trama lineare e automaticamente si percorrono avanti e indietro quegli anni formidabili.

Il pretesto per questa analisi antropologica, prima ancora che politica, è offerto nel libro di Sergio Atzeni dal recupero delle tracce di un padre mai conosciuto, che il film identifica con la macchina da presa. Insomma una soggettiva, verificata dal fatto che talvolta, prima di scatenare il flusso narrativo che sfocia nelle ricostruzioni a cui assistiamo, l'interlocutore che parla in macchina si rivolge all'obbiettivo come se noi fossimo un intervistatore. Il finale rivela il giovane con l'orecchino che si cela nella cinepresa, dividendo la nostre identità dalla sua, dopo aver frammentato in mille rivoli il destino finale di Tullio Saba, sfuggente e imprendibile come tutte le leggende.