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Un gelido inverno - Winter's Bone
Anno: 2010
Regista: Debra Granik;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 13-07-2011


“Non chiedere mai quello che ti dovrebbero offrire.” Debra Granik giovane regista americana ci scaraventa al di fuori della modernità delle grandi città statunitensi. Nelle metropoli anche la povertà ha un suo lusso, la delinquenza una sua organizzazione efficiente e moderna. Invece con coraggio e passione Un gelido inverno ci mostra una desolazione terrorizzante, senza onore e tutta meschinità. Siamo in un paese all’interno degli Stati Uniti. Un paese agricolo, di coltivatori ed allevatori. Il progresso economico è una favola. E’ una località claustrofobia, chiusa. Tutti si conoscono, sono quasi tutti imparentati ma non esistano a spararsi a vicenda. Le famiglie sono dei clan, delle caste. Funzionano come un esercito con un capo e dei soldati. Ree è una ragazza diciassettenne. La sua famiglia ha un casa in campagna con un bosco. Ci vive con la madre, diventata pazza volontariamente per rifiuto mentale della mediocrità della propria vita. Ha due fratellini molto più piccoli di cui si deve prendere cura. Il padre produce droga e ha problemi con la giustizia. Per uscire su cauzione ha concesso come garanzia la casa ed il bosco. Il padre non si presenta al processo, perciò la cauzione dovrebbe essere escussa e la famiglia sfrattata. Ree rifiuta questa possibilità e si precipita a cercare il padre. Da questo momento la ragazza dovrà affrontare una varietà umana disincantata e spregiudicata. Con un sottofondo di musica country ci si presentano un mondo di produttori di droga, di violenti, di assuefatti consumatori di stupefacenti. La ricerca non esce mai dalla zona del paese. Si deve affrontare una povertà spaventosa, un decadimento fisico – bellissima è la cantante del pub – mentale e morale. E’ un mondo distrutto, ripugnante. Unica possibilità di uscita è l’esercito. Gli Stati Uniti stanno combattendo molte guerre contemporaneamente. Hanno sempre necessità di truppe fresche. Il loro bacino non è New York o San Francisco. Loro riescono ad arruolare gente nei paesi dell’entroterra anche grazie all’opportunità di tanti soldi facili e subito. Altre speranze sono impossibili. Debra Granik è geniale. Il film è costruito con calma, con delle carrellate lente, soffermandosi sui dettagli dello squallore. E’ un film minuzioso, ricco di decadenti particolari. Le immagini si trattengono sul disfacimento. Le case sono piene di oggetti privi di anima; i cortili dimessi e trasandati: macchine spente, gomme abbandonate, e una miriade di oggetti di vita quotidiana immobili, sospesi, senza segni come in un day after. Tutto è statico, il carrello si muove e poi si ferma. Un istante e la nostra mente è riempita della malinconia, della tristezza di una popolazione abbietta. Gli esseri umani descritti, oltre la loro deformità fisica, hanno intrinseco una negligenza e trascuratezza morale. Però la regista evita giudizi morali: “Se sbaglia ancora mettilo in conto a me.” Il suo è un realismo sporcato dalla emotività della ragazza. Per lei sentiamo attenzione, ma sul resto c’è un comportamento distaccato, visto con l’occhio di un esterno. La fessura di singolare umanità aperta alla conclusione del film ha una peculiarità di interesse. Il terrificante viaggio notturno nel fiume di tre donne è il momento di sarcastica dolce emotività. E’ il massimo dell’aiuto e della bontà possibile da questa comunità. E’ una breccia a cui tutti si aggrappano. Anche Ree afferra questo mondo. La verità è una esistenza desolata, senza uscite. Potrebbero scappare, andarsene ma in realtà sono in una prigione, dove tutti sono incatenati.