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Jugoslavia: il popolo invisibile
Anno: 1999
Regista: Fulvio Grimaldi;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia; Jugoslavia;
Data inserimento nel database: 05-06-1999


Jugoslavia: il popolo invisibile

JUGOSLAVIA:
IL POPOLO INVISIBILE

video di Fulvio Grimaldi

Un viaggio. Una discesa in un paesaggio di rovine. Un video che non vedremo mai trasmesso dalla Rai targata NATO (come quello sulla sindrome del Golfo, che non ha mai trovato una collocazione in palinsesto nonostante sia stato prodotto dalla Rai stessa), perché il primo effetto che sortisce Jugoslavia: il popolo invisibile è quello di umanizzare il Paese smembrato e demonizzato. Un paese che aveva voluto mantenere la sua vocazione socialista, che aveva saputo ribellarsi a Stalin, che aveva fatto della multietnicità un collante, è stato smantellato proprio facendo leva sull'odio razziale fomentato dai soliti nazionalismi fascistoidi pilotati dagli interessi inconfessabili della solita grande potenza. Tutto ciò non è presente nel video, ma traspare come un non-detto ancora più presente del popolo fiero e consapevole di essere come sempre isolato dal consesso mondiale, solo nella sua mitologia di baluardo contro la barbarie.
Ma soprattutto si vedono le immagini censurate dalla propaganda americana: anche da quella parte del labile confine tra buoni e cattivi ci sono bambini vittime e corpi morti, cerei e scomposti. Anche di là ci sono persone che si chiedono perché devono subire una punizione per colpe non commesse.

In prima mondiale è stato proiettato questo video al Cineclub L'Incontro di Collegno il 3 giugno 1999. Si è trattato di un'anteprima, perché al Politecnico di Torino, dove nella mattinata si era tenuto un convegno sulla guerra in atto, la visione è stata interrotta dall'incalzare delle ben più importanti lezioni e dalla tracotanza degli studenti infastiditi da tutto ciò che può distrarli dalla loro preparazione al mondo del lavoro. E bene fanno perché invece i 38000 operai della Zastava sono stati espulsi da quel mondo, mentre facevano da scudo umano alla loro fabbrica ed ora vivono con il sussidio corrispondente a lire ventimila al mese. Nel video non avrebbero potuto trovare indicazioni tecnologicamente interessanti, ma solo officine sventrate, lamiere contorte, macchinari inaggiustabili. Grimaldi non rivela il piano già pronto per il rilancio con capitali occidentali di un'azienda distrutta dagli occidentali stessi, cita soltanto lo strano silenzio della Fiat (che partecipa al 43% della proprietà), lasciando allo spettatore il compito facile di tirare le conclusioni sui cinici interessi nascosti dalla ricostruzione.

Con il coraggio di questo suo lavoro Fulvio Grimaldi ci conforta in una convinzione rappacificante: l'organizzazione Lotta Continua non era composta soltanto di arrivisti burocrati come Boato Marco, impegnato a dar voce ai fascisti in materia di riforme (un tempo avrebbe detto lui stesso che abbiamo bisogno di quelle riforme come di un calcio sui denti), di venduti come Lerner Gad, leccaculo quale Liguori Paolo si dimostra quotidianamente dai teleschermi o bellicosi guerrafondai che riscattano la propria giusta libertà con esternazioni in appoggio alle bombe e proposte di risiko provenienti da quello che si considerava la mente pensante, il capo carismatico: Sofri Adriano trascina con sé nell'accanimento anti-serbo il mitico direttore del quotidiano legato all'organizzazione della "lotta di lunga durata", Deaglio Enrico; tutti hanno sostituito gli ideali di gioventù con il più confortevole elmetto NATO.
Ma lui no: Fulvio Grimaldi è andato in Serbia sotto le bombe, come il leader che patisce a Pisa la vendetta per il '68 andò a Sarajevo, ma non si è sognato di pretendere bombardamenti contro chi stava inquadrando nel mirino il pullman su cui viaggiava o pene detentive per i sadici ragazzini invasati dalla loro divisa da top gun che giocavano con i videogiochi radendo al suolo l'albergo che doveva essere il suo, se non fosse stato troppo caro. Un episodio raccontato aggiungendo un'ironia non casuale, da cui traspare il sottobosco di infiniti profitti complementari a qualunque guerra: "Un albergo non alla portata dei nostri portafogli già taglieggiati dai magiari": avevamo infatti appena visto nel montaggio di materiale girato durante la missione umanitaria che gli ungheresi avevano preteso il pizzo sui medicinali trasportati da "Un ponte per ... Belgrado", l'organizzazione che fu già impegnata per Baghdad ed ora cerca di mantenere nel consesso umano chi si vorrebbe da parte dei vertici militari alleati gettare in una condizione preistorica, come quella che attanaglia le genti irachene (un milione e mezzo di morti per embargo).

Domenica scorsa il giornalista del tg3 aveva offerto a il Manifesto un articolo velenoso contro le imprecisioni del sequestrato di Pisa, un brillante cervello che abbiamo amato da giovani e che perciò fa ancora più male vedere arruolato dai suoi stessi nemici. Quegli stessi che allora erano gli assassini del Vietnam ed ora sono i distruttori della Jugoslavia. Proprio questo aspetto fa sorgere il legittimo dubbio sui motivi per cui ad uguali meccanismi le stesse persone si schierano in modo tanto divergente: la visione del breve video (35'), rievocando un metodo schietto di denuncia nella tradizione di controinformazione, che lascia all'evidenza dei fatti i commenti, impone la riflessione sul fatto che il movimento contro la guerra risulti meno numeroso e deciso di un quarto di secolo fa: non può essere solo la diversità dello spirito del tempo, perché non possono divergere in ogni epoca i sentimenti scatenati dalla distruzione bellica. Non è possibile l'accettazione supina dell'insistenza pelosa sugli occhi smarriti dei bambini giudicati più buoni da altre telecamere che decontestualizzano un volto infantile giustapponendo un commento fuorviante (salvo poi in un servizio successivo riproporlo inconsapevolmente nella sua collocazione serba a dimostrare che è impossibile cogliere peculiarità discriminanti tra bambini buoni albanesi e mostri jugoslavi), che ben si guardano dal proporre gli scricchiolii sinistri del grattacielo bombardato, sottolineati in questo video descrivendo dall'interno pericolante della stessa costruzione ischeletrita quale era l'attività ora fantasma e che ancora aleggia nei vetri che un refolo aiuta a cadere. Troviamo nei bambini nelle incubatrici di Grimaldi un isolato richiamo ad una partecipazione diversa dalla commozione dei professionisti della lacrima televisiva: quell'immagine di assenza di scampo per mancanza di luce elettrica ci inchioda alla nostra responsabilità, perché siamo noi dall'altra parte del cavo ad aver eliminato la corrente e con lei la vita di quel neonato ignaro e la presenza del giornalista lì vicino all'inutile incubatrice, impossibilitato ad impedire la morte del piccolo, rappresenta la nostra forzata esclusione da ogni intervento: siamo solo spettatori e la carica che si avverte nel video non fa che accentuare paradossalmente la sensazione di essere relegati al ruolo di testimoni ai quali sono state truccate le prove per giudicare. Non c'è rabbia e forse nemmeno indignazione nel tono di Grimaldi: ma tracima lo sgomento per l'impossibilità della ragione a comprendere come sia possibile tutto ciò: non verbalizza mai la parzialità dell'informazione televisiva che da 73 giorni ci accompagna, ma sapientemente trasmette il messaggio con i dettagli, come quelli del ponte ripreso da vicino, squarcio vivo nella terra, simile a quello del finale di Underground, commentato etimologicamente disquisendo sull'origine della parola pontifex, facitore di ponti e quindi sardonico il giornalista trae la conclusione che "chi li abbatte non può che essere l'Anticristo". Ancora più beffarde e taglienti delle parole risultano le immagini, di cui appaiono controcanto e commento ironico, quando ad esempio descrivono momenti di convivialità tra nemici, perché le bombe che piovono sono lanciate da aerei italiani con piloti italiani che partono da basi dislocate in Italia in seguito all'ordine del Governo italiano eppure anche il target che il noto ecologista indossa anche nella tavolata di serbi che cantano Bella ciao è etichettato come italiano e talvolta sembra proprio essere nel mirino dei coraggiosi avieri che da 10000 metri colpiscono al riparo da qualunque punizione: la sequenza confusa dell'autobus restituisce realmente il panico dei passeggeri al momento dell'esplosione: "Se il semaforo non fosse stato verde …" ci colloca davvero in una condizione di fatalità, la vita dipendente da serie di casualità. Anche noi che vediamo le immagini ballonzolanti dell'operatore colto di sorpresa riusciamo a capire a distanza di tempo e spazio quali possano essere i pensieri di chi si trova ad essere bersaglio innocente di indiscriminati bombardamenti ben al di là della ovvia immaginazione suscitata dai racconti verbali dei nostri genitori e avi, bombardati quasi sessanta anni fa.

Grimaldi riesce a trasmettere in questo modo l'idea di paradossale follia che è la causa principale dell'esistenza degli apparati bellici ancor prima che la loro demenza scateni la parola "guerra", pronunciata la quale ogni nefandezza trova legittimazione. Il merito maggiore del video risiede nella evidenza del bisogno urgente di ricostituire una rete di controinformazione visibile e di spazi per diffonderla. Probabilmente la risposta al quesito iniziale sulla minore partecipazione emotiva alla lotta contro la guerra va ricercato nell'uso unilaterale dell'apparato informativo, ma soprattutto nell'effetto narcotizzante di decenni di squallore televisivo, che ha ottenuto l'effetto ricercato di ottenebrare le menti. Questa campagna dei balcani ha dimostrato al potere che tutto gli è ormai concesso.